Abbraccio col mare e non solo, in un grigio venerdì

 

Castro vista da Marittima

28 gennaio 2011

 di Rocco Boccadamo

A ogni novello calendario, ecco, per chi scrive, porsi immancabile, particolarmente atteso e sentito forse perché tra i primi, l’appuntamento affascinante delle “Secche di gennaio”, spunto d’autentica rinascita di memorie antiche, gocce di lucentezza di commozione agli occhi, scansioni d’immagini scolpite e indelebili nella mente e oltre.

Cieli tersi, distese di turchino intenso, ferme, quasi ritrattesi sotto la muta, insolita e prolungata esposizione ai raggi tiepidi, costoni e bagnasciuga fattisi, per prodigio, secchi, granchi che passeggiano straniti, patelle carnose che s’ affacciano a portata di mano o, al massimo, di temperino.

Come Natale, Pasqua, la Quaresima e l’Avvento, mai “tradiscono” le Secche, la loro, in fondo, è una premessa, se non promessa, al ritorno di rinnovati giorni e notti da assaporare e godere fra onde e stelle, un’immersione dietro l’altra in acque d’incanto.

Così, in assoluto, le secche del mese d’esordio, per il consumato viandante d’almanacchi; di qualche settimana fa, l’ultimo appuntamento di contatto diretto e visivo.

Vi porto talmente dentro, mi siete talmente compagne, al punto da esercitare suggestioni forti nel mio subconscio, finanche oggi, giornata da lupi, tetra, umida, proprio agli antipodi rispetto ai colori abituali di questo cielo e questo mare verso Finibus Terrae.

Tempo climaticamente infausto a parte, sono scappato da casa dopo la costrizione da tosse e accessori, fiondandomi alle origini familiari e amate.

E’ il mezzo del mattino, già il primo impatto è un bel dire: coppola in testa, va procedendo verso casa sua, Nino, il pescatore di saraghi, in mano un secchio pieno di legna per il fuoco. Chissà quale e quanto rimpianto per il suo piccolo gozzo, il suo “conzo”!

Scivolo accanto alla cooperativa “Adriatica”, semi buia, nessuno dentro, socchiuso pure l’uscio del tabaccaio attiguo, qualche voce dall’interno della “Chianca”, Donato della pescheria è lì insieme con altri due o tre avventori (il caffè è bell’ e offerto),  chiedo se lo scirocco sia montato da poco, D. annuisce, precisando che la “paranza” ha appena fatto in tempo ad uscire, ma, in breve volgere, ha poi dovuto far rientro nel porto, scaricando soltanto un po’ di frittura.

Intanto, poco giù, i marosi s’inarcano e s’infrangono con eccezionale fragore, gravidi di potenza e di forza spazzante, sembrano portarsi appresso integri i profumi originari di  mirto di Corfù e di Itaca  sull’altra sponda dello Ionio, si sbattono irrefrenabilmente addosso a qualsivoglia tratto di scogliera, con preferenza ovvia per Pizzo Mucurune. Per lo meno, ogni traccia d’impurità, opera di mani colpevoli, è schiantata, sospinta lontano.

Sul primo tratto di litoranea in direzione Tricase, nessun’ombra di vita, un isolato gattino nero fa capolino da un cortiletto e poi si ritrae rapido. Il motore dell’auto è sovrastato da un ben più profondo rombo d’intorno, d’ogni dove, è un susseguirsi di valanghe e d’immense distese di bianca schiuma, le sferzate sul nero delle alte rocce si alternano a profondi, quasi ritmati rigurgiti a rientrare.

Seguita la marcia in direzione Marina di Andrano, pochi attimi e mi ritrovo davanti al fondicello di I.: che bello, nelle 26 piccole fogge recentemente scavate con lo zappune,  per una  buona metà sommerse di pioggia, le piantine di rape sembrano aver attecchito e chissà che non diano qualche  minestra gustosa e gradita.

Quindi, abituale volata nella cooperativa di consumo per piccoli acquisti al banco della salumeria, l’incontro e il saluto gentile, ivi, con M.A. Subito dopo, proseguimento per Marittima, seguendo la via vecchia, lungo la quale, tutte le volte, sembrano materializzarsi le vestigia dell’antico e scomparso casale di Ciddrini.

All’altezza dell’Arciana, la Opel blu di mio cugino V. si sta dirigendo verso la Piazza per il rito del caffè e la provvista  di sigarette, la blocco con il clacson, mi pianto a fianco, il guidatore si chiede e mi chiede come mai io sia uscito dalla quarantena, gli rispondo “per disperazione”, porgendogli una copia del “Paese Nuovo” con in prima pagina il mio ultimo articolo “Brrr, che freddo!”.

L’amico V. è introvabile: a casa, da nonno L., ai Pizzeddri, sarà andato fuori, lo incontrerò la prossima volta, Assente, anche, maestro N. barcaiolo, fa niente.

Ora, però mi resta un’altra visita, la più importante. Davanti al portone dischiuso ai filari di cipresso, non si nota essere vivente, del resto le anime stanno tutte all’interno; accedo alla “casa “ dei miei genitori, le gocce di umidità la fanno da padrone anche lì, le piante di felci trasudano, la stessa tovaglietta di lino sul piccolo altare è più bagnata che umida.

Loro due, però, sembrano proprio non curarsi che ci sia brutto tempo, si danno tepore vicendevolmente, come sempre mi porgono l’idea di essere contenti della mia visita, accompagnandomi con gli occhi in un accenno di sorriso.

E’ da poco suonato mezzogiorno, è, dunque, trascorso uno scampolo di giornata fra Castro, il mare, il fondicello di I. e un saluto ai miei.

Piccole cose, piccoli gesti, piccole azioni, eppure, in barba al malutiempu, sento che mi hanno fatto bene.

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