Tentata fuga da una Casa di riposo

Albert Anker – Passeggiata scolaresca

di Raffaella Verdesca

Non lo sopportava, non avrebbe mai potuto.

Lei, Preziosa Satti, insegnante in pensione, dopo quarantacinque anni di onorata carriera, non riusciva a tollerare neanche l’idea di un tempo Condizionale usato al posto di un Congiuntivo: meglio la morte.

Aveva iniziato a diciannove anni la sua crociata contro l’ignoranza e solo due anni dopo attuato il tentativo di svuotare il cervello degli studenti dalla zavorra che lo infestava per legge naturale.

“Uhmm, vediamo cosa esce dalla testa di Ferruccio Rago: erba medica, paglia e un bel raglio d’asino!” la mattina passava in rassegna, una per una, le teste dei suoi alunni dopo un’interrogazione andata male. Tutti ridevano di tutti, tanto nessuno scolaro, dalla prima alla quinta Elementare, si sarebbe potuto salvare da questo pestaggio verbale.

Eppure, dopo i suoi innumerevoli cicli didattici, uno era rimasto l’alunno più indigesto alla Satti: Pietrino Sangallo, il figlio del sacrestano. La vecchia maestra se lo ricordava bene: secco come un chiodo, biondo di capelli e con uno sguardo talmente furbo, che pochi ne aveva incontrati così nella sua carriera scolastica. Era il 1952 e in quell’anno le era toccato insegnare alla scuola “Edmondo De Amicis”, in un paesino sperduto dell’entroterra lucano. Ad esclusione del signorotto del posto, lì la miseria alitava sul collo di tutti e un paio di braccia in più nel lavoro dei campi erano una manna dal cielo per ogni famiglia.

“Se io continuerei ad andare a scuola, poi mio padre che fa? Chi potesse aiutarlo a mantenere mia madre e i miei fratelli?” si era giustificato un giorno Sangallo dopo due mesi d’assenza dalle lezioni. Tutta la comprensione del mondo per la povertà, Vergine Santissima, ma un minimo di decenza bisognava pure esigerla da qualche parte!

E per frasi formulate come questa, la Satti aveva bacchettato, bocciato, punito e avrebbe perfino ucciso. Ma era un’insegnante, pertanto, in virtù della sua missione, si era sempre caricata la croce e pazientato, ribattendo fino a marchiare a fuoco nella mente dei suoi ragazzi, Pietrino compreso, regole di grammatica e tabelline. Fossero bastate quelle! Lei, collegiale benemerita del Ginnasio cattolico delle Orsoline in Roma, i primi anni d’insegnamento si era dovuta scontrare con un mondo sconosciuto fatto di analfabetismo, ma anche di unghie incrostate di sporcizia, grembiuli sgualciti, fiocchi sciolti e orecchie buone solo a far crescere il prezzemolo.

Poteva passare sopra ad un polsino unto, a una divisione che venisse eseguita evangelicamente come una moltiplicazione, ma sopra alla buona educazione e al congiuntivo mai.

“Cosa accadrebbe se un giorno una di voi villane entrasse al servizio di una famiglia ricca e onorata e servisse in tavola con mani sudice e lasciando cadere capelli nei piatti?” ripeteva alle sue alunne impaurite. “E come giustifichereste ai vostri padroni i metri che trasformate con tanta facilità in litri? Ai suoi tempi, neanche Gesù Cristo avrebbe osato tanto!” e le squadrava da capo a piedi con uno sguardo misto di rimprovero e benevolenza. “Benedette figliole, vi parlo così perché sono dalla vostra parte! Al mercato, un giorno, non saprete far di conto e molti si approfitteranno di voi se non imparate quello che vi insegna la scuola; negli uffici non saprete capire carte e documenti, ma soprattutto, qualora riusciste a trovare lavoro e marito, non sareste in grado di difendere i vostri diritti!”

La durezza che la Satti usava senza parsimonia, si faceva quindi guida, si trasformava nella culla della coscienza sociale che avrebbe accompagnato i suoi ragazzi fino all’età adulta. Gli alunni provavano per quella donna ruvida e accogliente, un sentimento misto di paura e dipendenza, ma mai di odio. Grazie a questo strano legame, molti di loro erano riusciti a rendere più dignitosa la loro esistenza, altri a continuare gli studi e, soprattutto, alcune scolare della V’ C e della V’ E, a farsi rispettare dalla famiglia e da tutto il paese.

Preziosa era stata sì donna, ma prima di tutto maestra.

Difficile spiegarlo agli infermieri della Casa di Riposo “Sancta Pietas” che ora le stavano attorno più indigesti di Pietrino Sangallo.

Aveva 87 anni, embè? Lei si sentiva un’insegnante di 87 anni!

“Vieni zia, siediti!”, accompagnandola verso lo sdraio per l’ora di relax, il personale cercava tutti i modi per dimostrarle ogni gentilezza possibile. Si trattava di assistenti bonariamente primitivi, incapaci di distinguere tra un ospite e l’altro della Casa di Riposo, allo stesso modo di una ‘o’ con l’accento e di una ‘a’ senza mutina.

“Maleducati!” insorgeva allora quella inviperita “Abbiamo per caso mai mangiato assieme? Allora dimenticatevi ogni confidenza e finitela con questo ‘zia’ che vi piace tanto usare con le vecchiette rincitrullite! Niente smancerie con me. Guardatevi nello specchio, piuttosto, vite sprecate!” e all’espressione interrogativa di quelli, l’arzilla maestra contrattaccava “ Ah, non vi sentite sprecati, vero? Buon per voi! Se avete studiacchiato per arrivare a imboccare i vecchietti senza riuscire a trattarli, potevate rimanere a zappare la terra!”

Piegata nel corpo dall’età e nella lucidità dalla vecchiaia, l’arzilla maestra lottava per difendere lo spirito che l’aveva resa fiera di sé stessa in tutti quegli anni.

I malcapitati di turno, non poi tanto lontani dall’analisi spietata di Preziosa, interpretavano le sue rimostranze come una delle solite farneticazioni da ospizio e si allontanavano dalla stanza con la stessa espressione vuota con cui vi erano entrati.

Un sospiro e alla donna non rimaneva altro che alzare le mani in segno di resa: neanche una come lei avrebbe più potuto far nulla per aiutare quelle teste di rapa in divisa.

La ‘Maestra’, come la chiamavano ormai tutti nell’Istituto, creava scompiglio col suo modo di fare intransigente ed esigente e non c’era per lei occasione che non fosse buona per esaminare e bocciare senza pietà l’intero corpo medico e paramedico di tutto il “Sancta Pietas”.

I tre figli della donna ci avevano ormai fatto il callo e le lamentele dei responsabili del costoso ricovero erano diventate per loro obbligatorie come le riunioni di condominio. Arrivavano spesso in Istituto a testa bassa, giustificavano i malumori della folla dei bocciati, condannavano l’irruenza della madre e pregavano di avere pazienza

“… che è un’opera di bene! Gli anziani sono innocenti come i bambini e in fondo tocca a ognuno di noi arrivare a quell’età, prima o poi.”

Tutti e tre avevano subìto la stessa sorte per mano della madre nel corso degli anni: recupero crediti per le disubbidienze, bocciature in virtù di comportamenti dissociati dall’educazione familiare e sospensioni giornaliere per sviste e mancanze di ogni genere.

Severità e dolcezza, bastone e carota.

“Vostra madre corregge tutto il personale, perfino il nome dei farmaci!” aveva sospirato il direttore della struttura incredulo e rassegnato.

“Non accusare, asino! Vedi come continui a giustificare la tua ignoranza?” si era allora sentito sbottare la ‘Maestra’ dall’altra stanza.

A udito se la passava davvero bene la vecchietta, e questo sembrava essere diventato l’incubo quotidiano del “Sancta Pietas”: non c’era parola, omissione o imperfezione lessicale che sfuggisse alla sua attenzione. Anche i medici responsabili di quella Casa che di riposo non era più, avevano cominciato a presentare inequivocabili sintomi d’insicurezza nell’espressione verbale e perfino nella compilazione dei documenti relativi alle diagnosi e a ogni tipo di burocrazia.

“Ahi, ahi, ahi, dottor Lazzari! E qui casca l’asino! I con-gi-unti-vi, dottore mio, non si studiano soltanto a scuola, ma si applicano nella vita! Io la stimo tanto, lei qui è il mio preferito, e mi meraviglio molto di certe sue, come dire, licenze verbali. Ma una teoria ce l’ho e la mia esperienza di solito non sbaglia. Si sarà per caso fatto contagiare da questa massa di grulli?”

Già, perché lì nella Casa di Riposo, gli ospiti e la maggior parte dei dipendenti erano gente semplice, gente che si era sudato da vivere col lavoro della terra o emigrando nelle città del nord.

I vecchietti che condividevano con Preziosa questa degenza forzata al primo piano, erano per di più sordi e alcuni completamente svagati. Erano gli unici, infatti, che non si lamentavano mai.

“Li vedete questi?” piagnucolava la Satti coi figli durante le ore di visita “Il più colto ha fatto la prima elementare!”. Era in quei momenti che la povera donna esigeva consolazione e la promessa che l’avrebbero fatta uscire da lì al più presto.

Ma i suoi ‘bambini’ sapevano di non aver scelta e cercavano così di convincerla della necessità di rimanere lì a insegnare qualcosa a quei poveri diavoli analfabeti.

“Vi dico che è una classaccia! Mai avuto a che fare con simili zucconi in vita mia. Immaginate cosa riuscirebbero a fare di un Trapassato remoto! Via, via: io mi licenzio e voi mi date un passaggio fino a casa chè ho tante faccende da sbrigare.”

Un’ultima arma: prometterle che quella sarebbe stata l’ultima settimana dentro all’Istituto, a patto che si fosse comportata da vera maestra, materna, paziente e comprensiva fino all’ultimo.

Lei annuiva col capo come aveva sempre fatto coi suoi direttori per senso del dovere, ma bastava un errore di pronuncia o una frase espressa in dialetto, che subito crollava ogni suo buon proposito.

La sua lucidità, infatti, veniva risvegliata soltanto dall’errore linguistico e, in un posto come quello, la poveretta era continuamente sollecitata a riemergere dal suo oblio.

Un bel giorno Preziosa iniziò a pensare alla fuga.

Le sue gambe, un tempo belle e obbedienti, erano diventate ossute e fuorilegge. Una notte, per darne prova, scivolarono fuori dal letto mentre gli sfaticati dormivano e oltrepassarono il portone d’ingresso inosservate dagli analfabeti in guardiola.

Gli addetti alla sorveglianza, infatti, esausti dopo l’ennesima lezione serale della maestrina sui pronomi, erano crollati in un sonno così profondo, che neanche l’allarme antincendio avrebbe potuto svegliarli.

Le strade, all’una di notte in inverno, erano deserte e l’asfalto reso scivoloso dall’umidità ghiacciata della valle. La donna procedette rasente al muro, curva sotto il peso del freddo e dei pensieri.

Non riconobbe il posto in cui camminava e cominciò quindi a ricercare affannosamente il grande portone della sua vecchia scuola. Ricordava che lo avevano riverniciato da poco e perciò lo avrebbe distinto tra tutti per il luccichio della tinta appena stesa, inconfondibile col suo profumo di fresco.

Bernardetta, la sua alunna di terza, quella sciocca, ci aveva perfino lasciato un’impronta col cappotto nuovo proprio la mattina prima: era così sbadata quella figliola!

Ma nonostante il tempo passasse e le gambe sentissero i morsi del gelo e della stanchezza, la scuola non sbucò fuori da nessuna strada.

Per fortuna Dio sembrò aver pietà della poveretta e prima che ci scappasse il morto anzi tempo, mandò la sorte a fare l’ultimo tentativo per salvarla.

Aldo, il minore dei figli della Satti, sicuramente il più ‘rimandato’ di tutti, aveva appena finito di fare baldoria in un pub irlandese lì attorno e rannicchiato in auto a ridere con due della comitiva, era rimasto per una decina di minuti a fissare gli oggetti fuori dal finestrino. Spinto dal delirio dell’alcool, d’improvviso si affacciò per urlare slogan calcistici alla maniera degli ultras.

Se non fosse stato brillo, sia chiaro, non lo avrebbe mai fatto, tanto più che la Guinness tracannata quella sera, aveva deciso di dissacrare la sua squadra del cuore e d’inneggiare a quella avversaria.

“Questa deve essere più fradicia di noi! Guardate come cammina!” osservò il suo amico continuando a ridere senza ritegno. Tutti e tre, allora, si misero a fissare la strana figura che avanzava al buio in fondo alla piazza.

Preziosa era inconfondibile col suo passo altero e consumato.

“Santo Dio, ma quella la conosco!” farfugliò Aldo come sotto l’effetto di una doccia fredda. “Mi spiace, ma vi devo lasciare qui alla fermata dei taxi: vado a prenderla!”

“Oh, no! Non ci dire che vai a donne pure a quest’ora!” protestarono in coro i compagni brilli e assonnati più di lui.

Senza una sillaba di risposta, Aldo li spinse fuori dall’abitacolo dirigendosi subito verso quella ‘donnina’ assai meno divertente delle ragazze che facevano ronda lì il sabato sera, ma certo più a caro prezzo.

“Mamma, che diamine ci fai qui?” le si precipitò incontro in preda a un’ansia incontrollata.

“Chiedevo indicazioni a queste fanciulle per arrivare alla Scuola Elementare Giacomo Leopardi, Primo Circolo, ma non sanno darmele. Una di loro è stata perfino mia alunna, pensa com’è piccolo il mondo. Si chiama Fernanda Montinari. Che ragazza esemplare che era! Educatissima, studiosa, un’alunna davvero invidiabile. Peccato che abbia trovato solo un lavoro notturno!”

“Mamma, per carità, sali subito in macchina che ti riaccompagno in Istituto!”

“Mamma? Istituto? Ma allora lei insiste con questa sceneggiata! Giovanotto, mi ascolti, non solo mi sta costringendo a darle del lei per mantenere le giuste distanze ma, se non la finisce immediatamente d’importunarmi, mi costringerà a chiamare i carabinieri! Sia gentile, suvvia, non mi faccia perdere tempo! Devo andare a scuola e non si è mai visto Preziosa Satti entrare in aula con un solo secondo di ritardo.”

“Bene, allora lasci che le dia un passaggio, signora Satti!” l’uomo cercò di assecondare la donna ricorrendo all’astuzia e alla pazienza.

“Insomma, vuole proprio che chiami le forze dell’ordine, a quanto vedo! Infastidire così una donna della mia posizione, per non parlare poi dell’età!”

“Sono Aldo, tuo figlio!” esplose allora quello di colpo spazientito e disperato.

La donna gli si parò davanti scrutandolo come sotto a una lente d’ingrandimento:

“Dovevo immaginarmelo!” commentò quindi a denti stretti “Non hai mai imparato le buone maniere e l’episodio di stasera è servito per metterti alla prova come quando eri bambino.

Ci sei sempre cascato.

Ricorda che a una signora, prima di parlarle, ci si presenta e poi si usano modi gentili senza mai farle paura nè pressioni. Aggiungo un particolare non di secondaria importanza: rispetta l’orario di lavoro della gente, se la incontri per caso lungo la strada. Per fortuna non tutti fanno un mestiere come il tuo, dove più che impegnarti passi il tempo e basta. Lo sanno tutti che il divertimento non richiede poi tutta questa puntualità! Non credo, infatti, che un pallone abbia tanta fretta di essere preso a calci: certi alunni sì, anche se non lo sanno. Non guardarmi con orrore: è un “prendere a calci” metaforico! Ora che ricordo, anche le metafore non erano il tuo forte a scuola. Torna pure a giocare a calcio che io continuo la mia strada a piedi.”

Illuminato da un bagliore di lucidità, Aldo stavolta non si fece cogliere impreparato:

“Al diavolo la partita! Preferisco accompagnarti a casa e lo faccio davvero volentieri.”

Con un largo sorriso di soddisfazione, Preziosa si voltò e, tornata indietro, abbracciò il figlio orgogliosa e mansueta come non mai:

“Bravo, Alduccio mio! Finalmente sono riuscita a vedere spuntare un germoglio da questa tua terra arida! Te lo avevo detto, no? ‘Arriverà il giorno in cui ti lascerò correre dietro a quella maledetta palla senza ostacolarti più, ma solo quando avrai imparato almeno la buona educazione!’ ” entrò in auto docile e beata, richiudendo poi la portiera con cura. “Oggi quel giorno è finalmente arrivato perché mi hai dimostrato di essere diventato un ragazzo maturo: il dovere e la famiglia prima di tutto. Torniamo pure a casa, allora, così tu finirai di fare i compiti e io di compilare la domanda di pensionamento.”

Con lo stesso stato d’animo di uno che ha catturato un leone senza sapere né come nè quando, Aldo si affrettò a riportare la madre nell’Istituto ormai in allarme. “Quasi, quasi ti lascio a scuola, mamma: anche tu devi fare il tuo dovere prima di ritirarti per sempre, no? Vedrai la baraonda che trovi ora che metti piede in classe!”

“Stai pur certo che li domerò.” rispose la vecchia maestra senza scomporsi: ‘Mi sa tanto che la pensione dovrà aspettare!”e chiudendo gli occhi, sospirò felice.

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