La lisca

 di Raffaella Verdesca

 

La spina dorsale dei pesci ha una geometria perfetta, di straordinaria simmetria. Ognuno dei suoi aculei, infatti, descrive un attraente disegno inserendosi ad angolo, insieme al gemello, lungo la struttura ossea portante. Quest’ultima è retta come dovrebbe essere il percorso della vita, ma le sue spine hanno inclinazione diversa e le si aggrappano ad arte, come le storie umane, pungenti e fragili. La lisca non ferisce se la si osserva da lontano, non graffia se la si prende con delicatezza, nel punto giusto. Sembra uno scheletro, ma è una traccia, il segno che la vita è passata da qui.

In questa ‘Lisca’ fatta di pagine c’è l’eco umano sciolto in brandelli colorati, uno diverso dall’altro.

Mi ritiro a riflettere e osservo che questo colore si accende o sbiadisce a seconda di quanta apertura ci sia verso il mondo e finalmente capisco perchè in certi momenti ridiamo per niente, così come siamo tristi senza un vero motivo.

Lo chiamano ‘umore’ e il Garzanti s’affretta a tradurlo: “Disposizione permanente o transitoria verso un certo stato d’animo”.

Inchiodati da un vocabolario: siamo permanenti o transitori.

Personalmente preferisco considerarmi aperta al mondo come una dei ‘transitori’, giusto per non dovermi immaginare musona fissa o ridanciana a vita.

Il trucco per avere un umore soddisfacente sta nel non perdersi il senso di niente.

C’è sempre un significato in quel che accade e in ciò che vediamo, brutto o bello; comunque sia, ci è richiesto un sorriso a denti stretti.

La chiamano ‘ironia’ in esclusiva concessione del Garzanti, che a tal proposito recita così: “Particolare modo di esprimersi che conferisce alle parole un significato contrario o diverso da quello letterale, con intento critico o derisorio.”

E’ questo l’elogio più grandioso alla saggezza di vivere, l’incoraggiamento cattedratico a prendere tutto con allegria, qualunque cosa avvenga.

Deridiamoci, quindi, e deridiamo anche la nostra incomunicabilità col mondo usando tutto il senso critico possibile!

Non esiste, infatti, un solo modo di dire le cose, ma almeno centomila: il migliore è una questione di umanità.

Un giorno un contadino scoprì la morte delle proprie galline, unica fonte di ricchezza per lui e per la moglie. Mustafà, il ragazzo che avevano preso a lavorare con loro da poco più di un mese, aveva dimenticato di mettere il catenaccio alla gabbia dei breton.

Per informare la moglie dell’immane tragedia, l’uomo si affacciò con naturalezza sull’uscio di casa e disse:

“Oggi, cara, niente uovo a pranzo!”

“Ah, ma non preoccuparti, marito mio, avevo già pensato di mettere in pentola l’anatra che abbiamo ucciso ieri!”

“Allora niente uovo per domani.”

“Pazienza, lo mangeremo doman l’altro!” ribattè la poveretta sorpresa di tanta insistenza.

“E’ che le nostre galline hanno deciso di non lavorare più per noi.” annunciò quello con la gravità di un sindacalista.

La donna, indispettita, lasciò cadere sulla tavola la casseruola e senza nascondere il suo malumore, chiese con un certo interesse: “E per chi lavorerebbero quelle ingrate ora?”

“Per gli angeli del Paradiso: uovo sbattuto la mattina e frittata il venerdì sera.”

La povera Matilda tirò un sospiro di sollievo: “E sia!” disse “In fondo le uova di gallina non vanno più sul mercato come prima e neanche nella mia pentola, ormai stufa marcia di albumi e sufflè. Meglio che quelle quattro svergognate rimangano lì a far felici i santi, chè io e te ce la caveremo benissimo anche da soli,…come sempre!”

(da “Racconti per ridere”, Gruppo Albatros Il Filo, 2011)

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