Diciannove anni. Di ieri e di oggi

Albert Anker – Passeggiata scolaresca

 

di Pino de Luca

Il tempo inesorabilmente prosegue il suo cammino. Costante, ritmico, senza che alcuno lo faccia flettere o riflettere. Il tempo passa e noi lo misuriamo, secondo calendari inventati ai quali tendiamo ad attribuire significati magici, mistici, esoterici. Un maggio all’anno ci tocca, il mese delle tasse e delle proteste tardive, delle rose e della Madonna.

Il tempo passa per ciascuno di noi, costante e imperturbabile, ma ciascuno di noi, quel tempo lo elonga e lo comprime secondo i suoi ricordi e secondo le sue speranze. Mi ritrovo a scuola con ragazzi che hanno 19 anni. Qualcuno anche di più ma ognuno ha i suoi tempi di maturazione. Diciannove anni, pronti per l’università, il lavoro, le forze armate.

Mi rivedo a diciannove anni, e il paragone è immediato. Quanto siamo diversi e quanto uguali. Portavo capelli lunghi a diciannove anni e tutto quel delirio di onnipotenza che ormoni impazziti e energia giovanile riescono ad esprimere.

E voglia di conoscere, di fare, di esser e di esserci, ovunque, dormire una perdita di tempo. Forza, coraggio, lealtà e voglia di giustizia erano i miti che ci avevano insegnato.

I fumetti ad esempio: Topolino e compagnia, poi quelli da uomini: Tex Willer, Blek Macigno e Capitan Miki, il bene trionfava sempre e la buona educazione veniva insegnata e valorizzata.

Di nascosto, circolavano fumetti meno “etici” come Kriminal e Diabolik oppure più ose’ come Isabella o il pornospinto di Sukia. Ma anche questi eticamente non devastanti.

Poi le strips americane dei Supereroi o dei Peanuts ci addestrarono ad apprezzare i fumettari italiani come Bonfa, Paz, Manara, Altan e compagnia.

I miei diciannove anni erano il prodotto di quella mistura. Oggi son tanto diversi. Social Forum e alcool, musica a palla e consumismo. In fondo il loro eroi dell’infanzia sono stati Pumba e Shrek, campioni di rutti e scorregge anche in chiave di performance. E poi i Simpson e strips anche più crude.

Non giudico se siano peggio o meglio, non mi permetterei mai. Ma trovo grande diversità, quasi antropologica e mi chiedo sempre se sono adeguato a continuare a insegnare, a quanto senso ha continuare ad essere portatore di un modo di vedere le cose così diverso e così divergente.

Scrivo queste cose il 21 di maggio 2011, è di sabato. Lunedi andrò a scuola ancora, in una scuola arruffata tra scadenze di fine d’anno, pastrocchi per i finanziamenti da richiedere (sempre troppo pochi e sempre più legati a furbizie e clientele piuttosto che a ragioni concrete e impieghi utili), in una scuola nella quale la cosa più positiva che ritengo di aver prodotto quest’anno è stata quella di apprendere che un ragazzo ha imparato a giocare a briscola. E nemmeno per merito mio.

Lunedi torno a scuola, una scuola che mi sopporta e che provo a sopportare, luogo nel quale tutti si sorridono e si salutano con grande simpatia, ma son pronti al concorso di Giuda. Lunedi torno nella scuola della frantumazione, di chi da Pumba e Shrek ha imparato solo rutti e scorregge, e di chi, per Pumba e Sherk, ha dimenticato la sua data di nascita, ammalandosi del giovanilismo gerontocratico tanto diffuso in questo mondo nel quale c’entro sempre di meno.

Scrivo queste cose il 21 maggio 2011 e mi chiedo cosa ho fatto io per dire ai miei ragazzi che non è esistito solo il mondo che loro hanno vissuto dalla nascita. Per dir loro che il mondo non è così, che loro sono nati in un altro mondo un mondo che proprio il 23 maggio è stato ferito la prima volta, nell’anno in cui loro nascevano si è consumato l’assassinio della speranza. Il 23 maggio il primo colpo e il 19 luglio il secondo, mortale, definitivo.

Mani luride hanno agito, menti raffinatissime le hanno guidate. È giusto che i miei ragazzi sappiano che gli assassini hanno perduto, ma che i loro mandanti e ispiratori no, sono tra noi, hanno facce comuni, sono tutti coloro che del 23 maggio e del 19 luglio hanno preferito e preferiscono dimenticare.

Torno a scuola il 23 maggio, perché non possiamo abbandonare la lotta. La lotta non ci appartiene, siamo noi che alla lotta apparteniamo.

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