Carburante dai frantoi oleari?

Da Giacinto Donno,  magister del passato, una lezione per il futuro!

 

di Antonio Bruno
 

Il patrimonio olivicolo italiano è stimato in 150 milioni di piante distribuite su una superficie di più di 1 Milione di ettari. La Puglia vanta il più alto numero di aziende olivicole, infatti sono più di 267mila. Dagli sforzi, dalla creatività e dai sacrifici di queste donne e uomini vengono fuori più di 222mila tonnellate di olio, quasi una tonnellata in media ad azienda, che rappresenta il 37% della produzione Nazionale di olio d’oliva. Le percentuali  sono il risultato di una media basata su dati ISTAT e ISMEA relative alle campagne olearie dal 2002 al 2008.
Per fare quest’olio ci vuole l’acqua che dopo essere stata a contatto o dentro le olive, diviene “Le acque di vegetazione dei frantoi oleari” che costituiscono da sempre un problema ambientale importante per le industrie molitorie, che in Italia raggiungono le 6.000 unità e rappresentano un problema per la nostra Regione perché più della metà delle acque di vegetazione dei frantoi oleari sono concentrate in Puglia.

Partecipo a tanti convegni in cui Imprenditori Agricoli Professionali si accaniscono in un piagnisteo e in lamentazioni struggenti e passionali in cui si dichiarano vittime delle norme assurde che riguardano le acque di vegetazione divenute un problema che, a loro dire, prima non esisteva, e che è stato posto, solo da poco tempo, da ignoti “sabotatori” del settore oleario.
E’ per questo che ciò che scrivo assume maggiore importanza perché ho letto con attenzione uno studio pubblicato nel 1930 dal compianto prof. Giacinto Donno che ha lavorato prima nell’ Istituto di coltivazioni arboree della Facoltà di Agraria della Regia Università di Napoli, che ha diretto l’Istituto di Coltivazioni Arboree alla Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Bari sino all’inizio degli anni 80 del secolo scorso e che ho avuto l’onore di avere come presidente della Commissione dell’Esame di Maturità che sostenni nel ormai lontanissimo 1976 presso l’Istituto Tecnico Agrario “Giovanni Presta” di Lecce.

Il Prof. Giacinto Donno, riferendosi alle acque di vegetazione, scrive che venivano chiamate anche acqua d’inferno o morchia e che rappresentavano un vero e proprio rifiuto che non può essere “impunemente” riversato né in vicinanza dell’abitato e tanto meno nei terreni coltivati.
Sei sobbalzato vero? Com’è possibile che l’esimio professore Donno nel 1930 abbia scritto nero su bianco  che si hanno delle, per così dire, “conseguenze punitive” se si riversano le acque di vegetazione nei campi coltivati? E tutti gli Imprenditori Agricoli Professionali che dicono che le acque di vegetazione dei frantoi oleari non rappresentano nessun problema, sbarcano forse da una navicella spaziale proveniente da un qualche pianeta sperduto nell’universo dove le cose stanno in modo diverso?

Ma proseguiamo leggendo la nota del 1930 del prof. Giacinto Donno che scrive del tentativo del prof. Riccardo Ciusa dell’Università di Bari di utilizzare il rifiuto, così lo definisce il prof. Donno, per il suo contenuto in zucchero che potrebbe dare il 3% di alcool. Sempre nella stessa nota leggo che il prof. Ciusa calcolava che la quantità di acqua di vegetazione era di 5 milioni di quintali da cui si potevano ottenere 150mila ettolitri di alcool da utilizzare come carburante. Insomma la proposta era quella di utilizzare il rifiuto acque di vegetazione dei frantoi oleari per estrarre l’acool che doveva servire da carburante.
Lo studio del prof. Donno che ho letto prende le mosse dalla domanda se tale intrapresa per ottenere dalla morchia l’alcol fosse economicamente conveniente.
E la domanda si poneva perché in un calcolo fatto nel 1929 dall’Ufficio Tecnico di Finanza di Bari si erano prese in considerazione le sole spese di trasporto delle acque di vegetazione dei frantoi oleari come uniche spese che si sarebbero dovute sostenere per ottenere dalla morchia l’alcol.

Il prof. Donno contesta questo calcolo innanzitutto perché non prevedeva la presenza di recipienti che contenessero tali acque che dovevano poi fermentare. Citando gli Studi del prof. Neri di Bologna che aveva identificato nelle acque di vegetazione dei Saccharomyces, il prof. Donno ricorda che la fermentazione alcolica si può ottenere avendo un minimo necessario di temperatura che è di 18°C.

Siccome la molitura delle olive avviene in inverno il prof. Donno rileva che per avere la fermentazione auspicata dal prof. Ciusa c’è la necessità di contenitori in numero sufficiente ma che gli stessi dovevano essere adatti a far avvenire la fermentazione.
Il prof. Donno ha fatto di più, ha tentato di mettere in pratica quanto affermato dal prof Ciusa di Bari osservando nel 1929 le acque di vegetazione provenienti da un  frantoio oleario di Corigliano d’Otranto del Salento leccese lasciate a riposo in un locale ben riparato.

L’osservazione del prof Donno è iniziata il 17 dicembre 1929 ed è andata avanti per 19 giorni sino all’8 gennaio 1930. In questi giorni ad eccezione dei primi due, la temperatura non ha mai raggiunto il minimo di 18°C necessario per la fermentazione.
Poi il prof. Donno ha prelevato a febbraio del 1930 dei campioni da analizzare con la bilancia di Westphal distillando 200 centimetri cubi e ottenendo un contenuto alcolico varante dallo 0,20% allo 0,91% e un contenuto in zucchero da 3,56 % a 4,76 %.
Il prof. Donno prende atto che il processo fermentativo non è avvenuto anche in considerazione del fatto che, se fosse avvenuto normalmente, si sarebbe ottenuta una quantità di alcol in rapporto alla quantità di zucchero presente attraverso un processo fermentativo che, come è noto, si completa in uno o due giorni.
Ma così come accade nel caso del vino povero in zucchero, anche per questo rifiuto l’alcol eventualmente ottenuto sarebbe attaccato dalle forme batteriche e ossidato con grande facilità in acido acetico.
Tale circostanza, a detta del prof. Donno, fa sfumare la speranza di ottenere da questo rifiuto l’alcol di cui il prof. Ciusa scrive senza spese tali da rendere ai limiti della convenienza economica tale intrapresa.

Non mi diffondo sulle altre considerazioni fatte in quella nota dal prof. Donno, ma è davvero entusiasmante che un nostro conterraneo, nato e vissuto a Novoli del Salento leccese, che si è affermato prima all’Università di Napoli e poi ha continuato a fare ricerca nella Facoltà di Agraria di Bari, attraverso l’osservazione e il tentativo di riprodurre un processo che annuncia risultati, ha impedito che, l’abbaglio di facili guadagni, informasse gli investimenti degli Imprenditori Agricoli Professionali del 1930.

Speriamo che anche gli Imprenditori Agricoli Professionali dei nostri giorni che hanno avuto l’avventura di leggere queste mie parole, comprendano questo!
Speriamo che si sappia che la formazione dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali è indirizzata a fare in modo di impedire che credenze, passaparola e facili quanto improbabili deduzioni o intuizioni di non meglio definiti “cultori della materia” o meglio di Soloni che “io mi faccio tutto da solo che ne so più io che sono pratico di te che hai studiato” facciano ottenere il risultato del fallimento attraverso lo sperpero dei risparmi di chi intraprende nella produzione del cibo.
 

 
 
Bibliografia
 
Giacinto Donno, Osservazioni e considerazioni sulla vegetazione delle acque di vegetazione delle olive. Portici 1930
E.De Bellis, La distillazione delle Morchie e il problema del carburante nazionale. Bari 1929
R. Ciusa, D. Massimeo, A. Mangini, Sulla utilizzazione delle acque di vegetazione delle olive. Rivista Zymologica, Chimica dei colloidi e degli zuccheri. Bologna Vol. IV N. 1 – 2 Anno 1929
R. Ciusa, D. Massimeo, A. Mangini, L’alcool dall’olivo. Propaganda Agricola Bari N. 9 – 1929
Gazzetta del Mezzogiorno Anno 1929 – 24 febbraio; 15 marzo; 2 – 22 – 30 maggio – 12 giugno

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