A Else Lasker-Schüler

di Sandro Montinaro

 

 

“[…] Sempre devo fare come vuole la tempesta,

Sono un mare senza riva.

Ma poiché tu cerchi le mie conchiglie,

Mi si illumina il cuore […]”.

 


(Else Lasker-Schüler, Solo te)

 

 

Il dipinto è un acquerello di Sandro Montinaro realizzato appositamente per questo brano.

Carburante dai frantoi oleari?

Da Giacinto Donno,  magister del passato, una lezione per il futuro!

 

di Antonio Bruno
 

Il patrimonio olivicolo italiano è stimato in 150 milioni di piante distribuite su una superficie di più di 1 Milione di ettari. La Puglia vanta il più alto numero di aziende olivicole, infatti sono più di 267mila. Dagli sforzi, dalla creatività e dai sacrifici di queste donne e uomini vengono fuori più di 222mila tonnellate di olio, quasi una tonnellata in media ad azienda, che rappresenta il 37% della produzione Nazionale di olio d’oliva. Le percentuali  sono il risultato di una media basata su dati ISTAT e ISMEA relative alle campagne olearie dal 2002 al 2008.
Per fare quest’olio ci vuole l’acqua che dopo essere stata a contatto o dentro le olive, diviene “Le acque di vegetazione dei frantoi oleari” che costituiscono da sempre un problema ambientale importante per le industrie molitorie, che in Italia raggiungono le 6.000 unità e rappresentano un problema per la nostra Regione perché più della metà delle acque di vegetazione dei frantoi oleari sono concentrate in Puglia.

Partecipo a tanti convegni in cui Imprenditori Agricoli Professionali si accaniscono in un piagnisteo e in lamentazioni struggenti e passionali in cui si dichiarano vittime delle norme assurde che riguardano le acque di vegetazione divenute un problema che, a loro dire, prima non esisteva, e

A proposito di febbraio e del freddo

di Marcello Gaballo

Il popolo salentino ha personificato anche i mesi dell’anno e da molte generazioni si tramanda questo breve raccontino, nel quale Febbraio chiede una cortesia al fratello Marzo:

frate Marzu, frate Marzu

damme tò giurni

e bbiti a ‘sta ‘ecchia cce lli fazzu!

Ca ci li giurni mia

l’abbìa tutti

facìa cuajare

lu mieru intra ‘lli ‘utti.

(fratello Marzo, fratello Marzo/ prestami due giorni dei tuoi/ e vedrai cosa farò a questa vecchia./ Avessi tutti i miei giorni/ farei congelare il vino nelle botti).

Ma a questa considerazione bisogna aggiungere anche un proverbio, che si recita a Scorrano:

Lu tàccaru cchiù gruessu

àzzalu pi marzu

(la legna più grande riservala per marzo).

Ogni commento si può risparmiare, visto che le temperature di questi giorni  confermano la secolare esperienza in fatto di metereologia.

Ancora una conferma?

Ci fribbaru no fribbarèscia

marzu mmalepensa

(se febbraio non porta il suo freddo, marzo potrebbe pensar male riguardo la sua reputazione di mese più freddo dell’anno).

La lisca

 di Raffaella Verdesca

 

La spina dorsale dei pesci ha una geometria perfetta, di straordinaria simmetria. Ognuno dei suoi aculei, infatti, descrive un attraente disegno inserendosi ad angolo, insieme al gemello, lungo la struttura ossea portante. Quest’ultima è retta come dovrebbe essere il percorso della vita, ma le sue spine hanno inclinazione diversa e le si aggrappano ad arte, come le storie umane, pungenti e fragili. La lisca non ferisce se la si osserva da lontano, non graffia se la si prende con delicatezza, nel punto giusto. Sembra uno scheletro, ma è una traccia, il segno che la vita è passata da qui.

In questa ‘Lisca’ fatta di pagine c’è l’eco umano sciolto in brandelli colorati, uno diverso dall’altro.

Mi ritiro a riflettere e osservo che questo colore si accende o sbiadisce a seconda di quanta apertura ci sia verso il mondo e finalmente capisco

Facciamo il punto sulla Punta

30/9/2011

Ultim’ora!

Grazie alla segnalazione degli amici del gruppo ForumAmbiente Salute apprendiamo che è stata vinta la causa pendente presso il TAR di Lecce contro l’ampliamento della base di PUNTA PALACIA, ad Otranto. Ieri il TAR di Lecce ha accolto il ricorso contro gli atti del Ministero della Difesa per l’ampliamento e ristrutturazione della base militare di Punta Palascìa. Il ricorso era stato presentato il 28/11/2007 dal Comitato Giù le mani da Punta Palascìa.

Per altre notizie:
http://www.sudnews.it/notizia/38850.html

da http://www.badisco.it/album/litoranea%20NORD/slides/391125(kk101).html

di Gianni Ferraris

Sono stato al TAR di Lecce. È la prima volta   che entro nelle ovattate sale di un tribunale amministrativo. Bello il palazzo. Era un convento di frati, mi si dice. Il palazzo di fronte, l’attuale municipio di Lecce, era invece un convento di suore. L’amico che me lo mostra mi dice anche di voci che si rincorrevano sulla continguità dei due edifici, su passaggi segreti che avrebbero, secondo la vulgata popolare, permesso convegni segreti e festaioli. Ah le malelingue.

Comunque sia, in quella lunghissima mattinata, ho aspettato con pazienza, assieme ad alcuni amici, che si discutesse il ricorso contro la cementificazione di Punta Palascia voluta dal ministero della guerra, ops, pardon, della difesa. Dalle 10,30 si è arrivati alle 13 circa. Per un’udienza durata una decina di minuti. 5 avvocati seduti con le loro belle toghe nere. 4 giudici, anche loro con toga. Parla l’avvocatessa del ministero, affiancata da un signore in divisa che, mi si dice, è un generale (mica noccioline). Il presidente contesta la mancata  produzione di alcuni documenti, per cui veda, la difesa, di procurarli. Udienza rinviata. Con buona pace del ministero che si vede bloccato per altri lunghi mesi il progetto scempio. Viva il processo lungo, in questo caso.  Uscendo, l’avvocatessa e il generale mi passano accanto, lei è palesemente adirata e dice sibillina “se vogliono gli atti li forniremo”. Al momento beccatevi questa e noi, finchè possiamo, ci godiamo un paesaggio ancora a disposizione del buon senso.

“C’è un punto di vista paesaggistico, dietro al nostro ricorso, ma anche culturale. La città di Otranto è stata riconosciuta dall’UNESCO  come “Messaggera di pace”. La cosa non coinvolge solo il centro storico della

Avetrana e il tristissimo dramma di Sarah: ricordi e riflessioni

di Rocco Boccadamo

L’idea di riaprire la pagina del tema nasce dagli ennesimi sviluppi giudiziari, chissà se di carattere definitivo, di questi  giorni.

Nel fondo degli occhi e in seno all’immaginario d’un terrone ragazzo di ieri e, più in generale, nella semplice e schietta visione e suggestione della gente del Tacco, Avetrana è sempre apparsa alla stregua di sito lontano, méta misteriosa, posto estraneo e avulso rispetto alle naturali e familiari luci e ombre fra mattino, giorno e notte, allo stesso scorrere del calendario e delle stagioni.

Intanto, un paese fuori provincia, prima tappa, è vero, del confinante ambito territoriale tarantino e, però, distante un abisso, quasi un’eternità di spazio e di tempo, dall’ultimo avamposto leccese, ossia Nardò. Due centri, collegati sì, l’uno all’altro, dalla statale “Salentina”, ma separati da un nastro d’asfalto di ben trentadue chilometri.

In mezzo, fino agli anni cinquanta/sessanta, il latifondo disabitato e, soprattutto, la “macchia d’Avetrana”, estensione vegetativa del genere sotto bosco, fitta, una volta parzialmente inesplorata, non a caso eletta a nascondiglio e rifugio da parte di loschi interpreti del malaffare, rapine, aggressioni.

Solo in un secondo tempo, grazie alla riforma fondiaria, quelle plaghe hanno gradualmente preso a popolarsi, dapprima con case coloniche spuntate e disseminate sui singoli poderi della piccola proprietà contadina, poi attraverso un vero e proprio agglomerato paesano, Boncore.

Tuttavia, continuava a sembrare interminabile il percorso delle mitiche autovetture Fiat 1400, cariche di poveri “ppoppiti” (abitanti del Capo di Leuca) migranti verso il Metapontino, per lunghi periodi di duro lavoro nella coltivazione del tabacco.

Così, essenzialmente, si fissava ed era recepita l’identità di Avetrana.

A titolo di cornice,  in concomitanza con i primi tempi dell’impiego di chi scrive nel capoluogo ionico, un fortuito tassello di riferimento correlato: l’assunzione di un giovane collega di Soleto (Lecce), il cui fratello maggiore, qualche anno prima,  aveva, a sua volta, lasciato il paese natio, trasferendosi, guarda caso, ad Avetrana, per assumere l’incarico di direttore della locale banca.

E il giorno d’oggi, cos’è, come si pone Avetrana? Beh, pur con i cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni e tranne qualche saltuario intermezzo di discorsi, congetture, ipotesi e para progetti che vorrebbero la realizzazione, sul suo territorio, di una centrale nucleare, nella sostanza, lo scenario della località non si presenta granché rivoluzionato.

Come dire, “ permangono” tutti i trentadue chilometri di distanza sopra accennati, sebbene, ora, occorra decisamente meno tempo per coprirli.

Sennonché, purtroppo, fulmine a ciel sereno, nel pieno dell’ultima torrida estate, si è consumata la tragedia, la misera fine della quindicenne Sarah, evento che, a causa della bulimia e invasività dei moderni media, ha finito col fare di Avetrana un macabro palcoscenico di spettacolo e di coinvolgimento collettivo senza confini.

Laddove, clamore e commenti a parte, nella fattispecie,  esiste un unico, vero motivo per riflettere: la fine della ragazzina dal volto tenero è stata segnata in un degrado, anzi sconvolgimento, di relazioni addirittura familiari, dietro la molla del dualismo, di contrasti, della gelosia, al cospetto e/o prospettiva di un abbrivio affettivo, per la vittima, verosimilmente, appena sbocciato. Amaramente, nella veste di “esecutori”, sembrano in gioco alcune persone vicinissime, giovani e non, della piccola sventurata.

Una trama che, anche in situazioni di menti e cuori disincantati e disillusi, non può non portarsi dietro, obiettivamente, un alone di sgomento e iniettare flussi di sconforto e mestizia.

Si permetta, altro che mela di Elena, fra Menelao e Paride, qui, senza interi eserciti di caduti e immolati, ma, alla luce dei tanti, ormai quotidiani casi  di azioni ed eventi criminosi e spietati, si è di fronte ad una immane strage di valori e di civiltà. Bisogna ammetterlo con forza e soffrirne dentro.

Dalle murge salentine alla cordigliera cilena. Maurizio Nocera e Sergio Vuskovic Rojo (III ed ultima parte)

a cura di Paolo Vincenti

Maurizio Nocera ripercorre le tappe della sua pluriennale collaborazione con Rojo in un altro articolo dal titolo Sergio Vuskovic Rojo e l’Italia, apparso su “Anxa News”, Anno VII, N.11/12, (novembre-dicembre 2009), del quale qui mette conto riportare.
 
“Sergio Vuskovic Rojo è stato in Italia durante gli anni 1976-1983 e 1985-1989.  Complessivamente undici anni di esilio. Nel 1989, ritornò nel suo amato Cile.  Professore di Filosofia all’Università di Bologna, non si limitò a conoscere  solo la città delle due torri, ma volle vedere e conoscere anche il resto del  «bel paese». La curiosità del filosofo e del politico lo spinsero a Capri, dove  sapeva esserci stato il suo amico Pablo Neruda, anch’egli esiliato negli anni ’50. Vuskovic volle visitare poi Torino, che sapeva essere stata la città dove  si era formato e aveva lottato Antonio Gramsci, l’autore di un libro che il  filosofo cileno ama molto e che tuttora continua a studiare, i “Quaderni del  carcere”; […]. Sergio Vuskovic Rojo ebbe occasione di venire anche nell’estremo tacco della  penisola, il Salento di Puglia, dove ci conoscemmo e facemmo amicizia. Quando  giunse nella mia terra, era già abbastanza conosciuto nel resto del paese,  perché aveva partecipato a numerose iniziative promosse per il ritorno della  libertà e della democrazia in Cile. Assieme al suo amico Nicos Bletas Ducaris  (autore del poema “Canto Particolare del Cile”, Bologna 1977), il poeta greco  esiliato nel 1967 nella stessa Bologna dalla dittatura dei colonnelli greci,  aveva partecipato a diverse manifestazioni di poesia e di varia umanità, sempre  spinti dall’anelito di progresso sociale e civile per tutti i popoli della  Terra. Vuskovic ebbe modo di viaggiare con Nicos anche in Grecia, in particolare ad  Atene e Corinto, dove nel 1977 tenne, ad un pubblico attento e numeroso, il  discorso “La donna nella filosofia”, nella Camera di Commercio

Ulivi monumentali della Puglia. Interventi per la rilevazione sistematica

In questi giorni è stato indetto dal Servizio regionale Affari Generali un Avviso di bando di gara per  l’affidamento del servizio di realizzazione degli interventi di rilevazione sistematica degli ulivi monumentali della Puglia in attuazione della Legge regionale n.14/2007,  “Tutela e valorizzazione del paesaggio degli ulivi monumentali della Puglia”,  legge che tutela e valorizza gli alberi di ulivo monumentali ” in virtù della loro funzione produttiva, di difesa ecologica ed idrogeologica nonché quali elementi peculiari e caratterizzanti della storia, della cultura e del paesaggio regionale”.

“Tale tutela e valorizzazione viene perseguita, in particolare, attraverso la definizione del carattere di monumentalità da attribuire alle piante plurisecolari, individuate attraverso attività di rilevazione sistematica degli ulivi monumentali della Puglia”.

L’oggetto del bando riguarda la creazione di un sistema informativo territoriale georeferenziato/database che riporti tutte le informazioni censite.

Così, tra l’altro, recita il bando:

“Il suddetto sistema informativo territoriale georeferenziato/database dovrà inoltre contenere i dati uniformati provenienti da:
a) le azioni di rilevazione sistematica sul campo già avviate;
b) le istanze di espianto/reimpianto presentate alla Commissione tutela alberi monumentali;
c) le segnalazioni di ulivi monumentali, presentate da cittadini ed enti ai competenti uffici regionali;

Breve excursus storico sulla professione della Guida Turistica

Breve excursus storico sulla professione della Guida Turistica:

Cicerone, Sacerdote, Accompagnatore, Servitore di Piazza, Corriere, Mestiere Girovago

 

di Daniela Bacca*

Logo della Giornata Internazionale della Guida Turistica

La Guida Turistica è una delle professioni tra le più affascinanti ed antiche del Mondo. Per molto tempo venne conosciuta con il soprannome di Cicerone, il cui termine si diffuse in Europa nel Settecento, molto probabilmente per la comparazione tra l’eloquenza dell’oratore latino Marco Tullio Cicerone e la parlantina delle guide improvvisate locali che accompagnavano i visitatori nei siti archeologici di Roma, decantandone le meraviglie monumentali e storiche. Inoltre questo confronto pare che nasca in riferimento non solo per le abili attitudini e conoscenze che portarono Cicerone ad essere avvocato, filosofo, scrittore e politico, ma anche per alcuni passi delle sue opere in cui egli descrive con grande cura narrativa il suo viaggio in Grecia ed Asia Minore. Egli stesso, affermando che la storia è “vita della memoria”, ha incentivato a sentirci ed eredi del nostro patrimonio ed a tramandarlo alle presenti e future generazioni. A tal proposito, secondo un’ interpretazione positiva, il termine Cicerone indica una persona  “colta, sapiente ed in grado di raccontare vicende del passato ma anche tradizioni ed aspetti della cultura”.

icerone questore in Sicilia scopre la tomba del Grande Archimede, Tommaso De Vivo, in Storia del Regno delle due Sicilie, 1833

La nascita e la storia della “guida turistica” è nella genesi del viaggio. Nel mondo greco, ad esempio, quando si doveva visitare una città caratterizzata da importanti testimonianze artistiche ed architetture e da luoghi carichi di storia ed emblematiche vicende, ci si rivolgeva ai Sacerdoti che, più colti e preparati rispetto a molte atre persone, potevano narrare eventi, miti e significati di una località. Nel Medioevo, i tantissimi pellegrini che si incamminarono verso i santuari ed i luoghi di culto avevano con se accompagnatori locali in grado di far conoscere ai viaggiatori religiosi le giuste direzioni, siti specifici, itinerari spirituali, notizie ed eventi legati alla storia ed ai riti. La figura della guida turistica, per diverso tempo associata anche al ruolo dell’accompagnatore, fu prevista anticamente dal diritto mercantile e trovò una prima definizione giuridica nel XIV secolo; infatti, in occasione del Giubileo, la Santa Sede emanò un editto con il quale autorizzava alcune persone ad assistere ed accompagnare i pellegrini che giungevano a Roma.

Viaggiatori del Grand Tour in Carrozza, con il giovane avantcourier

Nel Seicento il marchese Vincenzo Giustiniani, pronto e generoso nel dispensare raccomandazioni e suggerimenti per aspiranti viaggiatori, li consigliava dicendo: “assoldate una guida se volete vedere tutto ciò che val pena di vedere”. Molto spesso, ad indicare i luoghi, i monumenti ed i

Spulisciàtu, ovvero il participio passato in funzione aggettivale più caro a Rosa di Nardò

 

di Armando Polito

Chi sia il personaggio (se non è riuscito a diventare, a livello locale, un cult, certamente è stato un must) nominato nel titolo credo sia superfluo dirlo, anche se della sua esistenza ho appreso qualche tempo fa grazie ai miei nipoti assidui frequentatori di Youtube. Basterà, perciò, che il curioso o chi ha voglia di approfondire digiti la stringa appropriata dopo essere entrato nel sito appena nominato.

Il mio interesse, come al solito, è prevalentemente filologico ed è tutto riservato a spulisciàtu (participio passato di spulisciàre), l’improperio di Rosina più pulito e, per fortuna, il più frequente, quasi un intercalare, rivolto all’indirizzo dei suoi disturbatori telefonici.

Il Rohlfs collega spulisciàre alla voce del Brindisino spuscinà, da lui evidentemente considerata variante, senza fornire né per l’una né per l’altra alcuna proposta etimologica. Secondo me spuscinà è da s– (dal latino

Sulla scia di Francesco. I beati minori del Salento

di fra Angelo de Padova

Beato Francesco da Durazzo. Conventuale. Albanese d’origine, pugliese per la lunga dimora nel convento di Oria. Celebre per virtù e prodigi singolari compiuti in vita e dopo morte; è venerato con culto pubblico di Beato, fu dichiarato compatrono della città di Oria.

Beato  Diego da Gallipoli. Nasce a Gallipoli e muore ad Ostuni il 20 settembre 1666. Era un fratello laico, ma per la sua bontà e semplicità, per lo spirito di preghiera e fedeltà alla Regola fu fatto superiore a Salice e a Copertino. Veniva chiamato “il pastorello” Molto stimato dal popolo. Aveva il dono della profezia e dei miracoli, dell’estasi Operò molti prodigi. Dopo tre anni, disseppellito, per dar posto ad un altro frate defunto, lo trovarono fresco come il giorno della sua morte.

Beato Lorenzo da Fellinemorto nel 1551. 13° Ministro provinciale degli Osservanti: teologo insigne, valente predicatore, osservantissimo della regolare osservanza. Alla sua morte il suo corpo fu rivestito ben nove volte per soddisfare la pietà dei fedeli che sempre ne tagliuzzavano l’abito.

Beato Ginepro di S. Fr.sco da Francavilla Fontana, di grande spirito di umiltà, pazienza ed amore verso Dio ed il prossimo. Morto il 6 novembre 1828.

Beato Francesco da Galatina, morto con fama di santità e di miracoli a Nasi in Sicilia il 21 settembre 1535.

Beato Ludovico da Galatina, illustre per lo spirito di povertà, per il dono della contemplazione. Padre e fondatore della Riforma nella Provincia di S. Nicolò di Puglia. L’11novembre del 1591.

Beato Geremia da Lecce, conventuale, illustre missionario d’Oriente, che insieme a Fra Giacomo Puy, esortò 600 fedeli di Arsud in Palestina a confessare coraggiosamente la fede, dandone egli l’esempio col subire il martirio. Morto l’11 gennaio del 1260.

Beato Matteo da Lecce, amico e compagno di apostolato di S. Bernardino da Siena, ammirevole per santità e dottrina. Muore il  13 dicembre 1442.

Beato Giuseppe Maria di S. Francesco Saverio da Martina Franca, celebre per lo spirito di pietà, di umiltà, per il grande amore verso Dio e il prossimo. Muore il 10 novembre 1768.

Beato Alfonso da Oria. Francescano, morto ottuagenario, nel 1479, “non sine sanctitatis opinione”, nel convento di Santa Maria di Mosteiro, nella diocesi di Tuy in Spagna, dove fu sepolto. La sua festa si celebra il 20 aprile

Beato Francesco delle Stimmate da S. Cesario. Celebre per le virtù della povertà, della carità e della pazienza. Visse a lungo a Napoli con S. Egidio da Taranto, il quale a quanti gli si raccomandavano, soleva rispondere: “andate da fr. Francesco, quello sì che è un santo”. Morto a Oria il 20 dicembre 1805.

Beato  Diego da Seclì. Accusato di essere causa della peste che decimava la popolazione di Lecce, si dice che ogni qual volta stava per essere linciato o fucilato, le guardie sentivano una voce misteriosa dire: non vi permettete di ammazzarlo. Frate di grande contemplazione ed estasi, si elevava fino a otto palmi da terra rimanendo sospeso per parecchio tempo. Si racconta che una volta fece tutta una scala volando; a volte per verificare se fosse una finzione, i frati lo pungevano con spilli ed altri arnesi  dappertutto e lui rimaneva immobile, senza avvertire nulla. Condusse vita poverissima e, questuando, accettava solo quanto era sufficiente per una giornata. Impostò rigorosamente la sua esistenza a questa regola. Morì a Gallipoli riverito e venerato da tutti nel 1687.

Beato Francesco da Seclì. Nel Necrologio della Serafica Provincia degli Osservanti di Nicolò di Puglia, al 14 luglio troviamo scritto: “Nel 1672 a Gallipoli, nel Convento san Francesco, passò a miglior vita il Beato Francesco da Seclì, dottissimo nella scienza teologica, contemplativo ed estatico, fu più volte visto sollevarsi dal suolo, specie durante la S. Messa e durante il devoto pellegrinaggio ai Luoghi Santi. Stimato ed amato dai Superiori e dai frati tutti, fu ministro provinciale, visitatore generale. Nacque nel 1585 da famiglia nobile, a 15 anni, vestì l’umile saio; scrisse alcuni trattati come: “I Paragoni Spirituali”, “Il Viaggio di Gerusalemme”, “La vita del Beato Giacomo da Bitetto”, “Gli opuscoli di San Francesco da Paola”, “La novena di Maria” e “Verrà l’Ordine dei Catenati”. Al parlare di Gesù Crocifisso si scioglieva in pianto e al pianto muoveva coloro che lo ascoltavano.

Beato Egidio da Taranto, celebre per lo spirito di carità, umiltà, per il dono dei miracoli e della profezia. Morto a Taranto il 27 settembre 1682.

Beato Egidio senior da Taranto

Beato Lando da Taranto. Illustre per la santità di vita e per i miracoli che compiva. Morto ad Andria il 14 agosto 1305.

Beato Pietro di S. Giuseppe da Taranto, di specchiate virtù francescane, rifulse, in modo particolare, nell’osservanza della povertà e nel grande zelo per la salute delle anime. Morto il  10 novembre 1768.

Beati Macario da Uggiano e Leone da Faggiano, conventuali., martirizzato ad Otranto il  14 agosto 1480.

Caddhina zupputa, furtuna non n’ha

Ciò che fa bene e ciò che fa male. Ad ogni modo, oggi, fortuna e sfortuna non hanno un posto fisso

 

di Rocco Boccadamo

Nonno G., notando a tavola che le figlie maritate tenevano gli occhi aperti affinché i bambini piccoli non assumessero taluni cibi o sostanze che, a loro avviso, potevano essere inadatti se non dannosi, era solito pronunciare la seguente frase, tanto lapidaria, quanto saggia e rassicurante: “Solo le pietre fanno male”.

Egli, in fondo, aveva ragione da vendere, ove si pensi che, a quell’epoca, più o meno la metà del ventesimo secolo e, quindi, con il cosiddetto boom economico e la modernità ancora lontani, l’alimentazione, fra cibi e bevande, in seno alle comunità contadine del Salento, era basata essenzialmente su: friselle di grano o di grano e orzo, legumi, patate, cavoli, cicorie, rape, zucchine, peperoni, melanzane, verdure spontanee di campagna, pomodori, insalata, pasta fatta in casa, latte per le creature e gli anziani di salute cagionevole, più, ogni tanto e in porzioni risicate, ricotta, formaggio, maiale taglio unico, gallina vecchia, coniglio. Per condimento, olio d’oliva, infine, per dissetarsi, acqua piovana raccolta nella cisterna domestica e qualche bicchiere di vino di palmento.

Com’è deducibile, nulla d’artificiale e/o manipolato, la chimica, la plastica e i detersivi, erano illustri sconosciuti; insomma, il vecchio nonno era sostanzialmente nel giusto a parlare a modo suo.

E oggi, che cosa succede? Purtroppo, si è ovunque circondati, assediati e insidiati da prodotti, sostanze, leccornie, intingoli, dolci, specialità, mirabilia, offerte e proposte, abitudini e mode, affatto, neanche per una briciola, salutari, talora, anzi, inopportuni e sventurati, che hanno letteralmente stravolto molti dei sani e tradizionali costumi e ridotto al lastrico gli equilibri esistenziali, nel senso del buon vivere.

Non occorre fatica per rendersi conto e prendere direttamente tatto della palude, delle sabbie mobili intorno a cui ci si muove e dove, spesso, si finisce con l’affondare e annullarsi.

Giusto d’oggi, 20 febbraio, l’ennesima chicca sul tema di siffatta realtà: allo stadio “Via del Mare” della città dello scrivente, si è giocato l’incontro calcistico “Lecce – Juventus”, ma, si pensi un po’, con fischio d’inizio alle 12.30.

In barba al titolo “innocente” del giornale “Aperitivo con la Juve”, è venuto spontaneo di riflettere sullo scombussolamento d’agenda per venti e più migliaia di spettatori, sul salto del rituale pasto della domenica a tavola con familiari, parenti e amici, pasto surrogato nella fattispecie, nella migliore delle ipotesi, da panini, snack, intingoli vari.

Ma, perché lo strano inizio della partita alla mezza? La risposta, purtroppo, è una sola: i potentissimi condottieri mercenari, diretti e indiretti, della réclame procedono implacabilmente alla stregua di bulldozer, senza guardare in faccia a niente e a nessuno, il loro obiettivo è di diffondere e tendere notte e giorno, ventiquattro ore su ventiquattro, in mezzo alla suggestione popolare, i tentacoli del richiamo, forza e variabile miranti a stimolare senza mezzi termini, né soverchio discernimento, i consumi, in pratica arrivando idealmente a mettere le mani nelle tasche, rovistandovi sino a quando i già poveri portafogli non saranno svuotati del tutto.

Un brutto, davvero brutto, intento, cui, altra negatività, corrisponde, in prevalenza, non già resistenza o rifiuto, bensì abboccamento e assuefazione.

Riandando un attimo alle belle e sane stagioni passate, nonno C., l’altro progenitore del ramo paterno, richiamava spesso l’attenzione e suscitava la curiosità dei nipotini con questo scioglilingua: “Caddhina zupputa, furtuna non n’ha” (italianizzando, “Una gallina zoppicante, non potrà aver fortuna”).

Il trucco insito in tale frase astrusa, specie se declamata rapidamente, consisteva nella confusione, talvolta, dell’aggettivo “zupputa” con l’aggettivo “futtuta”, dal significato, secondo vocabolario, di “non più illibata”.

In rapporto all’oggettiva morale del tempo, anche quest’ultima constatazione consequenziale, doveva considerarsi azzeccata e aderente rispetto alla realtà. Infatti, di solito, la naturale e tradizionale fortuna per le donne (non per le galline) consisteva nel trovare marito, sennonché, il presupposto e la condizione per arrivare, di quei tempi, al matrimonio, erano dati, giustappunto, dalla castità.

In fondo, esattamente, o quasi, si fa per dire, come succede oggi…

A quest’ultimo riguardo, rinvangando l’antico scioglilingua di nonno C., nulla di male c’è da adombrare nell’evoluzione dei costumi, giacché la fortuna o la sfortuna sono, sì, elementi del vivere, e però, vivaddio, non propriamente decisivi, a pro o contro gli umani destini.

Quando il Rohlfs sbagliò nel voltare e volò fuori pista… forse

di Armando Polito

Sono strasicuro che se il Maestro fosse vivo sarebbe il primo a non considerare irriverente il titolo di questo post, perché è una caratteristica di chi è veramente grande (e lui lo è) quella di apprezzare con spirito sportivo qualsiasi critica fondata… ammesso che la mia lo sia e che non sia io, invece, a scambiare lucciole per lanterne dopo averlo accusato di aver scambiato la svolta con il volo.

Il pomo (mi auguro che non mi vada di traverso…) della discordia è la voce neretina utulisciàre usata nel senso di rotolare; al lemma corrispondente lo studioso tedesco rinvia a ulutàre dove, dopo aver registrato per Ruffano la variante utulàre (di cui utulisciàre è forma frequentativa), mette in campo, per quanto riguarda l’etimo, il latino volitàre. Questa voce è attestata, addirittura, nel latino classico col significato di svolazzare qua e là; infatti essa è forma iterativa di volàre. Ora è abbastanza evidente come tra il concetto di rotolare e quello di svolazzare qua e là i punti di contatto siano abbastanza labili, per non dire inesistenti. Il verbo da mettere in campo non è volitàre ma volutàre, anche questo intensivo, ma di vòlvere=far girare; sicché ulutàre è figlio della trafila: volutàre>olutàre (aferesi di v-)>ulutàre; di quest’ultima voce , poi, è sviluppo, per metatesi –lut->-tul– la variante di Ruffano utulàre.

Non è da escludersi, fra l’altro, che quel volitàre invece di volutàre sia frutto di una citazione a memoria o, addirittura, di un errore di stampa.

A completare il quadro: per il neretino c’è il quasi omofono ulitàre usato nel senso di sporcarsi fisicamente ma anche moralmente a causa di cattive frequentazioni (statte attentu cu ci ti ulùti!=sta’ attento a chi frequenti!). È voce non presente nel vocabolario del Rohlfs. Per quanto riguarda la sua etimologia la prima tentazione è quella di  farlo derivare dal precedente volutàre1, ma ad un più attento esame, anche per la conservazione dell’originario vocalismo, mi appare più attendibile come padre il latino oletàre=sporcare, forma fattitiva di olère=aver odore, per cui si passa dal concetto di emettere odore, anzi puzza, a quello di far puzzare, cioè sporcare in senso letterale e metaforico).

Spero solo di non aver detto troppe zozzerie… e di non aver rimediato la figura del personaggio in vignetta.

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1 Anche perché certe frequentazioni hanno il loro momento saliente in volteggi di natura non propriamente ginnica…

Luigi Presicce: vincitore della seconda edizione del premio Talenti Emergenti

TALENTI EMERGENTI 2011

 

Luigi Presicce (Porto Cesareo, LE, 1976) è il vincitore della seconda edizione del premio Talenti Emergenti promosso e organizzato dal CCCS – Centro di Cultura Contemporanea Strozzina – Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze.
L’artista riceverà il finanziamento della Fondazione Palazzo Strozzi per una monografia dedicata al suo lavoro, pubblicata da Silvana editoriale.
La sua opera, insieme a quelle degli altri 15 selezionati, verrà esposta nella mostra in programma alla Strozzina, dal 19 febbraio al 1° maggio.

La giuria internazionale composta da Achim Borchardt-Hume (Whitechapel Gallery, Londra), Barbara Gordon (Hirshhorn Museum, Smithsonian Institution, Washington D.C.) e Adam Szymczyk (direttore della Kunsthalle Basel) ha premiato Luigi Presicce trovando “la sua performance – così recita la motivazione – incantevole, enigmatica e che lascia un segno; con allusioni ai simboli dell’arte italiana e riferimenti ai rituali massonici e religiosi. L’impegno fisico delle performance insieme con la forza della presenza umana sono messi in primo piano; ma si percepisce qualcosa in più. S’incontrano, infatti, scenari che sembrano appropriarsi dell’intimità e dello stile delle miniature e dei quadri devozionali di santi e martiri. La presenza dell’artista, misteriosa e imponente, rafforza l’elemento contemporaneo, conservando però reminescenze storiche. Queste azioni all’interno delle performance ci rendono allo stesso tempo protagonisti e testimoni di riti che non possiamo decifrare del tutto e che collocano l’Arte nel campo di quel tipo di contemplazione prima riservata alle esperienze religiose“.

Luigi Presicce basa il suo lavoro sulla realizzazione di performance che uniscono teatralità e ritualità in un costante riferimento alla cultura e all’iconografia popolare e alla ricerca di una dimensione metafisica e irreale. Per Talenti Emergenti, Presicce ha presentato il video La benedizione dei pavoni, che documenta la performance, realizzata in occasione della celebrazione di S. Antonio Abate a Novoli (Lecce), in cui fonde insieme santità e magia. All’interno di una grande gabbia e alla presenza di due bambini, unici spettatori della performance, l’artista ha inscenato la sua apparizione a un gruppo di pavoni. L’artista è rimasto fermo in una posa ieratica, creando un immobile tableau vivant rotto solo dal movimento dei pavoni intorno alla sua figura. La presenza di alcuni oggetti liturgici rende la scena ricca di riferimenti e simbologie. La divisa massonica riporta l’attenzione a una dimensione esoterica, mentre alcuni elementi come la fiamma ricamata sul grembiule, la maschera cieca piramidale o la posizione della mano destra, rimandano all’azione della benedizione degli animali, nota iconografica distintiva del santo egiziano.

Talenti emergenti 2011: Luigi Presicce

Luigi Presicce
Nato a Porto Cesareo (LE) nel 1976, vive e lavora a Milano e Porto Cesareo.
Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Lecce, ma determinante è il percorso intrapreso autonomamente. Nel 2007 ha partecipato al Corso Superiore di Arti Visive (CSAV) della Fondazione Antonio Ratti di Como con l’artista americana Joan Jonas e nello stesso anno ha vinto il premio Epson per l’Arte. Nel 2008, nell’ambito di Artist in Residence, ha partecipato al workshop in Viafarini a Milano con l’artista americano Kim Jones. Sempre nel 2008 a Milano ha fondato (con Luca Francesconi e Valentina Suma), prima la rivista Brownmagazine e successivamente il Brown Project Space del quale attualmente cura la programmazione. Con Salvatore Baldi dal 2007 dirige un programma di residenza a Porto Cesareo (LE). E dal 2011 insieme a Giusy Checola si occupa di ArchiviAzioni, un archivio per l’arte contemporanea nel Salento. Nello stesso anno ha vinto il premio Talenti Emergenti 2011 indetto da Strozzina, centro per l’arte contemporanea a palazzo Strozzi, Firenze.

Il mago di Cefalù, 2009, performance per 2 spettatori, preparco di Fiumicello (Go)

Con Luigi Negro, Emilio Fantin, Giancarlo Norese e Cesare Pietroiusti ha

La cappella di S. Maria Alemanna di Ugento

  

la volta decorata della cripta del Crocifisso a Ugento

di Luciano Antonazzo

“Di questa antica cappella un tempo esistente in Ugento si è molto parlato in quanto, come chiaramente indica la sua intitolazione, strettamente legata ai Cavalieri Teutonici.

L’Ordine religioso-militare sorto in Terrasanta per assistere i pellegrini tedeschi si sviluppò rapidamente nel Mediterraneo, ottenendo privilegi ed immunità sia imperiali che papali.

In Puglia, dopo il 1223, i Teutonici ottennero in concessione l’Abbazia di S.Leonardo di Siponto con tutte le sue grance ed i ricchi possedimenti sparsi dentro e fuori la regione.

Per varie vicende storiche, verso la seconda metà del 1400, il ricchissimo monastero di Siponto, detto allora delle Matine o di Torre Alemanna, venne soppresso e tutti i suoi beni con relative entrate, sottratte ai Teutonici, furono affidati in commenda al cardinale di Parma.

Anche nel nostro feudo gli agostiniani dell’Abbazia di Siponto  possedevano dei beni, come attestato fin dal 1448 da alcuni resoconti del baliaggio teutonico in Puglia e come confermato da due documenti (del 1467 e del 1485) rintracciati da Primaldo Coco nell’Archivio di Stato di Napoli e pubblicati in un suo saggio.

cavaliere teutonico

Nel documento del primo settembre del 1467 Giovanni Grande di Francoforte, luogotenente e socio percettore di S.Leonardo, espose che l’Ordine dei Teutonici aveva nella città di Brindisi la chiesa di S. Maria degli Alemanni alla quale appartenevano beni siti “tam in civitatibus Brundusii, Neritoni, Licii, Hostuni, Galatuli, Casarani, Ogenti, Callipoli, quam in aliis locis provinciae Hidrunti”, aggiungendo subito dopo che (poiché mancava) era necessario nominare un percettore affinché i beni non patissero detrimento.

Ad un ventennio di distanza la gran parte dei possedimenti del Salento di pertinenza della chiesa di S. Maria degli Alemanni di Brindisi risulta affittata o concessa in enfiteusi, e anche quelli posti nel territorio di Ugento e feudi circostanti seguirono la stessa sorte, come attestarono il trenta luglio del 1485 il giudice ai contratti Santillo de Vito, di Bari, ed il notaio Paolo Serbo della stessa città.

La loro fede giurata riveste assoluta importanza poiché è esplicitamente affermata l’esistenza in Ugento della chiesa intitolata a S. Maria Alemanna e che erano di sua pertinenza tutti i beni dati in affitto a tale Angelo Spano.

Nel documento in oggetto sono esposti in questi termini i punti essenziali del contratto:

[…] In primis li dicti procuratori locano, affittano, et arrendano tocti li introiti de li dicti terre, cità  et lochi pertinenti alla ecclesia de S. maria Alemanna de la cità de Ogento, zoé dinari, censi, cera, frumenti, pertinenti alla dicta ecclesia che se ha beano da riscoterre per lo dicto Don Angelo ad soj spesi et fatiche per anni sei ad triennium […]; item che lo detto Angelo sia tenuto ad mantenere la ecclesia cum lampi accesi, cera messa, et omni settimana dirsi una messa; item che lo dicto Angelo sia tenuto a sue spese pagere le dicte oglio, cera, et altre cose, excepto in repqaratione eccl[esiae] et decimarum et che sia tenuto pagari ultra li tarii quindici, tarii tre allo episcopo et tarii uno allo cantorato; item che lo dicto Angelo rescota tutto quello che rescoteva prima”.

Furono quindi previste per lo Spano le sanzioni in caso di inadempienza e precisamente. “ad poenam unciorum I de carlenisi si dicto Angelus predicta non  adempliverit; non facta soluzione in dicto tempore sit excomunicatus”.

Si è cercato, finora invano per l’assoluta mancanza di documenti, di identificare l’antica chiesa o quantomeno di individuarne il sito, e pertanto ci si è dovuti limitare ad avanzare solo qualche ipotesi in proposito.

Così la presenza di ben tre raffigurazioni della Madonna (patrona dell’Ordine) e di scudi nero-crociati dipinti sulla volta della cripta del Crocifisso  ha fatto ipotizzare una sua possibile identificazione con quest’ultima o quantomeno una committenza dei suoi dipinti da parte dei Cavalieri Teutonici; ma oltre la presenza preponderante di scudi rosso-crociati che farebbero propendere per una commissione dei Templari, sembra escluderlo il riferimento che si fa , nel contratto di affitto citato, ad “eventuali” riparazioni della chiesa.

Allora la cripta era infatti tale di nome e di fatto, ovverossia una grotta scavata nel tufo, per cui non si vede quali interventi riparatori fossero immaginabili.

Solo oggi, grazie al rinvenimento di un documento, frutto di nostre assidue ricerche, è finalmente possibile indicare il sito e conoscere la struttura dell’antica chiesa eretta (forse) dai Teutonici in Ugento.

Si tratta di poche righe scritte nel 1628 in seguito ad una visita pastorale, e costituiscono l’unico, e pertanto preziosissimo, documento in cui si parla di questa nostra perduta chiesa.

Ne riportiamo testualmente la parte più significativa:

Ecclesia Santae Mariae della lamanni [sic]

Deinde visitavit Eccl.am Santae Mariae della lamanni quam est annexam ut habetur in visitazione Rd.mi Sebastiani Minturni Ecclesiae Santi Leonardi della Matina, quam possedetur per [ manca il nome del possessore] et est commendatam Abb. Thomas Dherle per R.dum Joseph Rubeis Episcupum Uxentinum sub die 5 mensis martii 1599. Ecclesia sita est in suburbio dictae civitatis in via qua ducit Taurisano, et est antiqua, circumcirca depicta variis imaginibus Santorum; habet tria altaria, unum intra chorum, et duo extra hortum; et altare in quo est titulus ipsius Eccl.ae fuit inventum decenter hornatum, caret tamen altari portatili, quod tempore celebrationibus apponitur. Prope ipsum altare ex latere dextro pendent lampa ardens, et ex eodem sepoltura ruditer (?) tecta. Tectum ecclesiae est tegolis testaceis […]; Imago Virginis est in pariete, antiqua, cum vultu magno, et pendent aliqua vota”.     

La breve descrizione della cappella continua con l’elenco degli oggetti d’arredo e dei pochi immobili posseduti, comprendenti “una casa terragna” adiacente. Si conclude il documento con la precisazione che il suo introito era di venti carlini  l’anno e che su quella gravava l’onere di una messa settimanale nell’altare di S. Maria Alemanna.

La cappella dei Cavalieri Teutonici si trovava dunque a poca distanza dalla cripta del Crocefisso, sulla antica strada, o meglio, sentiero che conduceva a Taurisano ed il cui tracciato, almeno per il tratto iniziale, non coincideva con l’attuale, ma si snodava alle spalle del santuario della Madonna della Luce.

Di questa chiesa fondata dai Cavalieri Teutonici non è rimasto alcun vestigio, nonostante dovesse essere stata un a chiesa importante, se non altro per l’esistenza di un “altare portatile” o mobile, espressione che sta ad indicare una “pietra sacra” piatta, consacrata dal vescovo e contenente reliquie, sulla quale è permesso celebrare la messa, anche fuori dalla chiesa, in virtù di un indulto della Santa Sede.

Una seconda ed ultima testimonianza della esistenza della chiesa di S. Maria Alemanna risale al 1688, anno nel quale, in data 22 ottobre, fu battezzato “justus Fortunatus cuius parentes ignorantur, repertus expositus in Ecc. S. Mariae della Manni extra suburbium huius civitatis”.

L’esposizione di un neonato nella cappella denota che a quella data la stessa era certamente frequentata e forse ancora officiata, anche se era ormai sconosciuta ai più la sua originaria e corretta intitolazione, oltre che la ragione della stessa.

(pubblicato su Il BARDO, anno XVI, N. 2, Dicembre 2006)

Spilu per tutti!

 

di Armando Polito

Non intendo fare concorrenza con l’aggiunta di una semplice s intensiva al motto che contraddistingue e compendia le promesse elettorali di Cetto La Qualunque; nè tantomeno fare il facile moralista dicendo chi è senza tangente posi la prima pietra.

Sfrutterò, invece, proprio il proverbio evangelico originale per ricordare quante volte siamo stati presi dalla voglia irrefrenabile di qualcosa, per lo più attinente al campo alimentare, e come questa voglia sia diventata direttamente proporzionale alla difficoltà di soddisfarla. Ho l’impressione, addirittura, che spesso viga su questa terra una sorta di legge del contrappasso, dal momento che, per esempio,  spesso un diabetico è ghiotto di dolci e un delicato di stomaco è un patito della frittura.

Tutto questo il nostro dialetto lo esprime con la voce spilu e, siccome l’appetito vien mangiando, oggi mi ha preso proprio la voglia di approfondirne l’etimo. Questa voce fa parte della schiera nutrita di quelle che sono in attesa da qualche decennio di un approfondimento da parte mia, che sono, poi, quelle per le quali il Rohlfs non avanza proposta etimologica o ne avanza una che mi convince solo parzialmente o non mi convince affatto.

Nel nostro caso addirittura è lui stesso con il punto interrogativo finale ad esprimere perplessità. Al lemma spilu, infatti, rinvia a sfilu, spiùlu; andando

Erna Fergusson, l’ideatrice della guide turistiche femminili

Albert Einstein nel Grand Canyon,1931, Collection, Museum of New Mexico – photo archives

di Daniela Bacca*

Nel mese in cui si celebra la “Giornata Internazione della Guida Turistica” il viaggio della memoria e della riconoscenza si incammina lungo i sentieri di  Erna Fergusson, donna animata da straordinaria intelligenza e sensibilità e la mia “antenata” collega che, con il suo impetuoso amore e talento per la storia e le storie, la cultura e le tradizioni, il turismo ed il viaggio, ideò nei primi anni del Novecento il modello professionale della guida turistica femminile. Erna incarna, con i suoi molteplici carismi caratteriali, attitudinali e professionali, la figura contemporanea della guida turistica, una chiamata vocazionale verso una professione che richiede un intimo dialogo con il territorio, la sensibilità di scoprirlo, conoscerlo ed apprezzarlo, la facoltà di saperlo raccontare profondamente, e l’amorevole ospitalità nei riguardi del turista nell’accompagnarlo verso lo stupore e la ricerca delle specificità e tipicità locali. Molti sono a sottolineare il suo aver “sintetizzato la fiera indipendenza e la pista sfolgorante della donna moderna del XX secolo”, inventando, soprattutto in quel momento storico, in cui erano limitate le scelte lavorative per la donna, una professione che avrebbe offerto indipendenza personale ed economica nella sfera del sociale, della cultura e del turismo.

Beautiful Swift Fox Erna Fergusson and the Modern Southwest, di Robert Gish

Erna Fergusson nacque ad Albuquerque il 10 gennaio 1888 da una ricca, conosciuta e distinta famiglia del New Mexico, trascorse i suoi anni formativi a Washington, si laureò in Pedagogia, conseguì il Master in Storia presso la Columbia University di New York, ed insegnò nelle scuole, per diversi anni, manifestando la sua predisposizione alla divulgazione ed alla comunicazione. Durante la sua vita tantissimi furono i suoi interessi e le sue occupazioni, che denotano un animo generoso, introspettivo, avventuroso ed intraprendente, e sebbene abbia viaggiato molto, ha mantenuto come residenza permanente la sua città natale, avvertendo il forte impegno ed amore per il proprio luogo d’origine. Durante la seconda guerra mondiale, Erna lavorò con la Croce Rossa, viaggiando nei villaggi più sconfinati e nelle città  e nelle zone rurali di tutto lo Stato del New Mexico, ed aiutando le famiglie dei soldati. Dopo che furono terminati i conflitti militari, scrisse, come reporter, diversi articoli su Albuquerque. La passione per la scrittura, legata soprattutto al racconto delle identità e delle culture dei siti in cui visse, verso i quali si sentiva legata da un profondo senso e sentimento d’appartenenza, fu una delle sue più intense occupazioni. In

Culacchi te papa Cajàzzu.2

Lu messone

di Alfredo Romano

‘Na fiata papa Cajàzzu, siccomu nde cumbinava tante te le soe, foe casticatu te lu Vescuvu cu bàscia ffazza lu prete a nn addhu paese. Acquai ca li cristiani, vitendu lu prete nou, ci cchiùi scia nne ddumanda quantu se facìa pacare cu ddica messa. Quandu se sparse la voce a llu paese ca se pijàva sulamente centu lire, mbece te le mille ca se pijàvanu l’addhi preti, mo’ ìi bitìre comu tutti fucìanu a ddha papa Cajàzzu cu ordinànu messe. Papa Cajàzzu te la matina ‘lla sera nu’ ffacìa addhu ca cu ssegna messe susu la liźètta, puru vinti-trenta lu stessu giurnu, e ppe’ ogni ordine se facìa tare le centu lire ‘nticipate.
Mo’ a ll’addhi preti ne uschiava lu culu, ca nišciùnu scia cchiùi a ddha iddhi cu ssègna messe. E sse ddumandàvanu cumu cazza[1] putìa fare papa Cajàzzu cu ddica tutte quiddhe messe.
Sicché li preti nu giurnu se rratunàra e šcira tutti te paru a ddha papa Cajàzzu. E nne ddumandàra: «Papa Cajàzzu, sapìmu ca vènanu tutti cqua ttie cu ssègnanu messe: ma se po’ ccapire cumu sangu faci poi cu ddici tutte quiste messe?»
«Na!,» tisse papa Cajàzzu «ca sta be proccupàti tantu? Ca ticu nu messone e bale pe’ ttutti.»

Gli Armeni in Italia

di Boghos Levon Zekiyan

Università di Venezia «Ca Foscari»

Cristo in Trono, dal Vangelo di Etchmiadzin

Le prime vestigia sicure di un’attendibile presenza di armeni nell’Italia medievale si riscontrano nell’Esarcato bizantino di Ravenna. Alcuni degli esarchi erano di origine armena, come il famoso patrizio Narsete (Nerses) l’Eunuco (541-568) e Isaccio (Sahak) (625-644). Di quest’ultimo si trova nella chiesa di San Vitale a Ravenna uno splendido monumento con sculture ed epigrafi che lo proclamano «gloria dell’Armenia». In un mosaico della stessa chiesa è forse lo stesso Narsete che si vede al fianco dell’imperatore Giustiniano. Inoltre si trovava a Ravenna, per la difesa della città, una milizia composta per la maggior parte di armeni, detta perciò «armena» o numerus Armeniorum. Per la stessa ragione anche il quartiere dove dimoravano i militari, la Classis, nella zona litorale della città, fu pure chiamato “Armenia”.

Questo nucleo di Ravenna può essere considerato giustamente come la prima colonia armena dell’Italia medievale. È da rilevare però che quegli armeni erano nel medesimo tempo cittadini bizantini, erano cioè bizantinoarmeni. Nello stesso periodo, oltre a quelli summenzionati, vengono ricordati pure altri nomi di capi armeni in Italia, sotto il comando dei quali combatterono anche numerose soldatesche armene.

Contemporaneamente a questi nuclei di militari e funzionari, non mancarono anche gli uomini di commercio che si sparsero lungo le coste settentrionali dell’Africa, per la Sicilia, fino in fondo all’Adriatico e a Ravenna.

dipinto di Francesco Maggiotto (1750-1805)

Secondo una tradizione, due reliquie di San Gregorio l’Illuminatore sono custodite in Italia: a Nardò le ossa di un braccio e a Napoli il cranio, trasferito qui da Nardò ai tempi di Ferdinando II d’Aragona, nel XV secolo. La tradizione locale, riportata anche da Baronio, afferma che le reliquie del Santo furono trasferite in Italia da monache e fedeli armeni, fuggiti dall’Oriente. Secondo Baronio, ciò dovrebbe essere accaduto ai tempi

Un busto di San Gregorio Armeno tra i tesori della cattedrale di Nardò

Nardò, Cattedrale, busto argenteo di san Gregorio Armeno

di Marcello Gaballo

Nel precedente post si è accennato al reliquiario a braccio con la reliquia di San Gregorio, copia di un precedente rubato negli anni ’80. Oggetto di maggiore venerazione, almeno in questi anni, è il busto del Santo, portato processionalmente la mattina del 20 febbraio tra le vie principali della città, subito dopo il pontificale del vescovo in Cattedrale, accompagnato dalle confraternite cittadini, le Autorità religiose e civili ed un seguito di fedeli che stanno riscoprendo il culto del santo.

Bisogna dare atto che il neo-costituito comitato cittadino si sta impegnando da qualche anno a incrementare la devozione al santo, con festeggiamenti che senz’altro il popolo gradisce e finanzia.

Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Sodali delle confraternita del SS. Sacramento
Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Sorelle delle confraternita del SS. Sacramento e confraternita delle Anime Sante del Purgatorio
Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Sodali delle confraternita di San Giuseppe

L’inclemenza del tempo e le troppe feste cittadine oscurano il giusto tributo che dovrebbe rendersi al santo patrono, ma si spera in una crescente sensibilità per onorare al meglio una delle più antiche devozioni.

Mi piace in questa nota riproporre quanto già scrissi diversi anni fa nel libro sui Sanfelice a Nardò, visto che si continua ad avere incertezza sul prezioso busto settecentesco, spesso datato con incertezza.

Anche in questo caso la ricerca premiò e una serie di atti notarili, conservati nell’Archivio di Stato di Lecce, attestano che l’opera fu realizzata a Napoli nel 1717, come si evince anche dall’iscrizione posta sulla stessa.

A distanza di un anno il busto richiese un intervento di restauro e in un atto del notaio neritino Emanuele Bovino del 1718 si legge che il mastro argentiere Giovan Battista Ferreri di Roma era stato saldato dall’economo della cattedrale sac. Domenico Grumesi, per conto di Mons. Sanfelice:

Costituito personalmente avanti di noi in testimonio publico il Sig.re Gio: Batta Ferrieri della città di Roma, al p(rese)nte in questa Città di Nardò mastro Argentiere, il quale spontaneam(en)te e per ogni miglior via, avanti di noi dichiarò come hoggi p(rede)tto giorno esso Sig. Gio: Batta have presentato al Sig. D. Domenico Grumesi economo di questa mensa vescovile qui p(rese)nte una tratta pagabile ad esso da Mons(igno)re Il(ustrissi)mo R(everendissi)mo D. Antonio Sanfelice vescovo di questa Città sotto la data in Napoli li 15 del corrente mese di Giugno in somma di ducati quindici, come dalla suddetta tratta alla quale et havendo esso Sig. Gio: Batta richiesto detto Sig.re D. Dom(eni)co per la consegna e soddisfatione delli suddetti ducati quindici, e conoscendo il medesimo esser cosa giusta e volendo soddisfare la tratta suddetta che può hoggi p(rede)tto giorno esso Sig.re Gio: Batta presentialmente e di contanti avanti di noi numerati di moneta d’argento ricevè et hebbe detti ducati quindici dallo detto Sig.re D. Dom(eni)co p(rese)nte date et numerate di proprio denaro detto Il(ustrissi)mo e R(everendissi)mo Mons(ignor) Vescovo come disse, e sono a saldo, e complimento e fino al pagam(ento) della statua d’Argento del nostro Prò(tettore) S. Gregorio Armeno fatta fare nella Città di Napoli da detto Ill.mo R.mo Sig.re come disse, così d’Argento, metallo , oro, indoratura e manifattura e di qualsi’altra spesa vi fusse occorsa…

Nell’ atto dunque l’argentiere si dichiara soddisfatto della somma avuta, impegnandosi per il futuro di apportarvi ogni restauro, senza nulla pretendere, fatta eccezione per l’argento che gli sarebbe stato fornito per le necessarie riparazioni.

Essendo stato il busto realizzato a spese del Vescovo probabilmente egli ne restava anche proprietario, visto che con altro atto del medesimo notaio, ma del 20 febbraio 1722, il Sanfelice donò alla Cattedrale il nostro busto, il braccio d’ argento di S. Gregorio e quello, anch’ esso argenteo, col dito di S. Francesco di Sales.

Per amor di completezza occorre dire che tale donazione includeva altre suppellettili preziosissime, come alcuni “reliquiari d’ argento lavorati in Roma”, due “dossali o baldacchini”, un paliotto d’ argento, una cartagloria e la croce tempestata di smeraldi. Nella donazione infine si includevano duecento “stare di oglio, per farcene lo stucco della nostra Cattedrale, alla quale doniamo anche il cornicione di legno venuto da Napoli”.

Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Don Gino Di Gesù porta in processione la reliquia del braccio

Una successiva e definitiva conferma di tanta generosità la conferma ancora un atto notarile che viene stilato alla morte del vescovo Antonio, quando, nel 1736, fu redatto l’inventario dei beni da esso lasciati  alla Chiesa neritina, conservati nell’episcopio e nella tesoreria della cattedrale.

Stralcio quanto già pubblicato a suo tempo in Antonio e Ferdinando Sanfelice. Il pastore e l’ architetto a Nardò nei primi del Settecento, a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Supplementi, Galatina 2003:

Die nona mensis Januarii 1736. Neriti.

E continuandosi il notamento et inventario sudetto con l’ assistenza de deputati e con l’ intervento de testimonii sottoscritti si procedè ad annotarsi et inventariarsi li beni riposti nell’ appartamento piccolo.

Prima camera: una porta con maschiatura e chiave e maschiatura di dentro.

Una carta con l’ effiggie di tutti i Pontefici con cornice d’ apeto.

Carte francesi sopra tela senza cornici n° 18 e sei paesini con cornici.

Un braccio d’ argento con la reliquia di S. Francesco di Sales calato in sacrestia consignato al Rev. Sig. Abb. D. Giuseppe Corbino Tesoriero.

Una statua di argento a mezzo busto di S. Gregorio Armeno protettore e […] vi manca un po’ di rame indorata, et à man sinistra vi manca un po’ di argento, con il piede indorato dentro una cassa, con l’ imprese di detto Ill.mo Sanfelice, e due vite di ferro per vitare la statua sopra detto piede; et una cassa con due maschiature e chiavi in dove stava riposta la detta statua e braccio, calate in sacrestia e consignate al detto Sig. Tesoriere.

E l’ inventario continua con l’ elencazione degli altri argenti conservati nella prima stanza:

Un paglietto di argento per l’ altare maggiore[1] con la sua cassa e maschiatura e chiave, sulla quale vi mancano ventidue vite piccole seu chiodetti et in […] vi manca un po’ di argento, calato in sacrestia e consignato al detto Sig. Tesoriero.

Un baldacchino di argento fatto dal medesimo per esporre il SS.mo con la sua veste, cui mancano 30 chiodetti.

Sei candilieri grandi di argento per l’ altare maggiore fatti dalla B.M. di detto Vescovo, calati in sacrestia e consignati al detto Sig. Tesoriero.

Due ciarroni di argento dal medesimo per fiori che si mettono su l’ orlo dell’ altare maggiore sù le teste de’ cherubini; in uno vi mancano tre chiodetti e nell’ altro quattro con le loro vesti; calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriero.

Due reliquarii grandi di argento fatti dal medesimo, in uno de’ quali vi è l’ insigne reliquia delle fascie del S. Bambino, e nell’ altra de pallio […] et veste della Beata Vergine, sulli quali mancano due chiodetti d’ argento, calati in sacrestia e consignati al detto.

Sei altri reliquarii più piccoli di argento fatti dal medesimo, in uno de’ quali vi sono e reliquie di tutti SS. Apostoli; in un altro de Martiri; in un altro de Confessori; in un altro de Vergini; in un altro de Dottori della Chiesa e nell’ altro de Santi Abbati, in cinque de’ quali vi mancano alcuni pezzotti di argento nelli finimenti, quali si sono calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriero.

Una pisside grande nuova di argento con la sua veste ricamata fatta dal medesimo, calata in sacrestia e consignata al detto Tesoriere.

Sei candilieri grandi inargentati per ogni giorno per il gradino dell’ altare maggiore e sei craste dell’ istessa maniera fatte dal medesimo, e sei fiori seu frasche di carta inargentata fatti dal medesimo, e calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriere.

Sei fiori di seta di diversi colori, due grandi e quattro piccoli e due splendori argentati fatti dal medesimo, e calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriere.

Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Conclude la processione il busto del Santo portato “a spalla” da fedeli

[1] Si tratta del bellissimo paliotto argenteo del 1723, fatto realizzare a Napoli da Giovambattista D’ Aura, per l’ altare maggiore della Cattedrale di Nardò e che in circostanze recenti è stato esposto alla visione dei fedeli.

L’agricoltura del Salento, il paesaggio e la tutela dell’ambiente

ph Francesco Politano

di Antonio Bruno

La tutela del paesaggio e dell’ambiente, la valorizzazione dei prodotti tipici e la sinergia fra agricoltura e turismo che sono settori vitali per l’economia del Salento leccese; settori ricchi di opportunità di sviluppo.
L’agricoltura partecipa all’offerta di ospitalità del Salento leccese con l’agriturismo e sostiene la tutela del paesaggio e dell’ambiente naturale.

Libri/ Barocco del Sud

 di Paolo Vincenti

E’ un bel libro questo  Barocco del Sud  – Racconti e prose (Besa editrice), una raccolta di scritti, fino ad ora poco conosciuti, della vastissima produzione di Vittorio Bodini. Il suo curatore, Antonio Lucio Giannone, da molti anni  è impegnato sul fronte della promozione culturale e della divulgazione dell’opera dei principali esponenti della cultura letteraria meridionale contemporanea.

Seguendo questi scritti bodiniani, si può conoscere più a fondo l’anima dei salentini del secolo scorso, quegli “ppoppiti”, che popolano molti di questi racconti e che possiamo considerare la controfaccia salentina dei “gitani” di Garzia Lorca, autore molto amato e magistralmente tradotto dall’ “ispanista” Bodini.

Se oggi si fa un gran parlare di Vittorio Bodini, Girolamo Comi e Vittorio Pagano, lo si deve a studiosi come Giannone che, insieme a Mario Marti, Ennio Bonea, Oreste Macrì, Donato Valli, ha profuso un impegno costante nella riscoperta e valorizzazione della letteratura “salentina”, e dei suoi rappresentanti di spicco,  per troppo tempo ingiustamente sottovalutati ed ignorati dalle antologie letterarie nazionali. Negli ultimi tempi, forse,la triade Comi-Bodini-Pagano, nelle preferenze delle nuove generazioni, è stata sostituita da un’altra, cioè quella composta da Antonio Verri- Claudia Ruggeri-Salvatore Toma.

L’ondata di recenti celebrazioni e ripubblicazioni ha interessato soprattutto Antonio Verri , il cui nome è richiamato, ormai  puntualmente, in ogni

Libri/ Il patrimonio geologico della Puglia. Territorio e geositi

LA PUGLIA SOMMERSA E SOTTERRANEA

 

di Giuseppe Massari

Il lago di Orte a Otranto (ph Fabio Bonatesta)

“Il patrimonio geologico della Puglia. Territorio e geositi”. E’ questo il titolo di una recente pubblicazione curata dalla SIGEA (Società italiana di geologia ambientale), con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Puglia e con il patrocinio della Regione. E’ una mappatura di tutti i siti geologici presenti sul territorio pugliese, quello stesso che presenta realtà diverse, ma accomunate da un solo obiettivo: la tutela, la salvaguardia. La conoscenza storica, conservativa di un territorio compreso tra il nord e il sud della regione. Infatti, per la migliore conoscenza dei siti, per meglio valorizzarli e studiarli, oltreché approfondirli sotto l’aspetto geomorfologico, scientifico, geografico, è stata predisposta una divisione per zone.

In sintesi ci si trova a dover fare i conti con quelle che, forse, ma non tanto, vengono complessivamente, totalmente e generalmente chiamate le Regioni geologiche della Puglia, a loro volta suddivise in sottogruppi: le aree dell’avampaese apulo a cui appartengono il Gargano, le Murge e il Salento; le aree della fossa bradanica con il Tavoliere delle Puglie e la Fossa premurgiana; nella sua vivisezione, viene evidenziata l’area della Catena appenninica, cioè i monti della Daunia.

tratto di costa salentina comprendente Grotta Romanelli (da http://www.salentoalacarte.it/)

Questo inventario prosegue con il carsismo e le sue forme, le gravine e le lame, i terrazzi marini e le coste.

Un patrimonio naturale che dimostra e conferma come la Puglia è ricca di insediamenti ed elementi geologici talmente variegati fra loro da costituire un gioiello di originalità, uno scrigno di tesori. Pensiamo ai puli o doline. Ai dolmen e alle cave di bauxite. Alle grotte di Castellana, ai terrazzamenti marini, particolarmente visibili all’estremità e alle punte delle nostre coste.

Questo interessante, ricco patrimonio di valore storico e culturale ha fatto si che dal 2009 fosse interessato da una legge regionale ad hoc. Infatti, la Puglia è stata una delle  prime regioni italiane, l’unica nel centro sud, a dotarsi di uno strumento legislativo consono e finalizzato alla tutela dell’intero patrimonio geologico. Questo non solo per dimostrare interesse e sensibilità, quanto anche per aprire le frontiere ad un più vasto consenso e

Giornata Internazionale della Guida Turistica

di Daniela Bacca

La Giornata Internazionale della Guida Turistica, giunta alla sua 21a edizione, è un evento promosso dalla Federazione Mondiale delle Guide Turistiche con lo scopo di far conoscere meglio al grande pubblico l’attività delle guide turistiche una professione che ha nell’arte e nella cultura i suoi principali punti di riferimento nonché per accrescere l’attenzione e la consapevolezza dell’importante ruolo svolto nel diffondere la corretta conoscenza del patrimonio culturale, storico, artistico, economico del territorio in cui operano.

Daniela Bacca, Guida Turistica, Socio dell’AGTRP sezione Provincia di Lecce

Quest’evento, organizzato e promosso dal 1990, dalla Federazione Mondiale delle Guide Turistiche (World Federation of Tourist Guide Associations – WFTGA), ricorda e promuove, quindi, l’attività delle guide turistiche, una professione affascinante, importantissima e determinante per la fruizione dei beni culturali e paesaggistici, la divulgazione delle identità e tipicità locali, lo sviluppo economico del territorio, la promozione del turismo, la divulgazione del patrimonio identitario, e l’accoglienza del viaggiatore.

L’antico “mestiere girovago” tra i più antichi e nobili del Mondo, che fu riconosciuto dal Regno d’Italia il 18 giugno 1931, richiede la consapevolezza, l’attitudine, le competenze e la responsabilità di prendere per mano il visitatore, assistendolo nella conoscenza diretta delle località e nell’esperienza del viaggio.

Per un giorno all’anno a titolo gratuito le circa 20 mila guide turistiche italiane mettono a disposizione le loro competenze e professionalità accompagnando i visitatori in itinerari per scoprire le identità e tipicità locali.

L’Associazione Guide Turistiche Regionali di Puglia sezione della Provincia

Dalle murge salentine alla cordigliera cilena. Maurizio Nocera e Sergio Vuskovic Rojo (II parte)

DALLE MURGE SALENTINE ALLE ANDE CILENE: IL SODALIZIO MAURIZIO NOCERA-SERGIO VUSKOVIC ROJO NEL SEGNO DI PABLO NERUDA

 

di Paolo Vincenti

Neruda/… sono un poeta di pubblica utilità (Tricase 2001), dunque, è stato il primo libro, curato da Maurizio Nocera, pubblicato in Italia da Sergio Vuskovic Rojo.  Voglio riportare un estratto dell’intervento di Giovanni Invitto alla Presentazione del libro, tenuta  appunto a Martignano nel 2002. Scrive Invitto: «Chi è Sergio per noi, occidentali, salentini, uomini di cultura. Qual è la [sua] filosofia? […] Se io dovessi definire Sergio, direi che egli è un filosofo continentale, non nazionale: è  un filosofo di pubblica utilità, se è vero che Neruda disse di sé: sono un poeta di pubblica utilità [… La sua è] una filosofia, quindi, aperta al mondo, alle idee degli altri: “Il sangue che scorreva dalle nostre ferite era rosso, era semplicemente e uniformemente colorato di rosso. Il sangue era rosso per tutti: nessuno aveva sangue azzurro o di altro colore. Il cattolico e il comunista, il protestante e il massone, il radicale e il socialista, il socialdemocratico e il cristiano di sinistra, il discendente di un arabo o di un ebreo, tutti vedevamo – e lo soffrivamo nella nostra carne – che eravamo parte inscindibile del martirizzato e calpestato popolo del Cile” (cfr. “La via del Cile”, Martignano 1987, p. 17). Potremmo benissimo definirlo un messaggio cristiano: non quello dei colonizzatori cristiani dell’America Latina, ma quello della fraternità, di Francesco che precede le crociate, di madre Teresa, di mons. Helder Camara. Però, ogni attributo (marxista, cristiano) è riduttivo: ogni uomo è una storia a sé. Si tratta di far incontrare le storie, quante più storie è possibile: cosa a cui i cileni Pablo e Sergio hanno dedicato l’esistenza».

Ma il sodalizio Nocera-Rojo ci porta anche ad un altro nome importante nell’ambito della cultura mondiale e specificamente della bibliofilia: quello dei Tallone. Tornando al libro di Maurizio Nocera  Neruda Cento anni, infatti, in questo libro compare uno scritto: “Il nerudiano 2000 dell’editore Tallone”. Questo breve  saggio è illuminante perché svela la nascita del rapporto fra Nocera e l’editore Enrico Tallone di Alpignano (Torino), sempre nel segno del grande Pablo Neruda. Ed è molto interessante notare come il cammino di  conoscenza e di frequentazione amicale e professionale fra Nocera e Enrico Tallone rispecchi  un analogo cammino compiuto molti anni prima  dal grande scrittore cileno Neuda  con  il grande editore, maestro dell’arte tipografica, Alberto Tallone, padre di Enrico. Il pretesto che è alla base di questo rapporto è la pubblicazione in Italia nel 2004 di un inedito di Neruda, “2000”, appunto, a cura di Tallone. In occasione dei festeggiamenti in tutto il mondo per il centenario della nascita di Neruda, Nocera che si trovava in Cile a presentare il  libro, a sua cura, di Sergio Vuskovic Rojo, Neruda/ L’invenzione di Valparaiso, nella traduzione castigliana, apprese proprio dal grande filosofo cileno Rojo dell’uscita in Italia di un inedito nerudiano, dal titolo “2000”. Nella sala della dogana di Valparaiso, dove si teneva la conferenza di presentazione del libro, insieme a Nocera e alla consorte Ada Donno, erano presenti molti intellettuali cileni in vario modo collegati a Neruda, come Francisco “Pancho” Velasco, fraterno amico di Neruda, con la moglie Maria Martner, la poetessa Sara Vial,  Oskar Quiroz Mejia, Rettore dell’Università di Playa Ancha, Alberto Luis Mansilla, fraterno amico e biografo di Neruda ( e del quale nel libro di Nocera compare il saggio “ Neruda e Vuskovic e il loro legame con Valparaiso”) e, naturalmente, Sergio Vuskovic Rojo ( autore, nel suddetto libro, degli interventi “L’amico, il malacologo” , “L’ebbrezza cosmica” e “Neruda e l’invenzione di Valparaiso”, di cui si è già detto). Comunque l’attenzione di Nocera fu catturata da questo nuovo libro inedito di Neruda di cui aveva sentito parlare. E al suo ritorno in Italia egli subito si mise a cercare questo

Libri/ Vivere e morire all’Ilva di Taranto

Fulvio Colucci
Giuse Alemanno

INVISIBILI
Vivere e morire all’Ilva di Taranto

Non molto tempo fa gli operai dell’allora Italsider vennero chiamati metalmezzadri. Era la generazione dei Cipputi, dei sindacati e degli scioperi che paralizzavano la produzione, della terra o del mare da coltivare, dopo il turno.
L’Italsider non c’è più. C’è l’Ilva. Una nuova fabbrica con un nuovo nome e nuove regole, ma soprattutto una nuova generazione. Una generazione che sogna la grossa vincita al gratta e vinci o al massimo la divisa, da carabiniere.
Per i nuovi operai dell’Ilva, divisi in normalisti e turnisti, il sindacato è lontano; al suo posto ci sono i tornei di calcetto aziendali che favoriscono la comunicazione, ma non troppo. Rimangono la paura di non tornare più a casa e i santi a cui affidarsi, una volta custoditi nei portafogli ora immagini su cellulari. Le immagini dei santi si affiancano a quelle delle mogli, dei figli e delle famiglie e di loro è tutto quello che oltrepassa i tornelli dell’Ilva. La

Da Greenpeace Italia. In Puglia due oli prodotti con soia geneticamente modificata, come riportato in etichetta

La minaccia OGM rispunta dopo sette anni sugli scaffali dei supermercati italiani. I nostri volontari hanno scovato in Puglia due oli prodotti con soia geneticamente modificata, come riportato in etichetta. Si tratta dell´olio di soia e dell´olio di semi vari a marchio “Dentamaro”, prodotti e commercializzati dalla Dentamaro Srl di Bari.

Dal 2004, anno nel quale sono entrati in vigore i regolamenti europei sull’etichettatura degli OGM, questo è il secondo caso in cui troviamo un prodotto transgenico in vendita. Allora quel prodotto fu ritirato dal mercato dopo soli dieci giorni grazie alle forti proteste dei consumatori. Oggi possiamo fare lo stesso.

Una volta rilasciati nell´ambiente, gli OGM sono incontrollabili. La loro

Il popolo armeno e la Puglia: un legame millenario

a cura di Giancarlo De Pascalis

In occasione dei  festeggiamenti organizzati in onore di S. Gregorio Armeno a Nardò si terrà sabato prossimo, 19 febbraio, alle ore 10,30 presso la “Sala Roma” dell’antico Seminario Vescovile, sito in  Piazza Pio XI un incontro sul tema “Il popolo Armeno e la Puglia: un legame millenario”. La relazione sarà tenuta da Isabelle Oztasciyan, docente presso l’Università del Salento. Introdurrà  il parroco della Cattedrale di Nardò, sac. Giuliano Santantonio, e seguiranno gli interventi sul culto di S. Gregorio Armeno a cura di Maria Rosaria Tamblé (Archivio di Stato di Lecce) e sulle vicende del terremoto del 20 febbraio 1743, a cura di Giancarlo De Pascalis (Università del Salento).

Sarà l’occasione per riflettere sui rapporti plurisecolari intrattenuti dagli Armeni con le popolazioni pugliesi e sugli scambi culturali tra due popoli accomunati dalla fede cristiana.

L’Armenia fu la prima nazione della storia ad abbracciare il cristianesimo grazie proprio a S. Gregorio l’Illuminatore, fondatore della Chiesa nazionale armena sul finire del III secolo d. C. e suo primo vescovo. La fede incrollabile in Cristo è stata da allora un elemento identitario del popolo armeno, al punto da  farlo resistere all’invasione arabo-musulmana  fino alla creazione di un fiorente regno cristiano (la cosiddetta piccola Armenia in Cilicia)  tra il IX e l’XI secolo che entrò in relazioni con Bisanzio e con i crociati.

Attualmente la Chiesa Armena  è suddivisa in due katholikosati (da katholikos, il capo della chiesa armena): uno maggioritario monofisita (riconosce in Gesù Cristo soltanto la natura divina) e uno che riconosce il primato di Roma, al pari di un terzo, più piccolo, con sede in Libano.

Comunità armene sono diffuse in tutta la Penisola ed anche in Puglia se ne registrano, in special modo a Bari, Conversano, e Martina Franca. Dopo la gloriosa stagione medievale, fatta di scambi mercantili e di vincoli di fede suggellati attraverso il culto nelle suggestive chiese costruite da immigrati benestanti per servire le colonie armene stanziate nelle città costiere del litorale pugliese, un nuovo flusso migratorio si è registrato circa un secolo fa a seguito della durissima campagna di snazionalizzazione posta in atto dalla Turchia a partire dalla fine del XIX secolo.

Dopo i massacri del 1894, del 1895-96 e del 1909, che assunsero le dimensioni di un autentico genocidio, ha avuto luogo la cosiddetta diaspora armena, diretta soprattutto verso la Francia e gli Stati Uniti d’America. In rapporto alla durezza di questo destino, il contributo dell’Armenia allo sviluppo della civiltà è stato straordinario.

Le ricche tradizioni religiose, artistiche, letterarie e folkloriche forniscono tuttora testimonianze importanti di un percorso culturale intrecciatosi in un lontano passato con quello della Chiesa neritina, che ne trasse per lungo tempo motivo di vanto rispetto alle altre consorelle pugliesi per il fatto di conservare una delle più prestigiose e insigni reliquie della cristianità, quella di parte del braccio di S. Gregorio, il patriarca di un popolo eroico sino al martirio nella difesa della propria fede e della propria identità.

In un’epoca contrassegnata dalla ripresa violenta dell’integralismo religioso e dell’intolleranza etnica il culto di S. Gregorio, ispirato all’ecumenismo ed al dialogo tra fedi diverse, si rivela quanto mai attuale e offre a tutti noi un modello di sviluppo civile e religioso ed un sistema di valori dai quali trarre utili insegnamenti per il  presente e per il futuro.

Nei giorni 19 e 20 febbraio sarà possibile anche visitare presso l’Antico Seminario la mostra “Documenti e immagini del culto di S. Gregorio Armeno a Nardò”.

Libri/ Il Patrimonio geologico della Puglia. Territorio e geositi

Venerdì 18 febbraio 2011, alle ore 19, presso la Sala Etnografica “Florio Santini” del Museo Civico di Paleontologia e Paletnologia di Maglie, viene presentato il volume “Il Patrimonio geologico della Puglia. Territorio e geositi” a cura della Società Italiana Geologia Ambientale, atteso risultato di una lunga attività di ricerca e confronto tra accademici, ricercatori e cultori delle Scienze della Terra, afferenti al Gruppo di Lavoro Geositi della SIGEA – Sezione Puglia.

Vallone-De Viti De Marco, un binomio inscindibile nella vita politica nazionale e meridionalista

“SIAMO IL CERVELLO DELLE MASSE”

di Tommaso Manzillo

Il contributo che qui vorrei proporre è la testimonianza di un’amicizia profonda e sincera tra due autorevoli personalità salentine, che fino alla fine hanno combattuto contro le tante problematiche del Mezzogiorno, all’indomani dell’Unità d’Italia.

Fu una vera “fratellanza”, come avrebbe detto Antonaci (1999, pag. 707), nell’intento comune di dare onore alla vitalità del Sud, in termini di idee e di propositi, per “agganciare”, politicamente, economicamente, culturalmente e socialmente la nostra regione al resto d’Italia: sono battaglie ancora vive e presenti ai giorni nostri, ma non saprei dire se, chi vuole incarnare oggi questi ideali, sia degno di essere, se non paragonato, almeno animato dallo stesso spirito politico dei due coetanei Antonio Vallone e di Antonio De Viti De Marco. Quest’ultimo tenne, il 19 aprile 1925, un pubblico discorso di commiato per l’amico di una lunga vita politica, da poco scomparso (7 febbraio dello stesso anno), in occasione dell’inaugurazione della lapide in sua memoria apposta nella sede del Liceo-ginnasio “Pietro Colonna”.

Antonio Vallone

Vallone-De Viti De Marco era un binomio inscindibile nella vita politica nazionale e meridionalista, un’amicizia nata forse ancor prima di quella riunione che si tenne a Casamassella tra Vito Fazzi, lo stesso Vallone e il fratello di Antonio dello scienziato delle finanze, quando fu deciso che il nostro concittadino avrebbe dovuto affrontare la battaglia contro il comune avversario del collegio di Maglie. Da allora ci fu una vera e profonda amicizia tra Vallone e De Viti De Marco, come riporta il discorso del professore universitario, tanto che nelle elezioni del 1919 si trovarono insieme in una lista di “blocco”, dopo forti pressioni da parte di Alfredo Codacci-Pisanelli, contro “la violenza del bolscevismo ammantato di socialismo”. Purtroppo, Giolitti pose un veto al pericoloso repubblicano Vallone, che fu costretto ad abbandonare la lista e, con lui, per spirito di solidarietà, lo

Pìcciu e picciùsu: la poesia, con risvolti un po’ osé…, del dialetto

 

da http://www.chiaranocentini.it/

 

di Armando Polito

Ormai non mi viene più da ridere, ma mi incazzo come so fare solo di fronte alle idiozie della burocrazia (non scomodo il trito paragone con gli animali per loro rispetto, anche se fra poco e alla fine sarò costretto a metterli in campo…) quando perfino in discussioni di un certo livello sento qualcuno che ancora manifesta in modo più o meno palese pregiudizi nei confronti del dialetto. Sulla infondatezza scientifica, oltre che antistoricità, di questo atteggiamento non mi soffermo neppure perché ho troppa stima dei lettori di Spigolature salentine e lo ritengo superfluo.

Passo perciò alle due voci dialettali del titolo, designanti, la prima, il piagnisteo, il frignare del bambino, la seconda il bambino stesso che in questo modo manifesta il suo disagio, in passato per lo più ascrivibile a motivi di salute, oggi, credo prevalentemente, a motivazioni di carattere psicologico, come la voglia di attirarre l’attenzione, fino all’espressione di un vero e proprio capriccio, la cui pronta soddisfazione da parte dei genitori ha il pronto effetto di propiziarne altri a breve scadenza…

Sorprendentemente il Rohlfs non avanza alcuna proposta etimologica, limitandosi solo all’invito ad un confronto “con il calabrese pìcciu e il

Dalle murge salentine alla cordigliera cilena. Maurizio Nocera e Sergio Vuskovic Rojo

DALLE MURGE SALENTINE ALLE ANDE CILENE: IL SODALIZIO MAURIZIO NOCERA-SERGIO VUSKOVIC ROJO NEL SEGNO DI PABLO NERUDA

a cura di Paolo Vincenti

Voglio raccontare una storia di amicizia.  Quella fra Maurizio Nocera, intellettuale salentino di spicco, poeta, scrittore, appassionato ricercatore di storia patria, bibliofilo, impareggiabile operatore culturale, editore, docente e maestro di pensiero, e Sergio Vuskovic Rojo, politico e filosofo cileno, una delle intelligenze più vive e brillanti dell’intera  America Latina.

Sergio Vuskovic

Come per tutte le grandi storie, iniziamo da un piccolo evento ( piccolo, ben inteso, se rapportato alla storia di una amicizia che varca i confini nazionali per andare da una parte all’altra del globo, appunto, dalle murge salentine alla cordigliera cilena). Nel 1986, in occasione del 40° anniversario della Repubblica Italiana, il comune di Martignano, in provincia di Lecce, organizza una manifestazione molto importante dal punto di vista simbolico, non solo perché ricorda la riconquistata libertà del popolo italiano dal giogo della dittatura fascista ma anche perché quella manifestazione è l’occasione per il popolo martignanese e salentino di solidalizzare con il popolo cileno, oppresso, all’epoca da 13 anni, da una feroce quanto barbara dittatura militare guidata da Pinochet. Quella manifestazione è molto importante anche per Maurizio Nocera poiché è lì che avviene il primo incontro con Sergio Vuskovic Rojo, illustre ospite di Martignano. Comincia proprio in quel momento il lungo sodalizio fra Nocera e il grande filosofo cileno.

Quell’evento viene poi ricordato in un libro, pubblicato nel 1988, dall’Amministrazione comunale di Martignano,  La via del Cile, con  molte foto che  ben documentano quell’incontro. Il libro, che si apre con una fiera dichiarazione del Presidente Allende, “Dichiaro la mia volontà di resistere, anche a costo della mia vita, in modo che questo serva da lezione nella ignominiosa storia di coloro che hanno la forza ma non la ragione”, racchiude bene in sé tutta la drammaticità di un’esperienza dolorosa quale quella della dittatura sofferta dal popolo cileno e da Sergio Vuskovic Rojo. 

Rojo, che aveva patito la tortura dei campi di concentramento e poi dell’esilio, la sera del 10 agosto 1986, nella manifestazione di solidarietà col popolo cileno, che aveva visto salire sul palco di Martignano anche lo storico gruppo degli Inti Illimani, era stato omaggiato dal Sindaco del paese

Non solo Barocco

 

Nel secondo volume di Kunstwollen, periodico di arte e cultura della casa editrice Edizioni Esperidi, la luce segreta delle architetture salentine rimaste in ombra, dal ‘500 agli anni 2000

 

Non solo Barocco

di Giorgia Salicandro

C’è un Salento segreto nascosto all’ombra del folgorante Barocco, un ricamo candido di pietra che si irradia dai vicoli del nobile Capoluogo ai campi del Capo, e attraverso l’eco immobile delle mura racconta una storia di feudatari, chierici e suore, contadini e notabili, sino alla società industriale del ‘900. Una storia che “Architetture salentine”, il secondo volume della rivista culturale Kunstowollen, edita dalla casa editrice di San Cesario Edizioni Esperidi, ha cercato di rubare alla dimenticanza per restituirla a quel Salento che racconta tanto altro oltre le magnifiche chiese barocche.

La scorsa settimana la chiesetta leccese di San Sebastiano è stata la cornice scelta per presentare il volume, il secondo dei tre editi a partire da giugno 2009. Nella raccolta navata della chiesa alle spalle del Duomo, Alice Bottega ha ripercorso a ritroso la storia del luogo attraverso le sue mura. Una storia di terrore e devozione, iniziata nel 1520 nel bel mezzo della pestilenza che sterminò intere famiglie e dimezzò la popolazione, quando con “elemosine e legati pii” la piccola costruzione fu eretta e dedicata al Santo protettore degli appestati. In verità la vocazione sacra del luogo era precedente al “terrore nero”: lì infatti, molto prima che vi si affacciassero vicoli e corti, sorgeva un’antica chiesa rupestre dedicata ai Santi Leonardo, Sebastiano e Rocco. Alcuni decenni più tardi una nuova costruzione accolse il convento delle pentite, che dopo una vita trascorsa “nel vizio” cercavano un ricovero del corpo e dello spirito al riparo del Sacro. Un luogo sobrio, estraneo alla magnificenza barocca che traboccherà dagli ordini superiori delle grandi chiese leccesi, dalla Cattedrale a Santa Croce. Un fascino diverso, raccolto nella grazia della propria semplicità che si presenta inequivocabilmente al fedele già dalla facciata a spioventi, ingentilita appena da fiori e motivi simbolici in pietra leccese intrecciati intorno al portale.

La chiesa di San Sebastiano non è sola a raccontare la bellezza nel Salento non-barocco. A Racale il Palazzo ducale è testimonianza di una lunga storia di famiglie e intrecci di potere. Il Palazzo, come gli altri castelli del Meridione d’Italia, a partire dall’inizio del ‘500 perde il suo connotato militare per divenire residenza nobiliare con funzioni di rappresentanza, così come imposto dalla Corona parallelamente al consolidamento del potere centrale nel Regno di Napoli. Nel primo cinquecento il barone Alfonso Tolomei aveva fatto abbattere la primitiva Parrocchiale dedicata a San Giorgio per fare spazio all’ambiente di rappresentanza per eccellenza, il salone, che viene costruito all’altezza del piano nobile a cui si accede attraverso un monumentale scalone a giorno che parte dal cortile. Altrettanto monumentale doveva essere l’immagine che accoglieva il nobile visitatore all’ingresso della sala: due cortili su entrambi i lati illuminavano l’ampio spazio, la lunga volta a padiglione traboccava di satiri, fauni e altri personaggi pagani tipici della fantasia rinascimentale, che sfidavano con la propria spensierata lascivia le austere scene di Santi di scuola napoletana, costretti a “reggere” corni e frutta dalle pareti laterali. Quando, nel 1695, l’edificio fu acquistato, insieme alla baronia di Racale, da Felice Basurto, il nuovo proprietario volle imprimere al palazzo un simbolo del proprio status, nello spirito controriformistico dell’epoca: fu così che nel salone spuntò un oratorio privato, a cui seguì un secondo fatto erigere da sua moglie Candida Brancaccio. Della storia “lignea”  e “pittorica” del palazzo oggi non rimane più nulla, tuttavia se ne può ricostruire il mosaico attraverso le tracce notarili conservate negli archivi. Un affascinante spaccato della nobiltà di periferia, impegnata nella divisione familiare dei propri beni – il corpo principale all’erede primogenito, un’ala ai genitori, l’altra al fratello chierico – e nella difesa della propria immagine aristocratica dall’invadenza costruttiva dei vicini, risolta con un atto notarile ad hoc che impediva l’erezione di piani più alti del prospetto del Palazzo, mentre al chiuso delle stanze si conservavano tutt’al più quadri “di carta” e mobili “vecchi”, come testimonia un inventario fatto compilare dalla moglie del duca.

Opposta alle logiche umane di ceti e fazioni, infine anche la “grande livellatrice” può divenire un racconto affascinante se ripercorso attraverso la memoria, i tabù e le altre proiezioni di chi resta “al di qua”. Il cimitero di Parabita, esperimento inconsueto nella periferia della periferia salentina, è una delle testimonianze della straordinaria capacità creativa di questa terra. Negli anni ’60 del ‘900 una lungimirante Amministrazione comunale affidò il progetto del nuovo camposanto ad uno Studio romano attivo nel dibattito della neo avanguardia architettonica. L’obiettivo era quello di dotarsi di un luogo degno di custodire le tracce rimaste della civiltà, che sfuggisse all’asettica logica “funzionale” madre di incommentabili ecomostri. E i progettisti romani seppero rispondere in modo illuminato.  “Mentre progettavamo non discutemmo mai dei significati della morte – ricordava più tardi l’architetto Alessandro Anselmi – eppure chi oggi entra nel recinto cimiteriale ha la netta sensazione di trovarsi in un luogo rituale e simbolico”. Un luogo che richiama la propria importanza ma senza ostentazione, sin dalla facciata che corre lungo una sinusoide, sfuggente come la vita terrena, per raccogliersi all’interno attorno alla figura del capitello disegnata dal succedersi delle cappelle private: “l’archetipo” architettonico che lega la pietra al rito della memoria collettiva.

(pubblicato su Paesenuovo del 12/2/2010) 

Un verbo che la nostra presunzione di umani ha elevato ad elemento distintivo della nostra specie

L’inglorioso esito di un nobilissimo nesso

 

di Armando Polito

Ho avuto già modo di dire che le parole sono come noi, partecipi del nostro destino di uomini: non solo nascono, si trasformano nei loro tratti fonetici e semantici, muoiono, ma hanno la ventura di vivere gli stessi nostri incidenti di percorso. Succede, così, per fare solo due esempi, che alcune sono vittime della scarsa considerazione del merito e del loro intrinseco talento, sicché debbono inchinarsi di fronte all’uso che decreta il successo di una forma scorretta; altre si vedono scippata la loro prestigiosa eredità addirittura da parte di un parente con un imbroglio che non sempre è agevole individuare.

A questa seconda categoria, quasi di nobili decaduti, è dedicata oggi la mia attenzione, e per farlo metterò in campo un verbo che la nostra presunzione di umani ha elevato ad elemento distintivo della nostra specie rispetto alle bestie: sapere.

Già il latino sàpere=aver sapore, essere assennato (di cui la voce italiana nei due significati è evoluzione diretta) presenta nel suo paradigma, sapio/sapis/sapii o (rari) sapìvi o sapui/sàpere, un carattere difficile che lo colloca, al di fuori delle quattro coniugazioni regolari, nella categoria dei verbi in –io, cioè verbi che nel presente e nei tempi derivati seguono la quarta coniugazione, nell’infinito e nei tempi da questo derivati la terza.

Il verbo in questione se non fosse appartenuto ai verbi in –io avrebbe avuto per infinito non sàpere, ma sapìre1; inoltre esso non ha il supino (che nel paradigma è registrato in quarta posizione).

D’altra parte questo suo carattere difficile non poteva non essere ereditato dalle forme italiane, a cominciare dal presente per il quale, da un infinito sapère, ci saremmo aspettati una coniugazione io sapo, tu sapi, egli sape, noi sapiàmo, voi sapète, essi sàpono (solo la seconda persona plurale non ha tradito le attese). Sappiamo com’è andata a finire (e dopo diremo perché), ma la legittimità delle nostre attese è dimostrata dal fatto che le forme appena elencate ebbero il loro momento effettivo di gloria a partire dal XIII° secolo efino al XV°: Bacciarone da Pisa: Tutto ‘l contrar, se eo ben dir lo sapo; Meo Abbracciavacca: Delli viziosi mali ove li sapo; Tommaso Buzzuola: Soggiorno a sua stagione prender sape; Rinaldo d’Aquino: Se si sape avanzare; Dante, Purgatorio, XVIII, 55: Delle prime notizie, uomo non sape; Paradiso, XXIII, 45: E che si fesse rimembrar non sape; XXVIII, 72: Al cerchio che più ama e che più sape; Guittone d’Arezzo: Che di cosa piacente/sapemo, ed è vertà, ch’è nato amore; Dante, Inferno, X, 105: Nulla sapem di vostro stato umano; Baldassare Castiglione, Il cortegiano, I: Non sapiam di cui.

Le forme         odierne sono l’evoluzione di quelle appena riportate, col passaggio –p->-b– (di cui è traccia nello spagnolo sabes, sabe, sabemos) e –b->-v– (di cui è traccia nel francese savons, savez ma anche in italiano, a parte l’aggettivo savio: Francesco da Barberino, Reggimento e costume delle donne: E ben si save che quale è difeso; Voi savete che la Margarita; Guittone d’Arezzo: Ben credo savete; Già savemo; Brunetto Latini, Tesoretto: Siccome saven noi). Poi la caduta di –v2 fece il resto.

L’esame (limitato, per motivi di spazio e di tempo al presente indicativo) delle voci dialettali neretine consente di fare ulteriori riflessioni sull’argomento: iò sàcciu, tu sai, iddhu sape, nui sapìmu, ui sapìti, iddhi sàpinu.

Dopo aver fatto notare come sape, sapìmu e sàpinu siano in linea (a parte dettagli fonetici irrilevanti) con le corrispondenti persone elencate nella prima serie, soffermeremo ora la nostra attenzione sulla prima singolare sàcciu. Essa è il normale sviluppo dell’originario latino sapio con il consueto passaggio di –pi– in –cc– (come in Lecce da Lupiae); ma anche qui le testimonianze letterarie antiche dimostrano che questo esito non era poi tanto volgare: Francesco da Barberino, op. cit. : Mostrano le donne che ancor non sacciono lo fatto. A ulteriore riprova della diffusione del fenomeno ci vengono incontro i poeti della Scuola siciliana (Giacomo da Lentini, I, 31: e non saccio ch’eo dica; Tomaso di Sasso di Messina: ch’io non saccio altro fare;  Cielo d’Alcamo (XIII° secolo) , Rosa fresca aulentissima, v. 132: Bene lo saccio, càrama: altro non pozzo fare (Lo so bene, mia cara: altro non posso fare), dello Stilnovo (Guido Orlandi, Rime, III, V. 1: Amico, i’ saccio ben che sa’ limare (Amico, io so bene che sai rifinire); Guido Guinizelli, I:  saccio certo ben ragion vedere;  II:  E saccio ch’ogni saggio e’ porto fino; Guido Cavalcanti, I: Ch’eo non saccio contare), della Scuola toscana (Guittone d’Arezzo, XI: Scuro saccio che par lo mio detto; XII: Ma solamente lei saccio devisa; XXIII: Poich’io non  saccio como da per me faccio di ciò pensare; XLVII: Onor, prode e piacer saccio ch’amate; XXV: Ben saccio de vertà che ‘l meo trovare val poco; LXXXVI: Perché saccio di te dir villania. Bonaggiunta Orbicciani: I: Non saccio com’eo vivo sì gravoso;  Dante da Maiano, IV: Sì c’oramai non saccio la partenza) e gli stessi Dante (Rime, III: sì che di quanti saccio  nessun par l’à), Petrarca (Petrarca, Rime disperse e attribuite, 182, 3: Ora ti veggio, e non saccio  il perché) e Boccaccio (Lettere, A Francesco de’ Bardi (1339): …non saccio se te s’aricordae non saccio quanta delli mIeglio mIeglio di Napulinon saccio pecchené se lo fa chesso…; Ninfale fiesolano, 279, 6:  disse: – Oh me tapina, ch´i´ non saccio; Decameron, X, 7: temo morire, e già non saccio  l’ora).

Per completare il discorso e avviarci alla conclusione passiamo ora rapidamente in rassegna le voci italiane imparentate con sapère.

Sapiente e il suo contrario insipiente, rispettivamente dal latino sapiènte(m), participio presente del citato sàpere e, con aggiunta di in– privativo, da insipiènte(m)=insulso.

Sapienza, dal latino sapièntia neutro plurale del participio sostantivato di sàpere=aver sapore, sapere; da notare la comunanza concettuale che mette insieme bontà del cibo e della mente. Come son cambiate le cose se le nuove generazioni hanno le papille gustative sensibili solo ai prodotti McDonald’ e i neuroni alle emozioni sublimi suscitate dal Grande fratello!

Saggezza, da saggio, a sua volta dal francese sage che è dal latino sàpidus (che in italiano si è conservato quasi tal quale in sàpido, vedi più avanti, con connotazioni, però, prevalentemente se non esclusivamente alimentari), sempre da sàpere.

Sapore, dal latino sapòre(m)=sapore, spirito, deverbale dal citato sàpere.3

Sàpido e il suo contrario insìpido, rispettivamente dal latino sàpidu(m),=saporito, virtuoso e insìpidu(m)=insipido.

Sciàpo, forma accorciata di sciàpido, da un latino *exsàpidu(m) (dal precedente con aggiunta di ex estrattivo); così pure sciapìto, variante di scipìto.

Saccenterìa, da saccente, a sua volta da sapiènte (m), accusativo singolare maschile del participio presente del precedente sàpere; ed è proprio quest’ultima voce a sancire la tesi iniziale: il vecchio nesso –cc– ha conferito una connotazione negativa alla voce che, pure, all’origine era sinonimo di sapiente4: Brunetto Latini, op. cit.: Ma io non son saccente se non di quel che vuole mostrarmi…; Francesco da Barberino, op. cit. alla voce industriaUmana è più quant’ella più sacciente.

Alla fine di questa fatica è legittimo porsi la domanda: ora ne sappiamo di più?

Probabilmente hanno ragione i miei migliori amici…

_____

1 Voce probabilmente conosciuta dal latino parlato se essa è presente nella letteratura delle origini: Inghilfredi (poeta della Scuola siciliana (XIII° secolo)  canzone I, 26: E faccia a lei sapire; e sapìre è nel dialetto neritino il corrispondente italiano di sapere.

2 Peraltro molto antica, come attesta il Placito capuano che è del 960: Sao ko kelle terre

3 Oggi il nesso saperi e sapori è usato come fosse un gioco di parole, non so con quanta consapevolezza della strettissima parentela delle due voci e con la pretesa (è il caso di dire) di riempirsi, con piglio intellettualistico, la bocca nell’improbabile difesa dall’avanzare inesorabile, da una parte, dell’insulsaggine eretta a modello da seguire e, dall’altra, di McDonald’s…

4 Lo stesso destino ha subito sapùto (da cui poi il diminutivo saputèllo): Dante, Purgatorio, XVI, 8: la scorta mia saputa e fida|mi s’accostò e l’omero m’offerse.

Le paludi salentine prima della bonifica

 

di Antonio Bruno

 

Al tempo dei Romani la penisola del Salento leccese era circondata dalle paludi. Oggi dopo la bonifica, che è il prosciugamento delle zone paludose realizzata per cancellare la malaria, è rimasto poco della superficie di paludi che erano nel nostro territorio. Per continuare una riflessione iniziata con la dott.ssa Jolanda De Nola la mattina del 9 gennaio 2011 presso la Masseria Visciglito che è in prossimità dell’abitato di Strudà del Salento leccese nella quale pare abbia fatto sosta Ottaviano Augusto, di ritorno dall’Albania, prima di entrare nella città di Lupiae (Lecce), tenterò di dare una risposta alle domande che seguono: Ma com’era il Salento leccese delle paludi? Dov’erano e quanto si estendevano le zone che oggi si definiscono “ecosistemi acquatici di transizione”?

17 febbraio. Madonna delle Grazie di Carosino

La “Lourdes” di Carosino

 

di Floriano Cartanì

Parafrasando la celeberrima cittadina francese e fatti i dovuti paragoni, potremmo definire certamente così la venerazione e, quindi, i festeggiamenti in onore della Madonna delle Grazie di Carosino, che da tempo immemorabile si tengono il 17 di febbraio in questa cittadina jonica.

Le memorie, che narrano  dell’apparizione della Vergine nel luogo dove attualmente si erge la Chiesa Madre, si perdono nella notte dei secoli (pare tra il 900 e l’anno 1000). Invece dell’esistenza di un luogo di culto dedicato alla Madonna delle Grazie, si hanno i primi riferimenti certi a partire dalla prima metà del 1500,quando mons. Brancaccio venne in visita pastorale all’arcipretura di Carosino,  ed annotò l’esistenza di una vecchia cappella in onore della Madonna.  Che il luogo dell’apparizione fosse inoltre miracoloso assai, lo si intuisce facilmente anche dal resoconto tramandataci dell’evento.

La tradizione più accreditata vuole che quando ancora il casale di Carosino non esisteva, la Madonne sia apparsa ad un pastorello sordomuto dalla nascita di nome Fortunato, richiedendogli appositamente di far edificare in quel luogo una chiesa in suo onore. Il ritorno precipitoso del giovane e,

Luigi Corvaglia (Melissano, 1892 – Roma, 1966) non solo letterato

Luigi Corvaglia: non solo letterato

Impegno sociale e fedeltà agli ideali repubblicani caratterizzarono la vita dell’autore di Finibusterre

 

di Fernando Scozzi

“Prigioniero del compito”. Luigi Corvaglia nella sua biblioteca di Melissano

Di Luigi Corvaglia (Melissano, 1892 – Roma, 1966) si conoscono le opere filosofiche e letterarie, lo spirito critico e l’ardore polemico; ben pochi conoscono, invece, il suo impegno sociale che si manifestò non solo nell’attività di amministratore comunale, ma anche in quella  di imprenditore.

Fin dal 1910, studente universitario del primo anno di Giurisprudenza, si iscrisse al P.R.I. rimanendo fedele per tutta la vita all’Idea mazziniana di Giustizia e Libertà. (1) Rivendicò i diritti della comunità melissanese spesso sacrificati alle esigenze del Comune capoluogo e agli interessi di pochi notabili locali.  Nel suo opuscolo Melissano (edito nel 1910) Luigi Corvaglia invitò i concittadini all’unità: Unitevi figli del popolo, emancipate la frazione elevandola a Comune indipendente.  Auspicò l’associazione dei  lavoratori nei rischi e nei vantaggi della proprietà terriera; chiese ai contadini di mandare  i propri figli a scuola, tutti i figli, sopportando anche la miseria, poiché nella evoluzione progressiva della società, li renderete capaci di seguire il progresso universale. Accusò il sindaco di Casarano di aver privato la frazione di servizi pubblici indispensabili: per due anni, o Signori, Melissano è rimasta senza guardie, senza custode pel cimitero, senza spazzino e perfino senza levatrice.

 In realtà, le critiche di Luigi Corvaglia non erano dirette all’amministrazione comunale, ma all’avv. Felice Panico (assessore delegato della frazione) il cui potere economico pervadeva la società melissanese e impediva l’affermazione di una classe di professionisti che intendeva guidare lo sviluppo della comunità melissanese.

In occasione delle elezioni politiche del 1915, Luigi Corvaglia si schierò con Nicola Marcucci ed avversò il deputato uscente Antonio De Viti De Marco perché – scrisse in un manifesto –  il Collegio esige che sia liberato dall’incubo che  l’opprime: l’ambizione, il disprezzo verso gli umili, il favoritismo agli alti eunuchi del privilegio.(2)

Con una serie di fogli pose all’attenzione degli amministratori comunali e soprattutto dei suoi concittadini (dei quali auspicava la redenzione umana e civile) le esigenze della Comunità melissanese, evidenziando la necessità dell’approvvigionamento idrico dell’abitato, l’importanza del piano regolatore, della pubblica illuminazione, della viabilità urbana e rurale. Nel 1920, di fronte alla volontà dell’amministrazione comunale di impegnare le risorse finanziarie in tutt’altra direzione, Luigi Corvaglia propose un referendum  per conoscere se prima di erogare il denaro pubblico in opere voluttuarie non convenga, per per senso di dignità e di igiene, provvedere alle esigenze più urgenti e sistemare le vie interne, rese per l’abbandono impraticabili. Se non convenga di più dare al paese il suo accesso logico alla stazione ferroviaria, ordinando lo sviluppo delle vie che di giorno in giorno si sviluppano senza nesso e sistema. Se prima delle opere sciagurate progettate dal Comune di Casarano, giovi un edificio scolastico e lo sanno i figli dei poveri ed i poveri insegnanti, che marciscono d’inverno e soffocano d’estate, in abituri miserabili. (3)

In vendita. Dopo la morte della figlia, Maria, la casa di Luigi Corvaglia è in vendita; che fine farà il materiale bibliografico e documentario dell’autore di Finibusterre?

 

Dopo la grande guerra, alla quale partecipò con il grado di tenente,  si impegnò per l’autonomia della frazione e quando nel 1923 Melissano divenne Comune, fu nominato assessore. Era l’occasione per far recuperare al paese il tempo perduto in secoli di dipendenza amministrativa;  invece,  nel volgere di pochi mesi, i contrasti con il sindaco, avv. Felice Panico, determinarono lo scioglimento del primo consiglio comunale. Invano, Luigi Corvaglia chiese al prefetto di fare piena luce sulle Questioni morali di Melissano; (4) inutilmente si appellò al patriottismo dei reduci,  perché l’affermazione del movimento mussoliniano e la nomina del fascista podestà  Luigi Sansò, misero a tacere ogni polemica e seppellirono nell’archivio della prefettura le carte dell’inchiesta, con le denuncie, i manifesti e le richieste del filosofo melissanese.

Luigi Corvaglia, quindi,  si ritirò a vita privata, non aderì al fascismo e si dedicò agli  studi filosofici e letterari. Infatti, dal 1925 al 1931, pubblicò le commedie (La Casa di Seneca, Rondini, rappresentata a Lecce nel teatroPaisiello”, Tantalo, Santa Teresa e Aldonzo);  nel 1934 diede alle stampe Vanini, edizioni e plagi, l’anno successivo scrisse un saggio su Vanini e Leys per la rivista crociana La Critica.

Contemporaneamente si dedicò all’imprenditoria: aprì uno stabilimento vinicolo, un molino ed un panificio, bonificò 200 ettari di terreno incolto e malarico facente parte della masseria “Marini”, situata a due passi da quel mare Jonio che fece da sfondo al suo romanzo Finibusterre.

Fu uno dei fondatori della Cantina Cooperativa e dell’Unione Agricola di Melissano, costituite per sottrarre i rurali (così definiva i lavoratori della terra, rivalutandone la funzione) allo strapotere contrattuale degli acquirenti di uva.

Terminata la seconda guerra mondiale, egli fu nuovamente chiamato a far parte della giunta comunale di Melissano ed essendo uno dei fondatori del P.R.I. a Lecce,  fu candidato nella lista repubblicana per l’Assemblea Costituente: battaglia di testimonianza in una provincia tra le più monarchiche d’Italia e così lontana dal partecipare alla formazione di quella  coscienza nazionale che Luigi Corvaglia auspicava nei Quaderni Mazziniani. Il Nostro, infatti, fu votato solo dal 10% degli elettori melissanesi, mentre in ambito circoscrizionale conseguì 562 preferenze su 6.970 voti di lista.

L’insuccesso elettorale e il dissenso con Randolfo Pacciardi (segretario nazionale del P.R.I.)  segnarono il distacco dalla politica, vista, ora, come gioco del parteggiare, vecchio tristo gioco italico, che consente ancora una volta di essere contro qualcuno(5) e come regno dei partiti nei quali si perpetua la gestione del potere fine a sè stesso. Tra l’altro, i suoi interessi culturali lo rendevano quasi “estraneo” alla comunità melissanese; anche per questo si trasferì a Roma dove, frequentando le biblioteche Casanatense, dei Lincei, Nazionale e Vaticana, approfondì gli studi di filosofia rinascimentale e scrisse una grande quantità di opere, molte delle quali rimaste inedite. Solo d’estate ritornava a Leuca per abitare in  compagnia degli “Dei Terminali”, ai quali aveva dedicato la sua villa.

Ma, nonostante la lontananza, Luigi Corvaglia non dimenticò mai il suo paese, lo testimonia anche la lettera seguente nella quale egli constata amaramente la distanza che lo separa da Melissano e ne sintetizza le vicende degli ultimi cinquanta anni, nelle quali è facile intravedere un acherontico retaggio, causa dei tanti problemi della comunità melissanese. La lettera, datata Roma, 27 febbraio 1958, è indirizzata al sindaco di Melissano, avv. Elio Santaloja, che aveva chiesto al Corvaglia notizie sullo stemma civico:

Caro Elio,

    lo stemma che ha Melissano è quello di Casarano. Quando il paese fu eretto Comune autonomo, i Commissari (io, l’avv. Felice Panico e il dott. Vito Caputo) chiedemmo alla prefettura l’autorizzazione ad assumere come stemma quest’impresa: un cespuglio di melissa in fiore, su cui un’ape si libra cogliendo il polline; intorno, in cartiglio, la scritta “Apis non vespa”. Che il motto non piaceva per il suo mordente, proponemmo in subordine un tratto dell’ape oraziana. Ma a quei tempi montava la marea fascista e la prefettura bocciò la proposta in odium auctoris. Così restò l’impresa casaranese della quercia, con la serpe che sale per il tronco, vieto motivo dell’iconografia araldica italiana. “Impresa cesarea”, secondo i facili etimi che ritrovano Cesare alle origini del paese di Papa Tomacelli, Ottavio a quelle di Taviano, Eraclio a quelle di Racale e sciolgono in prae-siccum Presicce, in ricca d’acqua Acquarica, o appiccicano le ali ad Alliste, marchianamente ignorandone l’origine greca della bellissima, rimasta nel nome dialettale “Kaddhiste”, ecc… .

     Per l’impresa di Casarano c’è pero un’altra versione meno aulica. Essa trae l’etimo dal gergo, per metatesi, da casara, alias sacàra, il che spiegherebbe la presenza della serpe che monta per raggiungere i nidi della chioma dell’albero. Se così fosse, bisognerebbe conservare quest’impresa ch’è così congeniale anche a Melissano, per via del rettile.

Caro Elio, sorvola su questa nota, che a dirla col De Bonald, mi suggerisce la “collera dell’amore”, verso il mio paese natale, sempre e ancora a me diletto, ma purtroppo così remoto da come io l’avrei voluto. E se ti riesce, dai pure  a Melissano uno stemma tutto suo; ma sovrattutto risveglia intorno a te la gioventù non ancora decrepita per ridare al paese la sua tradizione di serietà, di onestà e di intelligenza operosa. Luigi Corvaglia.

————————–

(1)     La fedeltà alle idee mazziniane venne richiamata dallo stesso Corvaglia nel suo epitaffio, trascritto  sulla lapide affissa dal Comune di Melissano sulla casa dell’illustre studioso:

Luigi Corvaglia

Letterato

Trasfigurò in religione umana

Finibusterre

Del pensiero rinascimentale

Trasse alla luce obliterate sorgive

In tempi scardinati

Vivendo intrepidamente fedele

All’idea mazziniana

Di Giustizia e Libertà

(2) “Vigilia elettorale nel collegio di Gallipoli”, manifesto di L. Corvaglia, datato 19.3.1915.

(3) “Per un referendum”, manifesto di L. Corvaglia, datato aprile 1920.

(4) “Le Questioni Morali di Melissano”, manifesto di L. Corvaglia, datato 6.12.1924

(5) “L’acherontico retaggio (con elogio della vita comune)” , Matino, S. A. Tipografia, 1945  (« Quaderni mazziniani », n. 3).

 

I misteri dei Messapi rivivono in un libro di Lory Larva

 

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di Stefano Donno

Interessante il volume “Messapia. Terra tra due Mari”, a cura dell’archeologa e giornalista Lory Larva, edito da Paolo Pagliaro Editore.

La casa editrice salentina, “fresca di stampa”, esce con tale pubblicazione proprio mentre serpeggia a queste latitudini un sentimento di necessità per un’idea di autonomia locale, volta alla creazione di una Regione Salento. Ma non è politico l’obiettivo del volume … forse!?

Ad ogni modo si tratta di un lavoro piuttosto corposo, circa 366 pagine, ricco di numerose fotografie a colori, che nell’intenzione dell’autrice vuole essere un esaustivo compendio sull’antica civiltà dei Messapi, popolo misterioso che abitò quello che oggi è il Salento tra il IX e la metà del III secolo a.C.

Ma chi erano veramente i Messapi? Lory Larva scandaglia in profondità le innumerevoli fonti storiche sui Messapi pervenuteci ad oggi, non trascurando analisi concernenti il sistema insediativo messapico, il sistema cultuale rappresentato prodromicamente dal “culto aniconico del pilastro-stele”, e in seguito da cippi iscritti associati a depositi votivi, il sistema della produzione e di quello commerciale tra la Messapia e il mondo greco,

L’amore passato e presente (e non solo…) in 14 proverbi salentini

14 FEBBRAIO, SAN VALENTINO: L’AMORE PASSATO E PRESENTE (E NON SOLO…) IN 14 PROVERBI

 

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Non chiediamo scusa, sia chiaro, per aver celebrato a modo nostro, sicuramente non convenzionale, questa ricorrenza e, in generale. l’amore. Lo faremo solo se qualche lettore (dubitiamo che sarà, paradossalmente, una lettrice…) ce ne darà un motivo la cui validità, poi, oltretutto, sottoporremo al vaglio di tutti. D’altra parte la serietà dell’argomento, lo diciamo senza ironia, ci ha dissuasi dal corredarlo,  all’inizio, di qualsiasi immagine, fosse solo una simpatica vignetta, in funzione ritualmente edulcorante; poi, invece …

  

 
 
 

 

collezione privata Mino Presicce

 

 

AMA CI CRESCE E NNO CI PARTURESCE

(Ama chi cresce e non chi partorisce)

Il pensiero vola ai neonati (sopravvissuti) la cui prima culla è stato un cassonetto, e (altra perversione umana…pensando alle adozioni sublimi anche tra specie diverse che le cosiddette bestie sono in grado di attuare) agli uteri in affitto.

 

AMA L’OMU CU LLU ‘IZZIU SUA

(Ama l’uomo col vizio che ha)

Tutto dipende dal vizio che ha.

 

AMORE TI PATRUNI AMORE TI FRASCUNI

(Amore di padroni, amore in mezzo a folte frasche)

In passato il verbo ‘nfrascare era sinonimo di “darsi alla macchia” per sfuggire alla cattura o per soddisfare, naturalmente da parte del maschio, rapporti sessuali “illegittimi”. Oggi, addirittura, si mobilitano fotografi e cameramen per immortalare l’evento che si verifica in un ambiente magari meno ecologico quale può essere un pied-à-terre (diventato, nel frattempo, un attico) , o peggio, se ne fa una ragion di stato per non abbattere un governo il cui capo, però, trova più comodo parlare di complotto della magistratura, naturalmente di sinistra1, che presentarsi davanti ad essa col fior di avvocati (peraltro parlamentari…di destra) che pure ha a sua disposizione.

 

collezione privata Mino Presicce

 

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