Lu furone, ovvero quando un deposito di risparmio non costava nulla.

di Armando Polito

Periodicamente, come tutti, ricevo il rendiconto del mio conto corrente e, una volta fatto il controllo sui prelievi e sui depositi (per i primi non si sa mai…), l’ultimo sguardo è rivolto al tasso di interesse attivo (quello passivo non mi interessa, perché da sempre sono abituato a fare il passo più corto della gamba). Spero di leggere O, Ō ma so già che non avverrà mai. Esasperato, infatti, dalla presenza di cifre come O, O12… che tre mesi dopo erano diventate O, OO1 e dopo altri tre mesi O, OOO1…, mi son recato in banca per chiedere che l’irreversibile processo venisse abbreviato e si passasse direttamente a O, Ō. La risposta dell’impiegato ha squarciato il velo della mia ignoranza e ingenuità perché ora so che mai potrò aspirare allo O, Ō perché in tal caso non ci sarebbero ritenute e banche e stato (lo scrivo volontariamente con l’iniziale minuscola…) non potrebbero sfruttare quella che potremmo definire come legge dei grandi numeri se essa non fosse stata già teorizzata da Bernoulli; la nostra potrebbe essere così riassunta: anche un solo centesimo di euro moltiplicato per 100 milioni (di clienti) dà un miliardo (di euro). Mi rendo perfettamente conto che non vivo in un’isola deserta e che proprio per questo i bisogni e i relativi costi sono direttamente proporzionali al numero di persone o istituzioni con cui debbo inevitabilmente rapportarmi. Sono così vittima senza scampo di un ingranaggio i cui movimenti, nonostante populistiche dichiarazioni anche a livello governativo, restano poco, anzi, niente affatto trasparenti. Conclusione: con un tasso simile un conto corrente in cui stazionino stabilmente cinquantamila euro non riesce con gli interessi a coprire le spese di gestione, mentre la banca può disporre a suo piacimento di quella somma  e, in caso di bilancio non soddisfacente, licenziare il suo manager non con un calcio in culo e con la richiesta di risarcimento del danno ma con una buonuscita degna di un faraone1. Solo nei film c’è la possibilità di un ritorno al passato che nel nostro caso sarebbe rappresentato dal classico materasso o dal mattone (inteso come nascondiglio e non come investimento) per le grosse somme e dal salvadanaio (per gli spiccioli).

Intendo qui parlare proprio di quest’ultimo, con riferimento alle forme dialettali salentine più correnti e annegare, così, la rabbia della prima parte nella nostalgia e nella filologia. Nel dialetto neretino il furone è un contenitore di creta che all’origine aveva una forma grosso modo simile ad una pigna (le dimensioni potevano variare) e nella parte superiore una fessura orizzontale attraverso la quale venivano inserite le monete.

Col tempo l’oggetto ha assunto forme diverse (quello del porcellino, della paperella, della botte, etc. etc.; l’ultimo raffigurato, addirittura dà pure un riscontro sonoro ad ogni moneta inserita…) e, a conferma del suo ormai prevalente carattere di oggetto di arredamento, nel fondo è comparsa anche un’apertura coperta da un tappo di plastica che ne consente lo svuotamento senza romperlo. Può sembrare paradossale in un’epoca dell’usa e getta, ma ancor più paradossale, secondo me, è il fatto che quel tappo ha conservato il furone ma distrutto il momento quasi magico della sua rottura, momento rituale che coronava un periodo più o meno lungo di affettuoso uso dell’oggetto e che liberava e da quei cocci faceva librare la realizzazione di un sogno pazientemente cullato… senza tener conto dei risvolti educativi del contatto diretto e non, come oggi, virtuale col risparmio.

Dopo avere ammazzato la rabbia con la nostalgia tenterò di ammazzare ora quest’ultima con la filologia. Al lemma furone nel vocabolario del Rohlfs leggo: “latino furo,-onis=ladro?”. Il punto interrogativo la dice lunga sulla perplessità che questo etimo a suo tempo suscitò nell’illustre studioso che lo aveva ipotizzato. La mia nasce da queste considerazioni: è vero che nel latino (medioevale, anche se il Rohlfs non lo specifica) furo/furònis (al posto del classico fur/furis) significa ladro e che dunque furòne potrebbe derivare dall’accusativo furònem; ma, se sul piano strettamente fonetico tutto va alla perfezione, su quello semantico non si capisce come si possa conciliare l’idea del risparmio e della sua custodia con quella del furto.

Per tentare di dipanare la matassa ricorrerò allo studio dei sinonimi (dando così, fra l’altro, un quadro più o meno completo delle denominazioni che l’oggetto in questione assume) e delle varianti (reali o presunte, come vedremo) di furòne. Raggrupperò i dati in tre sezioni.

La prima che mi accingo ad esplorare  (rapidamente, perché, in fondo, è irrilevante ai fini del punto focale dell’indagine) comprende i sinonimi, che sono: carùse (Ostuni), e carusièddhu (Casarano) (per la somiglianza con una testa tosata; in napoletano caruso significa capo tosato di fresco e nel dialetto neretino, per traslato, giovane); cippu (Casarano, Lecce, Martano, Novoli, Ruffano, Squinzano) (qui la somiglianza col cippo/ceppo è più vaga), cucùddhu (Alessano) [dal latino cucùllu(m)=cappuccio]; puddhu (Carpignano, Castrignano dei Greci, Cursi, Gagliano, Lecce, Maglie, Montesano, Patù, Spongano, Specchia, Vitigliano) e pùggiu (Tricase) [dal latino pullu(m)=giovane animale, bambino, per la somiglianza con la testa di un bambino]. È evidente che tutte queste voci da un punto di vista fonetico non hanno nulla a che vedere con furòne.

Questa seconda sezione comprende quelle che sicuramente sono varianti di furòne. Questa voce oltre che a Nardò è usata pure ad Aradeo, Alezio, Collepasso, Galatone, Gallipoli, Martano, Seclì, Latiano, Mesagne, San Vito dei Normanni, Pulsano. Furòni è usato a Carovigno, Erchie, Manduria e Sava), firòni a Brindisi, Francavilla Fontana e Oria, firòne ancora a Galatone e a Grottaglie, feròne a Carosino, Ceglie Messapico e Ostuni, frone a Martina Franca e a Massafra, furùne a Parabita e Ugento, fiuròne a Casarano e Melissano.

La terza ed ultima sezione registra questi dati: trùfulu a Seclì (la stessa voce indica una specie di fiasco di creta ad Alessano, Casarano, Corigliano, Castro, Gallipoli, Muro Leccese, Parabita, Salve, Tricase, Ugento; un uomo basso e tozzo a Mesagne), trifùddhi (per il Rohlfs probabile diminutivo del precedente) a Soleto, Zollino, Aradeo, Cutrofiano, Galatina e Sogliano.  Trùfulu appare connesso con il siciliano cutrùfu=caraffa, il napoletano cutrùfo=specie di bottiglia, l’antico provenzale cotòfle=bottiglia, nonché col neretino cutrùbbu=oliera (in basso disegno tratto da Ninina Cuomo Di Caprio, Ceramica rustica tradizionale in Puglia, Congedo editore, 1982, pag. 221)

e, per traslato, spalle, da cui anche scutrubbàtu=con le spalle piegate. Tutti questi ultimi potrebbero essere dal latino tardo chýtropus/chytròpodis=scodellino con manico usato come crogiolo, che è dal grecχυτρόπους/χυτρόποδος (leggi chiutròpus/chiutròpodos)=pentola con i piedi, composto da χύτρα (leggi chiutra)=pentola+πούς/ποδός (leggi pus/podòs)=piede. Trùfulu potrebbe perciò essere deformazione del diminutivo con aferesi di cutrùfu (cutrùfulu>trùfulu) del nominativo chýtropus inteso come appartenente alla seconda declinazione e non alla terza; lo spostamento dell’accento potrebbe trovare giustificazione nel fatto che sarebbe nato prima cutrùbbu (da un intermedio *chytròppus) e da questo cutrùfu.

Furone potrebbe costituire l’ultimo passaggio di questo tartassato lemma, nel senso che potrebbe essere accrescitivo, con aferesi,  di trùfulu (trufulòne>fulòne>furòne). Meno probabile che il fiuròne della seconda sezione sia collegato con i pumi de’ fiùri, i boccioli di fiori stilizzati, originariamente in creta, poi anche in metallo, che ancora oggi adornano a Grottaglie le estremità di ringhiere di finestre, terrazzini e balconi, e che, quindi furòne sia deformazione di fiuròne (grosso fiore).

E la rabbia, con la probabile sconfitta della filologia, ritorna a celebrare il suo trionfo dopo che era stata momentaneamente placata dalla nostalgia. Grr!!!

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1 Qualcuno in tv ha asserito che gli alti emolumenti servono a distogliere il manager nostrano dalla lusinga delle eventuali offerte straniere. Io credo che di fronte ai risultati che sono sotto gli occhi di tutti all’estero siffatto manager nella migliore delle ipotesi rimedierebbe l’ergastolo, nella peggiore si troverebbe appeso a testa in giù…Solo in Italia gli incapaci o i disonesti sono tenuti in alta considerazione, in ogni campo, meno in quello reale dove, probabilmente, non sarebbero in grado neppure di maneggiare una zappa.

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8 Commenti a Lu furone, ovvero quando un deposito di risparmio non costava nulla.

  1. oggi sono caustico: tutto perfetto, caro professore, tranne il titolo….
    non sarà meglio “lu” furone?
    Sempre cordialmente attento alle tue deliziose “chicche”
    Luigi

  2. fra i motti in volgare, attribuiti ai clerici vagantes, ve n’é uno che recita cosi :

    Dum sol sit in leone ……….bibe vinum cum furone.
    Il che avvalorerebbe l’ipotesi che il furone sia, appunto, un contenitore a bocca stretta che limita la quantità di vino bevuto, rispondendo così alla norma che sconsiglia l’eccesso di alcol nei mesi caldi, nel caso specifico in agosto, mese della costellazione del leone. Il termine deriverebbe quindi dal latino e, successivamente, dal volgare.
    Senza nè responsabilità nè garanzia!

  3. Dell’aforisma goliardico in questione sono attestate le due seguenti varianti: 1) Quando Sol est in Leone bibe vinum cum pistone (Quando il sole è nella costellazione del Leone bevi il vino a stantuffo): 2) Quando Sol est in Leone bibe vinum cum furore (Quando il sole è nella costellazione del Leone bevi il vino con furore).
    Il “furone” riportato dal gentile lettore nasce da errata lettura proprio del “furore” di 2. D’altra parte, come si poteva in un canto goliardico invitare a bere moderatamente?

  4. è vero che l’etimologia della parola è un enigma, soprattutto, per quella dialettale, e la fantasia ha un gioco predominante, però bisogna stare sempre con i piedi per terra. Arrivare da trufulone a fiurone ce ne vuole! Il fur ladro può significare che il deposito messo nel furone è tenuto nascosto (dal contenitore) come il ladro tiene nascosto il rubato.

    • Il suo tentativo di dare una spiegazione all’etimologia proposta dubitativamente, ribadisco ancora una volta dubitativamente, dal Rohlfs si scontra con la logica, anche economica, dei tempi passati. Mi riesce, infatti, difficile immaginare il risparmiatore contadino, scarpe grosse e cervello fino, affidare il suo gruzzolo ad un oggetto evocante nel suo significato originario un latrocinio, confondendo la protezione con la sottrazione. E a questo proposito mi piace aggiungere che quando la parola nacque, le banche, se esistevano, sicuramente erano ben diverse da quelle attuali …

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