Antonio De Viti De Marco, il conservatore liberale

Casamassella, il palazzo in cui abitò Antonio De Viti De Marco

di Tommaso Manzillo

Il maestro di Luigi Einaudi e scienziato delle finanze, sul finire del XIX secolo già teorizzava il decentramento amministrativo e fiscale quale soluzione alla secolare questione meridionale

ANTONIO DE VITI DE MARCO, IL CONSERVATORE LIBERALE

S’incorre, certamente, in errore pensare che il tema del federalismo sia stato un’invenzione della Lega Nord, agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, figlia di uno stato di insofferenza per un Nord ricco e opulento e un Sud destinatario di assistenzialismi fini a se stessi, con sperperi di denaro pubblico di origine nordista, dove la corruttela politica è la protagonista indiscussa di scelte meridionalistiche improduttive e scellerate. Eppure, l’esigenza di uno Stato decentrato si avvertiva già all’indomani dell’Unità d’Italia, riconoscendo la molteplicità delle diverse problematiche territoriali, come conseguenza di differenti percorsi storici e culturali.

Di questa necessità si fecero promotori proprio gli uomini del Sud, primo fra tutti il marchese di Casamassella, frazione di Uggiano La Chiesa, il professore universitario e scienziato delle finanze, ossia della nuova visione dell’economia intesa come scienza, Antonio De Viti De Marco (1858 – 1943).

Il contesto storico in cui viene a operare l’aristocratico è l’Italia post-unitaria, in un periodo che dalla fine di Depretis, passando per la lunga esperienza giolittiana, giunge fino agli inizi del fascismo (1931), quando la sua intesa attività didattica e politica fu bruscamente interrotta dal rifiuto di giurare fedeltà al nuovo regime. Fu costretto a lasciare la cattedra universitaria di Roma, ritirandosi dalla vita pubblica, dichiarando la sconfitta dei suoi principi democratici e liberali (chissà quale svolta avrebbe impresso De Viti De Marco alla democrazia e soprattutto nel pensiero economico senza la parentesi del Ventennio!).

Un suo grande critico fu l’economista Vilfredo Pareto (1848 – 1923), che non le mandava certo a dire tramite Maffeo Pantaleoni, circa la necessità, secondo l’aristocratico salentino, di applicare la matematica nei problemi economici e finanziari (da qui la nascita delle scienze delle finanze), principio universalmente accolto e approfondito a livello internazionale anche dallo stesso Pareto.

Francesco Crispi, figlio della borghesia commerciale siciliana, ma di origine albanese, già ministro dell’Interno con l’ottavo e ultimo governo Depretis, ricoprì l’incarico di presidente del Consiglio dei Ministri nel 1887, dopo la morte dello stesso Depretis, puntando proprio al rafforzamento dello Stato borghese di natura commerciale e industriale, con l’appoggio trainante del settore tessile-laniero.

Erano gli anni in cui in Italia imperversava il pensiero economico tedesco, quello che Ferrara e De Viti De Marco chiamavano il “germanesimo economico”, teorizzando l’assenza delle leggi nell’economia come un via libera dell’intervento della politica nella vita economica e nella società civile. Tale interventismo, sia di destra sia di sinistra, era sinonimo, come effettivamente si dimostrò, di corruzione politica, coinvolgendo non solo lo stesso Crispi, ma molti governi a lui succedutisi, soprattutto quelli di Giolitti, contro cui De Viti De Marco aveva sempre parole dure e diversità di opinioni, allorché fu uno dei primi a parlare, più di un secolo fa, di questione morale, denunciando la collusione tra uomini politici e funzionari con le banche a danno sempre del pubblico, in un Paese che reclamava l’indipendenza della magistratura dalla politica: “Sembra la diagnosi della situazione italiana dei giorni nostri” (affermava Lorenzo Infantino, docente di sociologia presso la LUISS di Roma, nel gennaio del 2000).

La pessima congiuntura economica e l’arretratezza dell’agricoltura meridionale di fine secolo misero in crisi le idee del libero scambio e della libera concorrenza, spianando la strada al protezionismo e alla tariffa granaria del 1887, favorendo i grandi proprietari terrieri e gli industriali del Nord.

De Viti De Marco, deputato dal 1900 al 1921 nelle fila dei radicali, fondò, nel 1904, la Lega Antiprotezionista, dimostrando in tal modo l’inopportunità della politica economica del Crispi. Nel 1898 lo stesso De Viti De Marco scriveva sulla situazione economica della Milano industrializzata e di “un popolo dato all’industria, intento con successo alla produzione, all’accumulazione del capitale, è anche il popolo adatto ad apprezzare l’alto significato del lavoro produttivo delle industrie private comparato con quello delle intraprese pubbliche” (Ernesto Ragionieri, in Storia d’Italia, di Luigi Einaudi editore, 1975, riedizione per Il Sole24Ore, Milano, 2005, pag. 1844).

La più importante riforma dei ministeri crispini e giolittiani fu l’ordinamento comunale e provinciale disattendendo, però, le promesse elettorali nella direzione del decentramento amministrativo, finendo per restringere quei margini di autonomia di cui ancora godevano gli enti locali. In un discorso politico agli elettori liberali del collegio di Gallipoli, De Viti De Marco affermava: “Accetto l’idea del decentramento e delle autonomie locali” nel senso che “il potere centrale si spogli di molte funzioni, specialmente riguardanti la tutela sulle amministrazioni locali, e quindi assicuri a queste una maggiore indipendenza”, intesa come soluzione di continuità alle ingerenze del primo nelle decisioni delle seconde. Sul Giornale degli Economisti del 1894, acquistato nel 1890 insieme al suo amico di studi universitari, Maffeo Pantaleoni e Ugo Mazzola, scriveva De Viti De Marco che “l’autonomia del Comune dal potere centrale, come qui si propone, riposa non già sopra una maggiore libertà dei Consigli Comunali, ma sopra una più larga partecipazione del popolo nell’amministrazione economico-finanziaria”, contro la tirannia degli stessi Consigli comunali che danneggia contadini e amministrati. Questo è il principio ispiratore del federalismo per Antonio De Viti De Marco, ossia a fronte di una maggiore autonomia per gli enti locali, deve corrispondere una maggiore responsabilità e senso di responsabilizzazione da parte della classe politica nella gestione delle risorse pubbliche, e per questo il compito più importante spetta al corpo elettorale, che premia o punisce le amministrazioni locali. “Vogliono gli elettori di questo comune un aumento di due centesimi sul dazio del vino o del petrolio o delle farine per avere l’illuminazione stradale?”, è la domanda che pone il marchese in un ipotetico referendum amministrativo in cui è chiamato in causa proprio quel cittadino su cui pesa il gravame delle tasse, offrendo in tal modo la sua opinione e il suo contributo nella gestione di quegli squilibri regionali emersi dopo il processo unificatore. Per completezza e dare il giusto valore al federalismo, De Viti De Marco aggiunge al referendum un altro importante strumento utile per rafforzare l’autonomia dei Comuni, ossia l’indipendenza della magistratura dal potere politico, in modo che la prima possa decidere nell’interesse e su ricorso dei cittadini contro eventuali soprusi dei Consigli comunali.

Dei liberisti si servì Giolitti per impostare su nuove basi tutto un processo di ammodernamento dello Stato coordinato con un più spinto sviluppo economico, ma suoi più grandi oppositori furono proprio il nostro concittadino e deputato repubblicano, l’ingegnere Antonio Vallone (1858 – 1925) e De Viti De Marco, che lo accusarono di una politica economica decisamente a vantaggio del nord industriale, comprando, con qualche concessione in termini di infrastrutture, un Sud socialmente ed economicamente provato, che dovette arrendersi a quel triste fenomeno, sul finire del XIX secolo, che fu l’emigrazione in terra straniera, in cerca di migliori fortune, con un carico di speranza e di buona volontà. Contro l’errato convincimento delle popolazioni settentrionali “che lo sperpero che fa il governo centrale consista nel prelevare imposte dal Nord per gettarle al Sud”, lo stesso De Viti De Marco, con l’aiuto del Panteleoni, dimostrò, con numeri alla mano, che le tasse pagate al Nord servirono per fare le infrastrutture al Nord, mentre quelle pagate al Sud, eccessivamente di gran lunga superiori alla propria ricchezza prodotta, furono usate per fare quelle infrastrutture per un territorio ancora arretrato e poco industrializzato e per questo ritenute delle opere inutili e improduttive. “Dal decentramento, come lo intendo, mi aspetto benefici effetti per queste ragioni in materia di lavori pubblici, che finora sono stati affidati allo Stato, e che invece andrebbero in più larga misura affidati agli enti locali e ai consorzj. […] Ma io non voglio sollevare questa questione per fomentare uno spirito separatista. Tutt’alto, io sono unitario. […] Noi – che siamo politicamente meno organizzati e quindi meno forti in Parlamento (il riferimento è al movimento dei radicali, ndr)  – troveremo in una forma di decentramento il mezzo di difendere più efficacemente la nostra proprietà”. (Antonio De Viti De Marco, Mezzogiorno e democrazia liberale. Antologia degli scritti, a cura di A. L. Denitto, Palomar editore, Bari, 2008).

Un’equa riforma tributaria che non sia di aggravio per chi già è vittima di una pesante congiuntura economica, un efficace decentramento amministrativo e fiscale coniugato con l’indipendenza della magistratura dalla politica, sulle orme dell’insegnamento smithiano, lasciando allo Stato il compito di occuparsi delle cosiddette “spese obbligatorie”, di interesse collettivo cui deve sopperire la generalità dei suoi cittadini, oltre che portare in primo piano la cosiddetta questione morale, che affonda nell’Italia post-unitaria le sue macabre radici, e che oggi si esprime in tutto il suo squallore, sono i punti salienti dell’opera politica e professionale di un personaggio che ha portato in alto il Salento in tutto il mondo. Il federalismo impostato dall’economista salentino potrebbe essere la risposta adeguata alle critiche giunte da chi vede in tale strumento di riordinamento amministrativo e finanziario dello Stato, così com’è stato legiferato e depositato in Parlamento, la causa generatrice di nuovi squilibri dovuti a un aumento della pressione fiscale a carico dei cittadini, prima tartassati dal governo centrale ora dalle amministrazioni locali, dovuto a un maggior costo per il decentramento in esame.

Antonio De Viti De Marco fu una personalità di spessore internazionale, le sue idee oggi potrebbero dimostrare le origini e le cause di una crisi economica e finanziaria di portata mondiale, che non accenna di allentare la morsa. Lo stesso marchese amava etichettarsi un “conservatore liberale; – molto liberale, perché nello sviluppo massimo della libertà individuale faccio consistere il massimo di conservazione sociale”. Purtroppo l’avvento del fascismo lo ha portato a un isolamento nella sua tenuta di Casamassella, dove apportò grandi cambiamenti nel campo agricolo, che furono veramente all’avanguardia per quei tempi.

Morì ignorato dal mondo il 1° dicembre del 1943.

 

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