Antichi sistemi di copertura per le abitazioni salentine

Nardò nel 1732

di Fabrizio Suppressa

 

I motivi di una così diffusa tecnica di copertura sono da ricercarsi esclusivamente nell’esiguo costo dei materiali impiegati, rispetto alle ben più costose e complesse volte in muratura; ma ciò non significava affatto che tale tecnica sia stata in passato appannaggio delle architetture più semplici e povere. Sovente, anche i palazzi nobiliari possedevano all’ultimo piano tali coperture, anche se mascherate da alti frontoni, come ad esempio Palazzo Castriota a Melpignano, Palazzo Rescio a Copertino o tanti altri esempi, riconoscibili ai giorni nostri per l’ultimo piano a “cielo aperto”.

Anche la campagna non era da meno; nel libro dei conti della masseria S. Chiara in agro di Nardò, leggiamo infatti che nel 1684 si ebbe modo di rifare l’acconcio delle capanne, e per tale scopo venne chiamato un mastro dalla vicina città di Veglie[1]. Le capanne, ovvero gli elementi pertinenziali, quali abitazioni e magazzini, non erano i soli elementi realizzati con tali semplici tecniche costruttive. In alcuni casi, anche la torre, l’elemento fortificato al centro di ogni complesso masserizio, possedeva alla sua sommità due falde inclinate, anche se ciò comprometteva un’abile manovra di difesa piombante. Per rimanere in ambito neretino, questo è il caso della masseria Nucci; dove purtroppo dobbiamo constatare l’introduzione durante i lavori di ristrutturazione di tegole non appartenenti alla nostra tradizione costruttiva, stese al di sopra di una vistosa soletta in cemento armato su di una torre del XV sec. Un ultimo esempio è una particolare architettura spontanea nata dalla fusione degli elementi tipici di città e campagna: la caseddhra. Una costruzione a secco a pianta rettangolare con una stretta somiglianza all’immagine dei nostri trulli, ma al contrario di questi ultimi, non coperta da una falsa cupola bensì da un tetto formato da una rustica struttura di legno, canne e tegole.

caseddhra
Caseddhra (dis. F. Suppressa)

 

Le caratteristiche di deperibilità e fragilità dei materiali impiegati erano tali che ciclicamente si doveva provvedere allo smontaggio e alla ricostruzione del tetto. E’ difficile quindi trovare ai giorni nostri opere che abbiano più di cento anni. Forse l’unica eccezione è racchiusa all’interno delle mura del Santuario di San Giuseppe da Copertino; la costruzione eretta dal maestro Adriano Preite nel 1754 conserva intatta l’umile stalletta dove nel 1603 il Santo venne alla luce.

La tecnologia, come già detto, era semplice e rapida. Un sistema di travi di legno chiamati murali poggiante sulle esili pareti di tufo, ospitava in senso ortogonale un assito di tavole su cui gravitava il manto di tegole. Solitamente a causa del costo più elevato, si ricorreva ad un “surrogato” delle tavole di legno, ovvero un cannizzo su cui veniva posta della malta (mista a paglia o pula di grano) per uno spessore di circa cinque centimetri. Nonostante la tecnica era ad uso di ambienti più umili, la copertura incannucciata garantiva un apprezzabile isolamento termico (le canne palustri e la malta mischiata con paglia, sono infatti materiali sostenibili impiegati oggi nella bioedilizia). In caso di ampia superficie da coprire, la struttura lignea diveniva molto più elaborata, l’Arditi nel suo “L’Architetto in Famiglia”, edito a Matino nel 1894, ci ricorda le varie parti dell’intelaiatura, che a seconda della funzione prendono il nome dialettale di monaco, braccia, razze, asinello e panconcelli.

Copertura Incannucciata
Copertura incannucciata, masseria Sarparea de’ Pandi (ph. F. Suppressa)

 

Altrettanto curioso è il termine dialettale usato per indicare la tegola, ovvero l’imbrice (irmice o ‘mbrice in alcune varianti). L’assonanza ricorda la parola embrice, tegola piatta diffusa nell’area tirrenica nella tradizionale copertura alla romana, eppure la nostra tegola dalla forma concava corrisponde alla parola italiana coppo. In soccorso interviene il Marciano (anch’egli abitava in una casa con tetto a capanna), che nel capitolo del suo libro dedicato al regno minerale ci scrive quanto segue:

“Si trova anche in questa Provincia la Rubrica Sinopia eccellentissima, e la fabbrile dell’una e dell’altra specie in abbondanza, e l’argilla, ovvero creta bianca, della quale si lavorano e fanno i tetti per coprire le case, che il volgo chiama imbrici, imitando l’etimologia ed il nome latino Imbrices, ab imbrium defensione, (..)”[2].

Tali laterizi venivano realizzati in centri urbani specializzati nelle produzioni ceramiche, come Cutrofiano, Grottaglie, Lucugnano e San Pietro in Lama; non a caso, quest’ultima località era conosciuta in passato anche con il nome di San Pietro degli èmbrici[

A fine Ottocento, con l’aumento dell’attività estrattiva dei materiali edilizi e il perfezionamento delle tecniche costruttiva inizia la rapida scomparsa dallo scenario urbano di questo tipo di copertura. Il cocciopesto, un impasto di malta e cocci finemente triturati, utilizzato per secoli per impermeabilizzare i terrazzi di edifici di notevole importanza, viene rapidamente sostituito dalla tecnica del lastrico composto da chianche in pietra di Cursi e cemento; tuttora abilità fiore all’occhiello delle maestranze salentine.


[1] Antonio Costantini, Le masserie fortificate del Salento meridionale, Galatina, 1984, p. 74

[2] Spero in una conferma Prof. Polito!

 

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6 Commenti a Antichi sistemi di copertura per le abitazioni salentine

  1. CASEDDHRA, o meglio CASEDDHA? Personalmente sono per la seconda ipotesi perchè da noi, come in Sicilia il cui dialetto è quasi uguale al nostro, si usa parlare con toni dolci molti dei quali emessi col naso. Fonetiche dure con la lingua tra i denti sono in uso soprattutto in Sardegna

  2. Salve a tutti. Mi chiamo Francesco sono di Martano. Continuo a realizzare le coperture all’incannucciata. Ne faccio tantissime. Concordo in tutto con l’autore dell’articolo Sig Fabrizio, nei cenni storici costruttivi vorrei aggiungere che l’utilizzo di questa tecnica di copertura e dettata dal fatto che non necessita di murature importanti come una copertura a volta in quanto l’incannucciata non esercita spinte sulle murature ed è una copertura piuttosto leggera. Ovviamente nelle nuove coperture che realizziamo. Fermo restando l’estetista e i materiali a vista rigorosamente in linea con la tradizione. Dove non puo arrivare la vista, tra le canne interne e i coppi artigianali all’estero, ora per raggiungere i canoni di confort e sicurezza utilizziamo i più moderni sistemi di isolazione termica,acustica, e di impermeabilizzazione. Certo e che in ogni intervento con questa tecnica il successo e assicurato. Avere un tetto all’incannucciata e vivere nel calore della tradizione

    • Ti ringrazio Francesco per l’utile integrazione al testo.
      Mi complimento con voi artigiani che avete saputo recuperare questa antica tradizione salentina, trasmettendola anche alle prossime generazioni.

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