Piccoli seminaristi crescono (ultima parte)

Con questo di oggi si conclude l’itinerario che per mesi ci ha proposto il caro Alfredo. Pagine di vita, inedite, scritte con pazienza, e forse anche con sofferenza, nel rivangare un trascorso che ci ha tenuti con il fiato sospeso. Grazie Alfredo, a nome di tutti i lettori, che senz’altro hanno apprezzato il lungo e meditato lavoro di composizione di queste pagine vibranti. Non potevi concludere meglio di come hai fatto oggi, con quest’ultima emozionante e delicata parte, che con te dedichiamo volentieri alla memoria dei tuoi cari e di tua madre in particolare. Grazie ancora!

 

Civita Castellana, estate 1965: un seminarista verso la “libertà”.

(Diciottesima e ultima parte)

 

di Alfredo Romano

La casa di compagna dove alloggiavano i miei era distante 1 km da Civita Castellana, paese di 16 mila abitanti. Non era una casa comoda, era stata ricavata da una stalla. La casa lasciata a Collemeto, al confronto, era una reggia. Ma si sapeva che si stava lì per lavorare e si stringevano i denti. Tutta la famiglia era dedita alla coltivazione, anche i miei fratellini: Aldo di 14 anni, Angelo di 13, Eugenio di 11. Dopo il lavoro dei semenzai (le ruddhe), nei mesi di maggio e aprile, i miei avevano trapiantato 150 mila piantine su un terreno di 1 ettaro e mezzo. Nel mese di giugno, quando arrivai, le piantine erano già cresciute e mancavano due settimane all’inizio della raccolta. Nel frattempo, c’era da pulire e sarchiare tra i filari. Naturalmente, benché seminarista, non ero esentato dal lavoro, né mi sarei mai sognato di tirarmi indietro. In qualche modo era anche una novità per me e la fatica manuale mi distoglieva dai tanti e ingombri pensieri. Sul campo, ovviamente, non portavo la tonaca, la qual cosa mi faceva assaporare la vita di una persona normale. Certo non potevo dimenticare i miei obblighi di seminarista, come andare a messa tutte le mattine e svolgere le mie pratiche di pietà. Unico mezzo di locomozione era una bicicletta “scassata”, che usavo per andare alla messa delle otto. Nella mia prima uscita per andare in città mi presentai al parroco della Cattedrale don Silvano Francola. Dopodiché anche al vescovo mons. Roberto Massimiliani. Dico subito che fui preso a cuore sia dall’uno che dall’altro. Si dà il caso che nel viterbese, come nel Centro e Nord Italia era già cominciata la crisi delle vocazioni, fenomeno allora ancora sconosciuto nel Sud. Sicché fui il benvenuto fin dal primo giorno, venivo considerato come manna dal cielo. Sapendo don Silvano che non ero mai stato a Roma, decise di dedicarmi un giorno intero per farmi conoscere la Città Eterna. Nella sua Volkswagen alla volta di Roma impazzivo di gioia e lui si compiaceva della mia felicità infantile. Si può immaginare l’impressione che ebbi della città, la sorpresa, lo stupore: mi sentivo come una formichina in un palazzo delle meraviglie. Anche il pranzo mi offrì don Silvano, facendomi assaggiare alcuni piatti della cucina romanesca e un buon bicchiere dei Castelli Romani. Don Silvano era un prete giovane, di larghe vedute, anche spiritoso, molto amato in parrocchia.

Per la prima volta assaporavo un contatto diverso in un prete, mi sembrava lontano anni luce quelli che avevo conosciuto. Una volta finita l’estate, avrei continuato gli studi, ma non mi sarei recato più a Molfetta, dove ero destinato inizialmente, ma al Pontificio Seminario Regionale a La Quercia, fraz. di Viterbo, distante 37 km da Civita Castellana. Perciò, approfittando di un convegno di sacerdoti a La Quercia, don Silvano mi portò con sé per farmi prendere visione del Seminario. Mi fece una buona impressione la nuova destinazione, non sarei stato più in una camerata, ma avrei goduto di una “cella” singola ben arredata con letto, tavolo, scaffale, scrivania e perfino il bagno. Al ritorno, con altri preti del convegno, ci fermammo a mangiare in un ristorante sulla riva del lago di Bolsena. C’era un’atmosfera allegra e poco penitenziale, mi sentivo a mio agio ed ero tenuto in buona considerazione, per non dire oggetto di curiosità per uno che veniva dal Sud-Est Italia, una specie di binario morto finibus terrae.

Da lì a qualche anno, don Silvano “fuggì” da Civita Castellana per andare a fare il missionario a Wohlen, in Svizzera, dove viveva una folta comunità di immigrati salentini, che, col tempo, si sarebbero fatti onore costruendosi con le proprie mani un asilo per i loro figli e un grande Centro sociale e culturale per tutti gli immigrati. Fu proprio in questo Centro che don Silvano, 32 anni dopo, mi avrebbe chiamato con chitarra e tamburello per dare uno spettacolo di storie, canti e pizziche per gl’immigrati. Era il 1997, la pizzica non era ancora famosa, e tutti furono felici e commossi ad ascoltare la lingua e i ritmi della loro terra. Che era anche la mia.

E che dire del Vescovo? Mons. Massimiliani era sempre presente alla messa del mattino e lui era entusiasta del mio modo di cantare, di leggere l’epistola e di muovermi con competenza nelle cerimonie liturgiche, per non dire del mio modo di guidare i fedeli a partecipare alle varie fasi della messa. E fu così che dopo la messa, il vescovo, ogni mattina, mi faceva salire nelle sue stanze per fare colazione insieme. Si può immaginare il fasto del palazzo vescovile e la tavola imbandita di tutto punto per una ricca colazione, non escluso un cameriere di servizio. Ero a disagio inizialmente, ma mi vennero in soccorso le lezioni di galateo apprese in Seminario nell’uso delle posate e nel modo di stare a tavola e me la cavai egregiamente. Eravamo solo noi due e, naturalmente, a tavola si conversava. Era soprattutto lui a farmi domande: sapere del vecchio Seminario, della mia famiglia, dei miei studi.

Ma poi non mancavano le raccomandazioni per me seminarista, una in modo particolare: “Figlio mio, mi raccomando la purezza, sii sempre casto!”. Dopo alcuni giorni diventò una cosa normale per me far colazione col vescovo. I miei erano orgogliosi di ciò e, da buoni salentini, si preoccupavano di dissobligarsi. Perciò ogni tanto mi davano da portare al vescovo dei prodotti dell’orto, malgrado il vescovo, pur ringraziando, dicesse di non averne bisogno (En passant, ho sempre creduto che anche i poveri, pur disponendo di poco, abbiano voglia di dare, perché donare non può essere un piacere riservato solo ai possidenti).

Questa storia durò tutta l’estate e i miei fratellini ogni volta, al ritorno, volevano che raccontassi loro del vescovo e di quel che m’aveva fatto mangiare.
Occorre sapere, però, che la mia mattinata non cominciava con la messa delle otto, ma alle quattro del mattino, quando si era già tutti sul campo a raccogliere tabacco. La messa, perciò, era per me solo una pausa dal lavoro. Alle 10, il sole già alto, si trasportava il tabacco raccolto nel capanno e si dava inizio alla filzatura delle foglie di perustitza. A mezzogiorno mamma approntava un piatto di pasta e poi di nuovo a filzare fino alle 18, quindi di nuovo a raccogliere tabacco fino al tramonto. La cosa più gravosa, poco prima che facesse buio, era quella di trasportare i pesanti telai di tabacco nel capanno e tirarli fuori la mattina, ciò per tenerli lontani dall’umidità notturna responsabile di inficiare la qualità del tabacco.

In questo ritmo dissennato di lavoro al solo scopo di sopravvivere, vivendo con i miei da mane a sera e gomito a gomito, scoprivo per la prima volta in vita mia, benché avessi solo 16 anni, di essere utile alla mia famiglia, sentivo che mi stavo facendo uomo e mi dispiaceva dei miei fratelli più piccoli, Eugenio in specie, che invece di giocare, erano costretti alla dura fatica.

Nelle lunghe ore del raccolto, con la schiena piegata, appena si levava il sole a riscaldare i nostri corpi ancora intorpiditi dal sonno, ecco che mamma si metteva a raccontare storie del passato avendo per colonna sonora il ticchettio delle foglie spezzate. Poi intonava una canzone popolare, tipo Moretto Moretto, e papà le faceva da controcanto. Così pure durante la filzatura, per ingannare il tempo, papà non mancava di raccontarci i fatti dei suoi dieci anni di guerra tra l’Africa Orientale e la Seconda Guerra dalle parti di Ventimiglia. Ma poi venivano anche fuori i racconti della tradizione salentina, non esclusi li cunti te Papa Cajazzu, e, malgrado tutto, si rideva di cuore allontanando il tedio e la paura dell’incerto avvenire.

Ormai la tonaca la indossavo solo per andare a messa e tutto il giorno ero calato nel ruolo del ragazzo contadino con le mani e i panni perennemente unti del nero grasso del tabacco. Il Seminario era lontano ormai e pian piano riflettevo sulla condizione dei miei che, da quel lavoro, pur con tanto buttamentu te sangu, traevano solo il vantaggio della sopravvivenza. Io che volevo partire per terre lontane per redimere i reietti del mondo, ecco che i reietti me li trovavo in casa. Io stesso ero un reietto.

In Seminario ci spiegavano che la miseria della maggior parte dei popoli della terra rientrava nei piani sconosciuti della Divina Provvidenza e mai che si fosse adombrato il sospetto che in realtà si trattava dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Due poi erano soprattutto i mali che affliggevano il mondo: l’impurità e il comunismo. Erano due chiodi fissi, senza questi mali il mondo si sarebbe trasformato in un vero paradiso terrestre.

Intanto si avvicinava ottobre e il pensiero mi andava alla nuova sede cui ero destinato. Il tarlo, però, continuava a rosicchiare, ora per ora, giorno per giorno. Ecco, sarebbe stato più difficile per me prendere una decisione a Collemeto, il mio paese; a Civita Castellana, invece, lontano da tutti e da tutto, mi sembrava più a portata di mano. Ero tormentato ovviamente, ma il giorno fatidico della partenza s’appressava e dovevo decidermi. Ero preoccupato per mia madre soprattutto, lei sì che non l’avrebbe presa bene. Ma una volta che ci siamo trovati soli in casa, mamma ha intuito che avevo dentro qualcosa che non riuscivo a dire.
“Cce hai, fìju miu, sta bìsciu ca stai nu pocu maru” mi disse.
“Mamma, lu Seminariu ete comu ‘nu carcere pe’ mmie: nun ci la fazzu cchiùi bba mme chiutu ddha intra!” risposi di botto respirando affannosamente.
Lei allora mi riversò addosso i suoi occhi di mamma e:
“Fìju miu, iu l’ia quasi capita ‘sta cosa, sai? Ma, se me tici te cusìne, se hai ppatire, nu’ mbòju mancu iu cu ttorni a llu Seminariu. Vôl dire ca te stai a ccasa toa: ca lu Signore pruvvéte!”.

Mi ha abbracciato a lungo finché non m’è scappato un pianto liberatorio. Ho tirato un sospiro di sollievo: è fatta, mi sono detto, la mamma ha capito, adesso sono un ragazzo come gli altri, niente più tonaca nera sotto un cielo di mille colori.

Il giorno dopo mamma si recò al paese e tornò con una giacca, un paio di pantaloni, una camicia, una cravatta e un paio di scarpe. Depositò tutto sul letto ed uscì: non aveva cuore evidentemente di assistere alla mia “vestizione”. Diedi dapprima uno sguardo ai miei capi di vestiario, mi soffermai curioso sulla giacca a quadri tendente al marrone, poi iniziai a indossare un po’ maldestramente i nuovi panni “borghesi”. Mi recai allo specchio: non c’era gioia nel mirarmi, mi sentivo frastornato in quel mio avviarmi improvvisamente verso un destino incerto, buio. Di una cosa ero sicuro, che in Seminario non sarei più tornato. Quindi uscii di casa in cerca di mia madre: volevo che mi vedesse, impacciato com’ero nel mio nuovo aspetto. Ma non c’era mamma. Trascorse un’ora circa e la vidi uscire dal bosco di querce che rasentava la nostra abitazione. M’accorsi che aveva gli occhi umidi e capii che era andata a nascondersi nel bosco per piangere sul suo sogno infranto.

Mamma se n’è andata nel 1994. Sul suo letto di dolore, dove stava inchiodata da mesi, mi fece cenno di avvicinarmi.
“Mamma, cce mm’hai ddire quarche cosa?” E lei, con voce flebile:
“Fìju miu, vòju tte ticu ca su cuntenta ca nu’ tt’hai fattu prete, ca osci li preti su’ ssuli e ‘bbandunati e mmancu carculati!”.

Il suo amore di mamma quindi, col tempo, aveva prevalso sul vecchio sogno di “donare” un figlio al Signore. Questa volta ero io che avevo un impellente bisogno di uscire in cerca di un bosco dove andare a nascondermi. Ma non c’era il bosco di querce, solo la strada davanti casa col vento che spazzava le foglie dell’autunno alle cinque del pomeriggio, quando il sole di mia madre volgeva al più bel tramonto di nuvole rosse e la Madonna s’apprestava a infornare il buon pane di grano. Per lei stavolta. Solo per lei.
FINE

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3 Commenti a Piccoli seminaristi crescono (ultima parte)

  1. Credo che mancheranno a tutti gli spigolatori gli appuntamenti con il piccolo seminarista al quale ci eravamo ormai affezionati!
    Grazie Alfredo per questo tuo bello ed emozionante raccontarti!
    Grazie di cuore!

  2. Io, caro Alfredo, devo confessarti che ‘puntata’ dietro ‘puntata’ ti ho voluto sempre – emozionalmente – più bene. Nella vita non ho avuto mai lo spirito di paternità, per cui ti ringrazio perché attraverso queste tue struggenti pagine mi hai dato la possibilità di sentirmi teneramente in colpa per un (virtuale) figlio costretto a soffrire in un seminario di quasi cinquant’anni fa.
    E non ho amato soltanto te ma anche le segrete ‘rabbie’ di tuo padre e le lacrime di quella madre che purtoppo non hai più su questa terra.

    Sapessi tu quanto sono convinto del tuo attuale amore nei loro confronti!!!

    Un abbraccio
    Nino

    • Pier Paolo e Nino scrivono parole che mi commuovono. Come pure mi ha commosso l’inattesa e bella premessa di Marcello Gaballo a questo mio ultimo brano. Non immaginavo che la mia storia potesse suscitare tanto interesse, per non dire affetto e stima da parte degli Spigolatori e non solo. Ho voluto raccontare come intorno a un braciere in una sera d’inverno con tutti voi seduti ad ascoltare. E magari s’è fatta notte e nessuno degli astanti si è fatto sopraffare da Morfeo. La parola ha sempre il dono di vincere sulla notte e, come per Sharazad, mentre raccontavo, non ho fatto che rimandare il tedio del quotidiano. Nel frattempo, la vita mi è trascorsa come un bel vento. E adesso che farò? Di rimedi che alleviano gli affanni ce ne sono a bizzeffe, ma quello del raccontare, per me, è il più efficace. Grazie di cuore a tutti. Un sincero abbraccio anche. Alfredo

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