Per una storia della pastorizia pugliese. La pecora moscia leccese

 

Ariete di proprietà dell’ allevamento F.Cazzella (ph Giovanni Tortorella)

di Franco Cazzella

 

Basta dare uno sguardo al passato per rendersi conto dell’attenzione che lungo i secoli decine di studiosi hanno dedicato alle pecore e all’allevamento ovino. Questa non è indubbiamente la sede per ulteriori approfondimenti, ma ci corre l’obbligo di citare almeno, fra i tanti autori, Lucio Giunio Moderato Columella, poiché le indicazioni di questo agronomo vissuto ai tempi di Seneca (4 – 65 d. C.) sono per taluni aspetti di un’attualità sorprendente.
Di ovini Columella parla a lungo all’interno del suo monumentale “De re rustica”, un’opera articolata in 12 volumi, che affronta l’attività agricola sotto ogni aspetto. Alla cura del bestiame l’autore spagnolo dedica per la verità numerosi tomi (VI, VII, VIII e IX libro), ma è principalmente nel VII che il pastore diventa protagonista indiscusso della narrazione.
Le pecore – scrive Columella – vengono subito dopo il bestiame grosso, ma se si guardasse all’utile che esse generano, dovrebbero essere al primo posto. Ci offrono protezione ai rigori del freddo e sono la fonte principale di indumenti. E che dire poi dell’abbondante latte e del formaggio, alimenti che saziano non solo la gente di campagna, ma anche le delicate mense dei ricchi.
I consigli dell’Autore continuano a lungo, suggerendo, ai futuri allevatori, di acquistare solo i soggetti più adatti all’ambiente in cui si trova l’azienda. In pianura vanno bene le pecore alte, mentre in una regione non troppo ricca e collinosa (le zone marginali di oggi) occorrono pecore quadrate. Se invece il territorio è silvestre e montagnoso, è meglio che le preferenze vadano su razze di piccola taglia.
In quello che ho scoperto nei suoi scritti si evidenzia la nomea qualitativa che aveva già a quei tempi la pecora della nostra penisola Salentina.

Columella

Per quanto concerne la scelta dell’ariete Columella ha addirittura l’intuizione dell’esistenza della trasmissione dei caratteri. Non riesce però ad andare oltre, anche se le pagine testimoniano comunque una conoscenza della riproduzione animale davvero sorprendente per quell’epoca. Ma anche per questo genere di animali – scrive Columella in tema di ovini – l’esperienza ci ha insegnato ad ottenere nuove varietà. Essendo stati portati al municipio di Gades (l’odierna Cadice in Spagna) dalla vicina Africa, insieme agli altri animali degli arieti selvatici di bellissimo colore per gli spettacoli dei gladiatori, mio zio Marco Columella, uomo di acuto ingegno e famoso agricoltore, ne acquistò alcuni e li portò nei propri poderi. Dopo averli addomesticati li accoppiò a pecore domestiche. Queste partorirono degli agnelli a pelo ispido del colore paterno e questi agnelli egli diede a pecore tarantine, con le quali essi produssero agnelli di vello più morbido. Di nuovo accoppiati, gli animali frutto dell’unione mantennero la finezza del pelo delle madri, ma il colore del padre e degli avi.

In questo modo, diceva Marco Columella, qualsiasi carattere che era stato proprio degli animali selvatici era stato conservato nelle generazioni dei nipoti, attenuata per la sua selvatichezza.

Prima pagina del De Re Rustica di Columella (da www.imagoromae.com/)

La pecora è stata sempre considerata uno degli animali più preziosi e completi a disposizione dell’uomo. E’ quasi pleonastico precisare l’importanza della lana, in un mondo che sino allo sviluppo della civiltà sumera ed egizia era legato solo alle fibre vegetali. Ma vorremmo anche ricordare un altro impiego non meno importante degli ovini e della loro pelle in particolare, utilizzata nel corso di lunghi secoli per produrre pergamena (dal nome dell’antica città greca di Pergamo nell’Asia Minore), conosciuta anche come cartapecora; insostituibile supporto per tramandare ai posteri opere altrimenti destinate a svanire nel nulla.

Ma l’epopea dell’ovinicoltura passa anche dall’invenzione del formaggio, databile circa seimila anni fa e dalla importanza che questo tipo di bestiame ha rappresentato nell’economia di popolazioni nomadi, che trovarono e trovano tutt’oggi nella pastorizia (pecore e capre principalmente) una inesauribile fonte di sostentamento e di ricchezza.

Libri con Rilegatura in Pergamena dove si evidenzia che vecchi di 400 anni sono ancora integri (Biblioteca R. Caracciolo Lecce, ph G. De Filippi)

Nel Salento non si sa con certezza quando la pastorizia si sia sviluppata, ma, con molta probabilità, questa continua sin dai tempi dei Greci. Testimonianze si hanno (1194-1250) dall’imperatore Federico II di Svevia che emanò una speciale costituzione a favore dell’industria ovina per lo sfruttamento dei pascoli in Puglia; Alfonso d’Aragona (1495) introdusse Merinos dalla Spagna per il miglioramento degli ovini pugliesi.

Dal ‘600 in poi si può fare un’analisi sulla pastorizia nel Salendo utilizzando il “Libro de Conti” di ogni masseria, annotazioni che insieme ai dati relativi ai contratti di affitto delle masserie evidenziano la fisionomia culturale agricola- pastorale e il processo storico di organizzazione dell’economia e della società rurale.
Dall’annotazione di spese nel Il Libro de Conti di Procure del Venerabile Monastero di Santa Chiara di Nardò, si riesce a distinguere l’organizzazione delle pratiche di rotazione agraria, tra la produzione cerealicola all’attività pastorale definita soprattutto (accanto ad un numero di bovini destinati al lavoro dei campi) da ovini e caprini distinti in pecore grosse, montoni, castrati (montoni castrati), “aune ed auni” (agnelle ed agnelli), capre grosse, caprette e capretti, “magliati” (caproni castrati), che raggiungono nel 1686 (in base ai pochi dati specifici sul patrimonio zootecnico) un totale di 871 capi nella masseria di S. Chiara e 323 capi nella masseria Boncori. Gli introiti di carni e pelli, estremamente ridotti in certi anni (ad esempio 1695; 1701-1702) dalla moria di pecore, provengono dalla vendita di ovini e caprini molti dei quali morti (cretti), vecchi o di scarto (scancioni, crepatizzi, primaticci e tardivi). Altri introiti concernono la produzione di formaggio e ricotta – fresca, salata, marzotica e piccante (uschiante) venduta a Lecce, Maglie, ecc. – e infine di lana bianca, fulina (grigiastra) e negra, venduta, fra l’altro ai cominanzieri (servo o artigiano, che mangia con la famiglia del contadino dove lavora).
Gli introiti relativi a carni e pelli della masseria S. Chiara sono confrontabili con quelli della masseria Boncori e, per i primi anni del 700, con quelli della masseria delli Nucci (diventata in quelli anni di proprietà del Monastero).

Come per i prodotti agricoli, anche per i prodotti zootecnici si verifica, nei primi anni del 700, un aumento dei prezzi; così, una pecora che nel 1691-1692 si vendeva a 5-6 carlini nel 1701-1702 quotava 7-9 carlini; più rilevante l’incremento dei prezzi degli agnelli che, negli stessi anni, passava da 5-6 grana a 23 grana. Il confronto circa l’aumento dei prezzi relativi al bestiame e ai prodotti dell’allevamento fornisce elementi di valutazione sull’andamento del mercato zootecnico, rispettivamente a quello dei prodotti agricoli e quindi fornisce elementi di valutazione sull’importanza economica assunta dall’agricoltura e dall’allevamento nel quadro complessivo dell’attività produttiva.

Si evidenzia che alla fine del ‘700 nella Provincia di Otranto si concentrava una popolazione di 450.000 capi di ovini e caprini e riforniva di carne la capitale Napoli.
Le origini della razza Leccese è dagli ovini di razza asiatica o siriana del Sanson (ovis aries asiatica) e precisamente dal ceppo di Zackel, diffusa nei Balcani sino al Danubio, e che è stata importata dai Saraceni. Si chiamano mosce, in tutta l’Italia Meridionale, le pecore a lana lunga da materasso che si distinguono per la grande rusticità. Questa perfettamente adattata alla povertà dei pascoli salentini, riesce a trarne il massimo e a trasferirlo nei formaggi che ne derivano.
Nel corso dei secoli, sia per l’indirizzo perseguito dagli allevatori e sia in funzione dell’ambiente, si sono evidenziate due razze-popolazione nettamente differenziate: la “Leccese” e l’”Altamurana”, questa ultima (acorne) localizzatasi principalmente nelle zone murgiose delle provincie di Bari e Potenza.

La Leccese venne, invece, ad insediarsi nel Salento per ragioni più strettamente legate all’ambiente. Infatti, la presenza nei pascoli salentini dello Hypericum crispum (una specie erbacea localmente chiamata “fumolo”), determina gravi forme dermatoidali negli ovini che non abbiano almeno faccia ed arti scuri.

(estratto da BIODIVERSITA’ A RISCHIO DI ESTINZIONE. LA PECORA MOSCIA LECCESE. Futuro- Presente- Passato, Mario Adda Editore 2008)


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5 Commenti a Per una storia della pastorizia pugliese. La pecora moscia leccese

  1. ho particolarmente apprezzato questo articolo, primo di una serie che il buon Franco ci proporrà nei prossimi giorni. Un aspetto poco trattato e forse anche trascurato, eppure così importante per la nostra terra. Da anni vado ripetendo che se si vuole far emergere il Salento nella realtà italiana, oltre che sul turismo occorre puntare sulla cultura e sul mondo agricolo nei suoi multiformi aspetti, compresa la pastorizia.
    Tutti i lettori avranno notato la precisa scelta redazionale di mixare, accanto alla storia e all’arte di Terra d’Otranto, alla cronaca e alle vicende locali, i fantastici prodotti che madre natura ha messo a nostra disposizione e che, ahimè, spesso sono poco apprezzati.
    Se con le Spigolature che generosi Autori mettono a disposizione di che ci legge riuscissimo a orientare in determinate scelte consumistiche, ma soprattutto riuscissimo a far apprezzare quanto di buono questa terra offre, contrastando gli scempi perpetrati sul nostro territorio e ripudiando le contraffazioni, allora potrenno ritenerci ancor più soddisfatti di quanto ci eravamo prefissati cominciando questa bella avventura nel web.

    Grazie ancora Franco, e scusami se ho approfittato del tuo articolo per sane riflessioni, che spero non siano solo personali.

    Marcello

  2. Molto interessante, attendiamo il prossimo brano della serie! Complimenti all’autore!

  3. Ciao Francesco , molto bello ed interessante . Vengo sempre a scoprire cose nuove , sul ” mio ” amato Salento ;)
    Un abbraccio e , complimenti , Sandra

  4. forse ricordo male io. le pecore salentine autoctone, numerose sino agli anni 70, avevano una mole notevole, superiore a quelle sarde, non mi pare pesassero sui 35-40 kg, ma almeno il doppio per i maschi e una decina in meno le femmine. avevano tutte il muso e la testa neri, e la lanuggine era abbondante, disordinata che pendeva a ciuffi nel sottopancia ( e non erano scevre da deiezioni dato il vello disordinato e ciondolante). comunque, anche se fuori mercato, bene sarebbe che qualche coraggioso le riallevasse per evitare la estinzione.

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