Da Tricase a Civita Castellana: il racconto di Lutgarda Turco / Seconda parte.

LUTGARDA TURCO, LA PIETRA E IL PESCATORE

 

Da quel giorno la nostra vita cambiò radicalmente. Eravamo abituati ad abitare nella nostra comoda casa, e d’estate trascorrere i mesi in una casetta giù al porto di Tricase, quasi stessimo in villeggiatura. Ora invece eravamo isolati da tutti, in aperta campagna, in compagnia di serpi e di vipere. La delusione dei miei genitori fu grande: l’abitazione era piccola, un tugurio, e non era adatta per una famiglia di nove persone. Ma ormai ci dovevamo rassegnare: c’era un contratto firmato e si doveva rispettare. I miei genitori, al contrario di altre famiglie salentine, non erano pratici del tabacco, e così dovettero imparare in fretta le varie fasi della lavorazione, cosa che richiedeva non solo fatica, ma anche un corredo di saperi: era un’arte quella del tabacco. Così si buttarono a capofitto su quella nuova impresa e ben presto divennero bravi come gli altri. Però mio padre, in cuor suo, giurò che il suo mestiere sarebbe rimasto sempre quello del pescatore, una volta tornato a Tricase. Con molta pazienza e voglia di fare (sempre per migliorarci), papà e mamma trasformarono quel posto in un’oasi del deserto, facendo piazza pulita di sassi e di sterpi in modo che le serpi non trovassero nascondigli. Un pezzo di terra lo destinarono a piantare un orticello e al mercato comprarono delle gallinelle e un bel gallo. Al mattino era il gallo a svegliare noi piccoli e il coccodè delle galline sembrava un invito a correre per ritirare le uova fresche. Mi ricordo che quando stavamo a Tricase, tra noi piccoli si pensava che a Roma[1] fosse tutto facile, che lì si trovava di tutto, perfino le uova sotto terra: bastava scavare. Così, io e mia sorella, mentre i fratelli grandi avevano ben altro da fare, per non smentire la leggenda delle uova, cercavamo di trovarle scavando delle buche nel terreno con una zappettina. Ma per quanto ci dessimo da fare, delle uova neanche l’ombra. Con l’ingenuità che hanno i bambini, raccattavamo alcune uova nei pollai dei contadini vicini e senza indugio le deponevamo nelle buche facendo credere ai nostri genitori di averle trovate sepolte nel terreno. Ma, come si dice, le bugie hanno le gambe corte. Mio fratello un giorno ci seguì di nascosto e scoprì i nostri misfatti. Mamma naturalmente restituì tutte le uova con tante scuse e a noi fece una bella lavata di testa.

Mentre papà, le due sorelle più grandi e mio fratello si alzavano prestissimo per recarsi a raccogliere il tabacco, mia madre e noi più piccoli li raggiungevamo sul tardi dopo aver sistemato la casa e preparato il pranzo per tutti. Noi quattro fratellini, nell’andare, stavamo attaccati alle vesti della mamma. La strada bianca era lunga da fare e agli occhi dei passanti mia madre doveva sembrare come una chioccia che tiene i suoi pulcini sotto le ali e la guardavano come a compatirla e ad ammirarla al tempo stesso. Fatto un chilometro di strada, sostavamo nei pressi di un grande capannone dove c’erano dei pastori che custodivano le pecore. Lì ogni mattina, con molta sapienza, si faceva il formaggio e la ricotta: per tutto il circondario si spandeva un profumo di siero che ricordo tanto buono e invitante. I pastori, premurosi, erano felici di riempirci un secchio di siero, raccomandandoci, però, di non fermarci per la strada per via dei cani. Ma noi, incuranti del pericolo, ci fermavamo vicino ad un grande sasso dove tenevamo nascosto un passino che ci serviva per raccogliere la ricotta dal siero. Mio fratello più piccolo generalmente lo lasciavamo a casa perché ci era d’intralcio, ma una mattina a nostra insaputa ci venne dietro. D’un tratto, mentre eravamo intenti a mangiare la ricotta, si sentirono i cani abbaiare, i pastori accorsero e videro mio fratello piangente con le manine alzate circondato dai pastori maremmani. Ma non gli fecero del male, forse capivano che era piccolo e indifeso.

Restammo a Settevene per circa due anni, poi ci trasferimmo alla periferia di Civita Castellana, sempre in provincia di Viterbo, e precisamente sulla così detta Strada Romana, in una villa con un lungo viale di alberi di castagni selvatici, con attorno un parco con fiori di ogni specie e alberi di ogni frutto: stavamo proprio bene, sembrava il paradiso terrestre.

Eppure, in mezzo a tanta bellezza, mio padre sentiva dentro di sé uno sconforto sconosciuto. Era come se sulla sua testa dovesse incombere una terribile minaccia, come se la sua vita fosse stata segnata e tutte le cose belle che finora avevano riempito la sua vita, ma anche la nostra, dovessero aver fine. La sua giovane vita fu spezzata per una banale caduta in bicicletta a soli 46 anni, lasciando, dopo tre anni di duro lavoro nelle campagne, mia mamma (40 anni) e i suoi sette figli orfani in una terra ostile. Forse fu per un calo di pressione, purtroppo batté la testa sopra un sasso che stava sul ciglio della strada e a nulla servì la corsa in ospedale. Si spense soffocato dal suo stesso sangue, ma, prima di morire, ebbe la forza di stringere la mano di mia madre, come per darle l’ultimo addio e incoraggiarla per l’arduo compito che l’attendeva. Il giorno della disgrazia sta scritto dentro di me a caratteri cubitali e nessuno potrà mai cancellarlo. Era il 19 marzo del 1950, il giorno dedicato a San Giuseppe. Ricordo tutto di quel giorno: la mattina mio padre si alzò presto, ci salutò, baciò mia madre e uscì in bicicletta (non ricordo per quale motivo fosse uscito), ma sapevamo che sarebbe dovuto tornare nel tardo pomeriggio.

Era una bellissima giornata di quasi primavera, quando morì mio padre. Insieme con dei vicini di casa avevamo approfittato per fare una scampagnata fuori Civita per andare a pregare in una chiesetta lungo la strada per Castel San Elia. Per noi che venivamo dalla Strada Romana, si doveva attraversare Civita, prendere una stradina lunga e scoscesa, fare una breve sosta per una preghiera nella Chiesetta della Madonna delle Piagge, poi nella valle sottostante attraversare Rio Filetto sopra un ponte di legno, quindi salire fino al Tempietto della Madonna di Millecori. Mentre noi piccoli giocavamo a rincorrerci, i grandi recitavano il rosario. Ma, ad un certo momento, mia madre, da allegra che era, diventò improvvisamente triste e taciturna: sembrava che un grande macigno le fosse caduto sulla testa. La sua tristezza aumentava di minuto in minuto e un senso di nervosismo si impadronì di lei: mille pensieri affollavano la sua mente e ormai non aveva più voglia di continuare, voleva a tutti i costi tornare a casa ad aspettare mio padre.

Tornati a casa, mamma si sedette pensierosa sul gradino dove mio padre era solito sedersi per rilassarsi dalle lunghe ore di lavoro. Da quel gradino in lontananza si teneva la strada sotto controllo, così l’avrebbe visto arrivare. Attese invano fino a sera il suo ritorno, ma al suo posto arrivò qualcuno (adesso non ricordo chi) a darci la triste notizia. Di corsa i nostri vicini accompagnarono mamma in ospedale, ma fu tutto inutile, non ci fu niente da fare. Quel giorno mia madre pianse tutte le sue lacrime, lacrime di disperazione: non avrebbe più rivisto accanto a sé il suo uomo, il padre dei suoi figli, colui che le aveva dato sempre tanta sicurezza. A chi avrebbe confidato più le sue paure e i suoi pensieri? E come avrebbe fatto a portare avanti la famiglia? E c’era anche il tabacco da mandare avanti: come avremmo fatto?

Quel giorno mia madre maledì il momento in cui avevamo preso la decisione di emigrare, ma si rese conto che non poteva più ritornare a Tricase, ormai il suo posto era qui, accanto al corpo del suo uomo. Certo, non aveva l’aiuto di nessuno, ché i suoi parenti stavano tutti a Tricase. Da noi figli poi non voleva farsi vedere angosciata: sapeva che ci serviva tanto, tanto amore. Mentre piangeva tutto il suo dolore, fissava il suo amore disteso su quel freddo letto di marmo, privo di vita, e giurò che non avrebbe più coltivato il tabacco. Si ricordò di quanti pericoli aveva corso il suo uomo in tempi lontani, quando in mare aveva schivato mille volte la morte, specie quando la sera andava a gettare le reti insieme ad altri pescatori. Dapprima, magari, il tempo era bello, il mare calmo, ma ecco che all’improvviso cambiava il vento e si trovavano, senza neanche accorgersi, in mezzo alla burrasca con le barche alla deriva, trascinate via lontane dal porto. Allora le mogli angosciate si recavano sul molo con le lanterne accese e facevano luce ai loro mariti perché potessero orientarsi verso il porto. E aveva conosciuto anche i pericoli della guerra il suo uomo, quando le bombe cadevano da tutte le parti e noi tutti insieme, lui con i più piccoli in braccio, correvamo a metterci al riparo, fuori in campagna tra gli ulivi. E invece, ironia della sorte, per un destino avverso e crudele, mio padre trovò la morte cadendo da una stupida bicicletta. Morire così era proprio ingiusto! Io avevo solo nove anni e non mi rendevo conto di quale disgrazia mi fosse capitata. Vivevo? Sognavo? Non so come chiamarlo, un incubo?

Nei giorni seguenti, però, capii che non avrei più rivisto quel volto tanto amato, e tanto meno avrei risentito la sua voce rassicurante. E non avrei più ricevuto affetto, quell’affetto disinteressato che un padre sa dare ai propri figli.

Fortunatamente mia madre è stata una donna coraggiosa, e, nonostante le difficoltà che comporta una famiglia numerosa, ha dedicato tutta la sua vita a farci crescere sani e tranquilli. E malgrado tutto, io e miei fratelli siamo riusciti a crearci una famiglia decorosa e a far studiare i nostri figli. A nostra madre dedichiamo merito e riconoscenza, lei ci ha insegnato i veri valori della vita, ci ha educati all’onestà, alla giustizia, alla tolleranza, alla fratellanza, all’uguaglianza, all’amore per le persone deboli: valori che anche noi abbiamo trasmesso ai nostri figli.

Di mia madre ho sempre un dolce ricordo. Pur avendo mille problemi di salute, era sempre pronta al sorriso, a darmi consigli, e aveva tanta dolcezza nei suoi occhi buoni. No, non ti potevi sbagliare, lei era una persona speciale, mite e gentile. Alcune volte la sorprendevo a fissarmi con tanta intensità, quasi a voler scrutare il mio viso nei suoi occhi. Adesso mi piace pensarla in compagnia di mio padre, loro due a continuare la loro storia d’amore in un mondo magico, senza dolore, fatto di sole gioie.

Sto scrivendo questo racconto (non voglio chiamarlo neanche libro), ma non ho la presunzione di essere una persona istruita avendo fatto soltanto la quinta elementare. Voglio solo rendere omaggio ai miei genitori e lasciare a mia figlia Cristina, e a sua figlia Chiara, un dolce ricordo dei loro nonni.

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[1] Per semplificare, al posto di Civita Castellana, si indicava Roma come meta d’emigrazione. Questo per non dare più dettagliate spiegazioni. E per i salentini di giù, noi eravamo quelli di Roma.

 [Vai alla prima parte del racconto]

Continua…

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4 Commenti a Da Tricase a Civita Castellana: il racconto di Lutgarda Turco / Seconda parte.

  1. conosco l’odore ed il sapore amaro del tabacco, il colore della luna nel cesto e l’odore della terra bagnata che accomuna Noi tutti.

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