Gichero, pan delle bisce, calla selvatica… per i salentini rècchia ti prete o ua ti scursùni

NOMI DI ESSENZE VEGETALI TRA SACRO E PROFANO (1)

La rècchia ti prete o ua ti scursùni

di Armando Polito

In questa serie (anch’io, nel mio piccolo, so dar vita ad una webnovela…) passerò in rassegna alcune specie che hanno attinenza con due concetti che sono da sempre alla base del nostro passaggio sul pianeta, il primo (sacro), a dire il vero, oggi abbasta appannato anche nel suo significato laico di rispetto di valori universali, il secondo (profano), invece, amplificato nel suo significato etimologico di “fuori dal tempio” (dal latino  pro=davanti e fanum=tempio).

Comincerò da una, che nelle denominazioni dialettali riportate nel sottotitolo sembra riassumere in sé entrambe le categorie concettuali prima espresse.

Ecco il resto della sua scheda:

nomi italiani: gigaro, gighero, gichero, pan delle bisce, calla selvatica;

nome scientifico: Arum italicum Mill.;

nome della famiglia: Araceae. 

E passo alle etimologie, cominciando dai nomi dialettali: rècchia ti prete (orecchio di prete) sarà probabilmente legato alla forma della foglia che ricorda vagamente un orecchio col lobo appuntito (che poi questa sia una caratteristica dell’orecchio dei preti mi pare molto discutibile, a meno che non ci sia un rapporto con la confessione, come se anche in questo caso la funzione sviluppasse l’organo); ne approfitto per ricordare che rìcchie ‘i prièviti in calabrese sono le nostre orecchiette; ua ti scursùni (uva di scorsoni1) è parallelo (a parte la sostituzione del pane con l’uva) all’italiano pan delle bisce: secondo l’opinione corrente il nome è legato alla presunta capacità che anticamente veniva attribuita alla pianta di tenere lontani i serpenti (vedi più avanti la testimonianza di Dioscoride); non è da escludere, secondo me, la possibilità che le due  denominazioni (più pan delle bisce che ua ti scursùni, in cui per ua scatta la somiglianza col frutto)  siano legate alla credenza di una sorta di valenza alimentare della pianta per i serpenti (in ossequio, quasi, al vecchio principio che gli opposti si annullano, nel senso che le bisce, quelle velenose, potrebbero nutrirsi senza conseguenze della pianta pure essa velenosa), oppure, molto più semplicemente, il riferimento potrebbe essere al rapporto di somiglianza tra la variegatura delle foglie e quella delle pelle della biscia.

Siamo ai nomi italiani: liquidati pan delle bisce (per quanto si è appena detto) e calla selvatica (somiglianza delle foglie e degli steli) rimangono gigaro, gighero e gichero. Gigaro (di cui, evidentemente, gighero e gichero sono varianti successive) deriverebbe dal latino tardo gigaru(m)2 attestato da Marcello Empirico (IV- V secolo d. C.) come di origine gallica, mentre lo Pseudo Dioscoride (compilatore anonimo in greco databile al VI° secolo d. C.) lo attribuisce agli Etruschi3. Credo che la soluzione possa risiedere nello stesso brano di Dioscoride prima citato e, rinviando la questione al momento in cui riporterò la sua testimonianza, passo all’etimologia dei restanti nomi: Arum è dal greco aron, probabilmente dalla radice ar– che significa calore, con riferimento a quello che la pianta emette quando è in piena fioritura; italicum dalla zona dei primi ritrovamenti; Araceae è forma aggettivale dal precedente arum.

È il momento ora, come anticipato, di Dioscoride (I° secolo d. C.): ”La draconzia grande, che alcuni chiamano aro,  arisaro, iaro4, ieracico, biaro, pure armiagrio e ciperi, i Romani colubrina, mauriaria, sigingialio, nasce nelle zone ombrose dei recinti. Ha il fusto liscio, diritto, quasi di due cubiti e dello spessore di un bastoncino, variegato nel colore a guisa di serpente, anche se abbondano le macchie purpuree. Le foglie si accostano alla forma di quelle del lapazio, intrecciate insieme. Produce in cima allo stelo un frutto racemoso, prima color cenere, giallo o rosso quando è maturo; la radice è molto grossa, rotonda, candida, rivestita di una sottile corteccia. Si raccoglie e se ne estrae un succo, quando il frutto è maturo, e si secca all’ombra. La radice viene estratta  in estate e lavata viene tagliata a pezzetti e legata con una cordaviene seccata all’ombra. Ha proprietà riscaldante sciolta nel vino. Giova o tostata o anche lessata, leccata con miele, a chi ha difficoltà di respiro, a chi ha fratture, convulsioni o catarro. Bevuta con vino stimola il desiderio sessuale, tritata con miele  e applicata cura  le ulcere maligne e la bulimia, soprattutto in unione alla vite bianca. Da essa unita anche a miele si ricavano unguenti  per le fistole e per estrarre i feti. Applicata con miele giova contro la vitiligine. Assorbe i polipi e i tumori. Anche il suo succo è utile per i medicamenti degli occhi, contro le piccole macchie, le macchie bianche e gli offuscamenti della vista. Inoltre l’odore fresco della radice o  dell’erba fa abortire come pure trenta granelli di seme se sono bevuti in acqua e aceto. C’è chi applica  il succo estratto dallo stesso seme con olio a chi è tormentato dal dolore di orecchi, anzi pure le foglie, molto astringenti, sulle ferite recenti e le stesse cotte nel vino sui geloni. Dicono pure che colui il quale abbia sfregato con le mani le foglie o si porta appresso la radice mai viene morso da una vipera5”.

“L’aro, detto lufa presso I Siri (altri lo chiamano alimo, altri timo o draconzia, gli abitanti di Cipro anche colocassio), ha le foglie simili a quelle del dragoncello, ma più piccole e meno macchiate, un fusto lungo una spanna, rossiccio e dalla forma di pistillo, sulla cui sommità c’è il frutto che tende al color zafferano. La radice è bianca, si avvicina molto a quella del dragoncello e allo stesso modo cotta è commestibile essendo meno acre. Le foglie vengono condite e di per sé aride vengono mangiate cotte. La radice, i semi e le foglie hanno le stesse proprietà della draconzia. La radice applicata come cataplasmo con  letame di buegiova a chisoffre di podagra. Nel resto si conserva allo stesso modo della radice della draconzia e infine è più adatta come cibo, per essere meno aspra6.”

Il contemporaneo Plinio: “Tra queste specie c’è pure quello che in Egitto chiamano aro, vicino alla scilla per grandezza, con le foglie simili a quelle del lapazio, il gambo diritto lungo due cubiti, grosso come un bastoncino, dalla radice di consistenza abbastanza molle tanto da essere mangiata anche cruda. I bulbi vengono estratti prima della primavera o subito diventano inutilizzabili. Il segno della maturità è dato dalle foglie che seccano dal basso; sono ritenute inutilizzabili pure i troppo vecchi, nonché i lunghi e piccoli; al contrario sono tenuti in gran considerazione quelli rossicci , più rotondi e molto grandi. Nei più l’amaro è in cima e la parte centrale è dolce. Gli antichi ritenevano che i bulbi nascessero solo dal seme, ma nelle campagne di Preneste nascono spontaneamente e senza misura anche in quelle di Remi7”; “L’Egitto lo [il dragonzio] produce in grande quantità; esso è chiamato pure aro, del quale abbiamo parlato tra i bulbi e c’è grande discussione col dragonzio. Alcuni hanno detto che è proprio il dragonzio. Glaucia lo distingue per la coltivazione dicendo che il dragonzio è l’aro selvatico. Alcuni chiamarono aro la radice, il gambo dragonzio, in tutto diverso, se pure è quello che presso di noi è chiamato dragoncello. Infatti l’aro ha la radice nera tonda e larga e molto più grande e tale da riempire una mano. Il dragoncello ce l’ha rossiccia e a mò di serpente avvolto, donde gli viene il nome. Anzi gli stessi Greci definirono la notevole differenza affermando che il seme del dragoncello è caldo e pungente e che il suo solo odore provoca l’aborto nelle donne gravide. Rivolsero lodi meravigliose all’aro preferendo in primo luogo la femmina nei cibi, poiché il maschio è più duro e più lento a cuocersi. Dicono che aiuta nelle malattie del petto e che secco messo in una bevanda o applicato ad empiastro stimola la diuresi e la mestruazione. Bevuto così pure con miele e aceto giova allo stomaco e va bevuto con latte di pecora in caso di intestino irritato; lo somministrarono con olio contro la tosse cotto nella cenere. Altri lo cossero nel latte perchè fosse bevuto come decotto. Lo applicarono come cataplasma sugli occhi in caso di lacrimazione, nonché sulle contusioni e per le tonsille. Con l’olio lo applicarono alle emorroidi e con miele alle lentiggini. Cleofanto lo lodò anche come antidoto contro i veleni, per i malati di pleurite, di polmonite, nello stesso modo in cui viene somministrato in caso di tosse, applicando il seme tritato con olio o con essenza di rose in caso di dolore di orecchi. Dieuche lo somministrò mescolato con farina in pan cotto in caso di tosse, di difficoltà di respiro e di ortopnea e a chi espettora pus; Diodoto lo prescrisse ai tisici in empiastro col miele e per le malattie dei polmoni, nonché in caso di frattura. Applicato intorno alla vulva facilita il parto di tutti gli animali. Il succo della radice con miele attico elimina l’offuscamento della vista e i disturbi  dello stomaco, il suo decotto con miele è efficace contro la tosse. Il suo succo sana mirabilmente le ulcere di ogni tipo, sia che siano di origine bulimica, sia cancerosa, oppure siano di quelle che tendono a diffondersi o polipi nel naso. Le foglie cotte col vino e con l’olio giovano in caso di ustione. Prese col sale e con l’aceto liberano l’intestino, cotte col miele giovano alle slogature nonché, fresche o secche, alle articolazioni attaccate dalla podagra. Ippocrate le somministrò entrambe con miele in caso di ascesso. Due dracme del seme o della radice in due ciati di vino bastano a favorire la mestruazione. La stessa pozione espelle pure la placenta e il resto se ciò non è avvenuto dopo il parto. Ippocrate applicò in empiastro la stessa radice. Dicono pure che in caso di pestilenza fa bene se assunto come cibo. Dissolve i fumi dell’alcool. Quando è bruciato con l’odore mette in fuga i serpenti, particolarmente gli aspidi o li inebra a tal punto che vengono trovato intorpiditi. Essi evitano pure quelli che si son unti con aro e olio di alloro. Perciò ritengono utile somministrarlo da bere in vino nero contro i loro morsi. Si tramanda che il formaggio si conserva ottimamente nelle foglie di aro8”.

Chiudo con una notizia reperita in Rete9: “Interessante è il ruolo che Arum italicum può rivestire nella fitorimediazione: una tecnologia innovativa ed ecosostenibile che prevede l’utilizzo di specie vegetali per rimuovere, contenere e degradare gli inquinanti di natura organica ed inorganica dal suolo. In particolare lo studio della flora spontanea presente in siti naturalmente inquinati, per esempio i siti minerari di antica storia come quello del Bottino, in provincia di Lucca, sottolineano come alcune specie, fra cui l’Arum italicum, presentano concentrazioni di zinco decisamente alte, tali da rendere queste piante utili a fini disinquinanti”10.

Una domanda sola mi pongo: la concentrazione di zinco prelude ad una capacità della pianta di assimilarlo e degradarlo, oppure l’Arum italicum è solo una economicissima centralina di rilevamento del tasso di inquinamento da zinco? Se è così la notizia non mi conforta più di tanto…

Per le altre parti:

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/12/plantago-coronopus-nota-come-barba-di-cappuccino/

3 https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/14/la-mazza-ti-san-giseppu-ovvero-la-malvarosa-il-malvone-il-rosone/

4 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/01/18/la-pianta-che-divenne-bicchiere-della-madonna/

5 https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/21/ce-anche-lerba-delle-fate/

6 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/02/lagave-dal-mondo-sereno-delle-fate-a-quello-tumultuoso-del-diavolo/

7 https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/25/lerba-che-ricorda-le-unghia-del-diavolo/

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1 Scorsòne in zoologia è il nome comune con cui si indica il colubro di Esculapio (Elaphe longissima), assolutamente innocuo, di cui nel nostro territorio è presente la varietà nera. La voce è dal latino tardo (dei glossarî) curtiòne(m), dal classico curtus=corto, raccostato a scorza.

2 De medicamentis, X, 58: Polypum emendet herba Proserpinalis quae Graece draconteum, Gallice gigarus appellatur” (Elimini il polipo l’erba di Proserpina che in greco è chiamata draconzio, in gallico gigaro).

3 Ex herbis femininis, II, 167: “La draconzia piccola: alcuni la chiamano aron, gli Etruschi gigarum”.

4 Credo che proprio in iaro (in greco iaron) sia la chiave dell’integrazione etimologica di gigaro e compagni (senza scomodare il gallico o l’etrusco), attraverso la trafila giaro (voce che compare, insieme con iaro e gichero nel Vocabolario degli Accademici della Crusca, Stamperia dell’Accademia della Crusca, v. I°, pag. 70, Firenze, 1691)>gigaro (raddoppiamento imperfetto della sillaba iniziale).

5 De materia medica, II, 195.

6 Op. cit., II, 197.

7 Naturalis historia, XIX, 30: Est inter genera et quod in Aegypto aron vocant, scillae proximum amplitudine, foliis lapathi, caule recto duum cubitorum, baculi crassitudine, radice mollioris naturae, quae estur et cruda. Effodiuntur bulbi ante ver aut deteriores illico fiunt. Signum maturitatis est folia inarescentia ab imo, vetustioresque improbant, item longos ac parvos; contra rubicundis rotundioribusque laus et grandissimis. Amaritudo plerisque in vertice est, media eorum dulcia. Bulbos non nasci nisi e semine priores tradiderunt, sed in Praenestinis campis sponte nascuntur ac sine modo etiam in Remorum arvis.

8 Op. cit., XXIV, 91-92:  Aegyptus hanc maxime gigni, quae et aron, de qua inter bulbos diximus, magnae cum dracontio litis; quidam enim eandem esse dixere. Glaucias satu discrevit, dracontium silvestrem aron pronuntiando. Aliqui radicem aron appellarunt, eandem vero dracontium, in totum alium, si modo hic est qui apud nos dracunculos vocatur. Namque aros radicem nigram in latitudinem rotundam habet multaque maiorem et qua manus impleatur, dracunculus subrutilam et draconis convoluti modo, unde et nomen. Quin et ipsi Graeci immensam posuere differentiam: semen dracunculi ferveus mordaxque tradendo tantumque et virus, ut olfactum gravidis abortum inferret, aron miris laudibus tulere, primum in cibis feminam praeferentes, quoniam mas durior esset et in coquendo lentior; pectoris vitia purgare, aridum potioni inspersum aut ecligmate urinam et menses ciere, sic et in oxymelite potum. Stomacho interaneisque exulceratis ex lacte ovillo bibendum, ad tussim in cinere coctum dedere ex oleo. Alii coxere in lacte, ut decoctum biberetur. Epiphoris elixum inposuere, item suggillatis, tonsillis. Glaucias ex oleo haemorrhoidum vitio infudit, lentigines ex melle inlinens. Laudavit et pro antidoto contra venena, pleuriticis, peripneumonicis quo tussientibus modo. Semen intritum cum oleo aut rosaceo infudit aurium dolori. Dieuches tussientibus aut suspiriosis et orthopnoicis et pura excreantibus farinae permixtum pane cocto dedit, Diodotus phthisicis e melle ecligmate et pulmonis vitiis, ossibus etiam fractis inposuit. Partus omnium animalium extrahit naturae circumlitum. Sucus radicis cum melle Attico oculorum caligines, stomachi vitia discutit, tussim decocti ius cum melle. Ulcera omnium generum, sive phagedaenae sint sive carcinomata sive serpant sive polypi in naribus, sucus mire sanat. Folia ambustis prosunt ex vino et oleo cocta. Alvum inaniunt ex sale et aceto sumpta et luxatis cum melle cocta prosunt, item articulis podagricis cum sale recentia vel sicca. Hippocrates utralibet ad collectiones cum melle inposuit. Ad menses trahendos seminis vel radicis drachmae II in vini cyathis duobus sufficiunt. Eadem potio, si a partu non purgentur, et secundas trahit. Hippocrates et radicem ipsam adposuit. Dicunt et in pestilentia salutarem esse in cibis. ebrietatem discutit. Serpentes nidore, cum crematur, privatim aspidas, fugat aut inebriat ita, ut torpentes inveniantur. Perunctos quoque aro e laureo oleo fugiunt. Ideo et contra ictus dari potui in vino nigro putant utile. In foliis arii caseus optime servari traditur.

9 http://www.kaos-omeopatia.org/documenti/TESI%20KAOS%202010.pdf

10 Tratto dalla tesi di specializzazione Famiglia botanica Araceae di Marina Boischio e Luciana Dini, Genova, anno accademico 2009-2010.

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