GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (13): cuèrpu

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (13): cuèrpu.

Imbroccare certe strade può essere pericoloso…

______

1 Chissà che aveva in corpo quell’uomo se con un colpo ti ha ridotto così.

2 Diciamo che non è stato quello che aveva in corpo ma quello che aveva in fronte…

 

 

Cuèrpu nel dialetto neretino può significare, con la stessa etimologia delle voci italiane, corpo e colpo ; il primo dal latino corpus, il secondo da un latino *colpu(m) variante del classico còlaphum=schiaffo, a sua volta dal greco kòlafos, da kolàpto=beccare.

Salento terra di santità. San Leucio

di Angelo de Padova

Euprescio, così si chiamava San Leucio, visse verso la fine del II secolo  in Alessandria d’Egitto. A dieci anni perse la madre e si ritirò, con il padre, nel monastero del Beato Ermete, dove fu istruito ed amato dai confratelli. Un giorno, durante la celebrazione della Beata Assunta, il padre ebbe una visione del Signore che gli preannunciò il destino del figlio: con il nome di Leucio sarebbe diventato vescovo di Brindisi per combattere l’idolatria e stabilire la vera fede nella città. Così Leucio, ordinato sacerdote e poi, arcivescovo di Alessandria, cominciò subito ad operare miracoli, a convertire e a battezzare. Lasciò Alessandria con i fedeli Eusebio e Dionisio e con altri 5 discepoli e sbarcò prima ad Otranto e poi a Brindisi dove compì il famoso miracolo della pioggia: perdurando la siccità da due anni, gli fu chiesto di far piovere e avvenne il miracolo. Iniziò la sua lunga opera di conversione presso i brindisini e gli altri popoli dell’Italia meridionale. Successivamente, fu colpito da pleurite e, prossimo alla morte, si fece sistemare a terra su della cenere e dei rottami di tegole. Fu sepolto a Brindisi e, quando la città fu distrutta dalle guerre, i tranesi, devoti al Santo trafugarono la salma, la

Uniti per salvare la Puglia dallo scempio ambientale

 

Invito a elaborare un documento unitario per salvare la Puglia dallo scempio ambientale

a cura di Antonio Bonatesta  segretario di Save Salento
 

Save Salento invita tutte le associazioni Salentine a elaborare un documento congiunto da sottoporre alla Commissione Ambiente della Regione Puglia
 

Non mi nasconderò dietro un dito…

di Armando Polito

Tiscitàle nel dialetto neretino è, filologicamente parlando, la madre dell’italiano ditale. E lo è semanticamente e formalmente. Qualcuno potrà obiettarmi che la voce italiana più vicina a tiscitàle è digitale. Va notato, però, come quest’ultima voce nata nel XVI secolo come aggettivo sostantivato per indicare sinteticamente una specie botanica (digitale purpurea) e la sostanza medicinale che se ne estrae, nonché come aggettivo puro e semplice per indicare ciò che riguarda il dito, ha vissuto una seconda giovinezza nel XX secolo con l’adattamento formale all’italiano dell’inglese digital, da digit=cifra numerica, con riferimento, in elettronica e in informatica, ad un sistema o dispositivo che si serve di cifre numeriche per rappresentare dati e grandezze o per riprodurre impulsi fisici; questa voce, dunque, non ha attualmente il significato della corrispondente dialettale neretina. Ma non è stato sempre così, e vado a dimostrarlo.

Per fare onore al titolo dirò che tutte le voci fin qui messe in campo, comprese quelle inglesi, derivano dal latino dìgitum=dito (ancora oggi le dita servono, alla bisogna, per contare…), dalla stessa radice di decem (dieci, il numero delle dita) e, in greco, di deka=dieci e di dèikniumi=io indico.3

Ditàle, in particolare, è, per sincope di –gi– dal latino tardo digitàle (neutro sostantivato del classico digitàlis=della grossezza di un dito) che aveva inizialmente il significato sacrale di particolare reliquario4 e solo successivamente assunse quello di strumento protettivo del dito di un comune mortale…vivo.5 Proprio l’esistenza di digitale con quest’ultimo significato esclude la possibilità che l’italiano ditàle sia derivato in epoca più recente da dito (nato da dìgitum per sincope di –gi-) con aggiunta del suffiso aggettivale –ale.

Conclusione: ditale è nato da digitale per l’esigenza di evitare confusione semantica3, mentre tiscitàle (come tìscitu rispetto a dito) è rimasto fedelissimo alla voce originaria e chissà se non continuerà ad esserlo anche quando sarà coinvolto nel rischio di equivoco prospettato in vignetta e propiziato da quella che io chiamo “ignoranza generazionale reciproca” (la nonna non sa nulla di digitale in senso informatico, per la nipotina, molto probabilmente pure per sua madre,  il ditale sarà un oggetto misterioso). E se la vignetta fosse, come temo, non avveniristica ma anacronistica di almeno trent’anni? Sento già qualcuno della mia età: “La seconda che hai detto”.

________

1 Debbo rammendare questi calzini ma non sto trovando il ditale. Esmeralda, per caso l’hai visto?

2 Nonna, queste sono tutte cose digitali. Prendi quello che ti serve…

3 Dopo il modo di dire che mi ha ispirato il titolo, il noto proverbio: Tra moglie e marito non mettere il dito; io  ho obbedito e qui ho messo il dito tra due sistemi di numerazione, quello binario (basato su 0 e 1) o digitale  e quello decimale, che, per quanto riguarda i nomi (digitale/decimale), hanno come s’è visto, lo stesso etimo.

4 Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Favre, Niort, 1883, pag. 116: DIGITALE Theca, in modum digiti confecta. Gloss. Gr,.Lat.: Daktiulèthra, Digitale. Acta inventionis S. Stephani Episcopi Calatini, in Sanctuario Capuano, ubi de articulo digiti manus benedictae, qui in Ecclesia Calatina asservabatur: Custodiebatur autem in sacrario sub Digitali argenteo modulo. Vide Digitabulum. (DIGITALE Contenitore modellato a forma di dito. Glossario greco-latino: Daktiulèthra, Digitale. Atti del ritrovamento di S. Stefano vescovo di Calatia, nel Santuario di Capua, dove circa l’articolo del dito della mano benedetta che si custodiva nella chiesa di Calatia: si custodiva inoltre nel sacrario sotto una custodia in argento a forma di dito. Vedi digitabulum)

E, nella stessa pagina, al lemma DIGITABULUM: Gloss. Lat. Gr. Digitale et Digitabulum, Daktiulèthra, id est, digitorum involucrum. Jaonn. de Janua: Digitabulum, instrumentum in quo digitus intromittitur, quod et Digitale dicitur. Apud Varron. lib. 1 De re rust. cap. 55 Digitale occurrit, ubi Scaliger ex MSS. Digitabulum reponendum scribit. (Glossario latino-greco Digitale e Digitabulum, Daktiulèthra, cioè protezione che avvolge le dita. Giovanni di Genova: Digitabulum, strumento nel quale viene inserito il dito, detto anche Digitale. Presso Varrone libro I De re rustica capitolo 55 ricorre Digitale, ma lo Scaligero ritiene di emendare con Digitabulum in base ai manoscritti)

5 Non c’è altra spiegazione, anche se la lingua spesso presenta nel comportamento, cioè nell’uso, le stesse incongruenze e stranezze  che l’uomo rivela nella vita: non è raro il caso di varianti “inutili” dal momento che il contesto avrebbe facilmente consentito di evitare ogni equivoco e, sempre incongruentemente, quello opposto, cioè la mancata adozione di varianti laddove nemmeno il contesto consente di evitare fraintendimenti.

Gallipoli. La cuccagna a mare

di Massimo Negro

Il gioco della cuccagna è un gioco di destrezza e di forza con l’unico, ma non facile, obiettivo di riuscire a giungere per primi in cima ad un palo e prendere il premio posto sulla sua sommità.
Non è facile. Il palo viene unto di grasso in gran quantità per cui i partecipanti al gioco non hanno nessun appiglio né possono aggrapparsi agevolmente al tronco per riuscire a tirarsi con poca fatica. E’ questo il difficile ma anche il bello del gioco; bello e divertente specialmente per chi è lì da spettatore.

Da piccolo a Tuglie ricordo il palo della cuccagna che veniva posto in Largo Fiera e fissato per terra in posizione perpendicolare rispetto al terreno. Sulla sommità veniva posta della roba da mangiare e i partecipanti, a cui spettava l’arduo compito di giungere in cima, erano divisi in squadra.

IMG_2533

Alla base del palo era posta della sabbia con una duplice funzione.
Serviva ad attutire (poco) i colpi di chi cadeva o scendeva velocemente per via del grasso.
Serviva soprattutto per cercare di togliere quanto più grasso possibile dal palo. Dopo la prima tornata quando un po’ tutti i partecipanti erano già ricoperti dalla testa ai piedi di un discreto strato di grasso, la sabbia serviva per aumentare la presa e per cercare di tirar via ancora più grasso nelle tornate successive.
Il tutto avveniva stando ben attenti a non avvantaggiare le squadre avversarie.
Gioco di destrezza, forza ma anche tattica.
Era veramente entusiasmante vedere questi, oserei dire, coraggiosi che, man mano che provavano a salire, si riempivano da capo a piedi di strati di grasso e sabbia. Veramente uno spasso per noi ragazzini.
A Tuglie è un vecchio ricordo, ma in molti paesi resta una tradizione ancora viva. A Noha, frazione di Galatina viene organizzata per il giorno di Pasquetta, in tarda mattinata al termine della fiera dei cavalli. Anche in questo caso il palo è fissato nel terreno. Ma questo accade ancora in altre località del nostro Salento.IMG_2577

A Gallipoli il palo della cuccagna è posto con la base fissata sul molo del porto, sospeso e inclinato sul mare.
Sulla sommità del palo è posta una bandiera. Vince chi per primo riesce a prenderla.  Non ci si aggrappa al palo per tirarsi su. Bisogna correre sul palo stando ben attenti, più che a non cadere, soprattutto a come si cade.
Cadere in mare non è un problema, si è in estate, si fa il bagno anche se l’acqua nel porto del Canneto non è certo una delle più pulite per via dei pescherecci che solitamente vi attraccano.
I problemi capitano quando cadendo si urta il palo o peggio ancora se si cade a gambe aperte sul palo. Vi assicuro che succede e dal pubblico, solitamente numerosissimo, si levano grida commosse di sincera partecipazione al “danno”.
Ci sono poi i funamboli del palo della cuccagna. Quelli che non cadono, bensì volano arcuandosi in tuffi spettacolari. I gallipolini li conoscono e li senti mormorare in tono scherzoso “eccu lu solitu!”.

La cuccagna a mare viene svolta nell’ambito della festa di Santa Cristina patrona di Gallipoli il 24 luglio. Quest’anno è stata una giornata molto calda e soleggiata. Per ingannare l’attesa ho gustato una squisita granita al limone, ma chi era sulle barche si è divertito a bagnarsi a vicenda con secchiate d’acqua. La gente presente era numerosissima; sulle barche, lungo il molo e sull’antico ponte, accompagnando i tentativi dei partecipanti con applausi e urla di incitamento.

Per chi ha la fortuna di essere nel Salento in quei giorni, è un appuntamento imperdibile.

Taranto. Intriganti e magici vicoli nella città vecchia

 
ph Daniela Lucaselli

Le postierle: strette scalinate…verso Mar Piccolo, i vicoli, gli archi

 

di Daniela Lucaselli

Il borgo  antico della storica città dei due Mari, in particolare la cosiddetta parte bassa della città vecchia, è caratterizzato da intriganti e magici vicoli e vicoletti, da case sgarrupate che rendono suggestivo questo particolare pezzo di mondo. Viene spontaneo chiedersi se tale opera, che potremmo definire semplice, ma nello stesso tempo ricercata, sia stata realizzata per far fronte solo ad esigenze di carattere urbanistico o architettonico.

Sfogliando la storia di Taranto l’attenzione si ferma al 927, quando la città fu distrutta dai Saraceni che non lasciarono in piedi alcun edificio, ma solo un polveroso cumulo di pietre. Passarono molti anni e nessun intervento fu fatto. S’avvicinava intanto il tanto temuto anno Mille, in quanto erano tanti coloro che credevano che in quella data sarebbe avvenuta la fine del mondo (Millenarismo). E proprio mentre c’era chi impotente aspettava la fatalità distruttiva, c’era chi invece sentiva dentro di sé affiorare l’energia della vita e sognava una nuova città fiorente.

Fu Niceforo Foca, siamo sempre nel secolo X, ad inviare qualificati tecnici greci per guidare la ricostruzione della città, pianificò l’intervento tenendo conto dell’esperienza, delle circostanze e della tipologia del territorio. L’area dell’antica acropoli, la parte alta della città vecchia, venne ampliata verso Mar Piccolo. L’isola, doveva essere strutturata e di conseguenza

Salento terra di santità. Santi Oronzo, Giusto e Fortunato

 

Ostuni, guglia di S. Oronzo

di Angelo de Padova

Sant’Oronzo, era un  pagano di Lecce, il padre era il tesoriere dell’imperatore. Avrebbe dovuto prendere il posto del padre come tesoriere, ma mentre insieme al nipote Fortunato andava a caccia lungo la spiaggia di San Cataldo incontrò San Giusto che San Paolo aveva inviato a Roma per portare alcune lettere apostoliche. Oronzo si convertì al Cristo per mano di San Giusto che lo battezzò insieme al nipote Fortunato. Giusto e Oronzo cominciarono a predicare e furono denunciati dai sacerdoti pagani al pretore romano, che li impose di offrire incenso al dio Giove nel tempio dedicato allo stesso.

A questa imposizione Oronzo e Giusto professarono la loro fede e la statua di Giove si frantumò facendo sprigionare un demone che annunziò che quello dei due cristiani era il vero Dio.  A quel punto, il pretore condannò Oronzo e Giusto alla flagellazione e li fece rinchiudere in carcere.

Successivamente altri eventi miracolosi convinsero il pretore ad abbandonare la persecuzione dei due martiri, così Giusto andò a Roma da San Pietro e tornato a Lecce fu accompagnato a Corinto da Oronzo e Fortunato, giunti lì furono accolti amorosamente da San Paolo che nominò Oronzo vescovo della città di Lecce e il nipote Fortunato suo successore. Nerone intanto inaspriva la persecuzione dei cristiani e mandò a Lecce un suo ministro, Antonino che fece imprigionare Oronzo e Giusto

Libri/ L’isola della luce, di Augusto Benemeglio

IL SUD VISIONARIO DI MAURIZIO NOCERA. “L’ISOLA DELLA LUCE” DI AUGUSTO BENEMEGLIO
 

di Paolo Vincenti

“L’isola della luce… è una lingua di terra che sorge dal mare, posta ai confini tra la realtà e il sogno, ma non è dato a tutti scorgerla poiché gli dei spesso la velano con uno strato di nebbia e ne impediscono la vista… Ciascuno di noi, però, può trovare l’isola della luce se reca nel proprio animo la bellezza e l’amore, la purezza e il coraggio, sentimenti graditi agli dei della terra e del cielo. Fu in quel luogo che noi, io e i miei compagni della terra di Grecia, approdammo molti anni fa e là il nostro signore Ariel fondò una città divina a cui pose nome Anxa”.  L’isola della luce, di Augusto Benemeglio, viene ripubblicata ventidue anni dopo la sua prima uscita (1982), per la Collana “L’ uomo e il mare”, collana fondata dallo stesso Augusto Benemeglio e diretta da Maurizio Nocera, che cura la Prefazione del libro. L’autore, volto noto al pubblico di Tele onda Gallipoli,  ha firmato nel corso della sua lunga carriera letteraria, con lo pseudonimo di Augusto Buono Libero, una trentina di

Lecce. L’ex ospedale dello Spirito Santo e la sua chiesa

ph Giovanna Falco

di Giovanna Falco

I due edifici leccesi che ospitano gli eventi delle Giornate Europee del Patrimonio 2010 sono carichi di storia. In primo luogo hanno in comune il fondatore: tal Giovanni d’Aymo, un ricco commerciante fiorentino residente a Lecce, che a fine Trecento devolse una congrua somma per erigere una chiesa e convento domenicano ed un ospedale per poveri infermi, gestito sempre, dai domenicani.

Chiesa e convento, fondati con bolla Bonifacio IX del 9 novembre 1389, presentavano forme gotiche, riscontrate, per quanto riguarda la chiesa, dalla descrizione di Giulio Cesare Infantino «tutta à volta con le crocere al modo Francese»[i] e, nel convento, dal rinvenimento di alcuni reperti.

ph Giovanna Falco

Probabilmente il sito dell’attuale ospedale non è quello originario. Questa osservazione si desume dal fatto che l’Ospedale fu fondato con bolla di Bonifacio IX del 1392. In una delle divisio murorum  contenute nel Codice di Maria d’Enghien, però, è citata la portam jardeni iohannis de aymo (attuale Porta Rudiae)[ii]. Leggi e regolamenti sono ascrivibili al periodo successivo al soggiorno napoletano della regina, così come si desume dal titolo dell’opera «Statuta et capitula florentissimae licitati litii ordinata et imposta per inclita Maiestatem Mariae de enghenio ungariae jerusalem et siciliae reginae litique comitissae foeliciter incipiunt»[iii].

Sono databili, quindi nell’arco di tempo che va dal 1406 al 1446, anno di morte di Maria d’Enghien. In un isolario del 1508, inoltre, la consequenzialità dell’elenco delle isole collocherebbe l’antico ospedale nelle vicinanze della chiesa di San Giovanni dello Vetere[iv].

Il nuovo Ospedale dovrebbe essere sorto (o ricostruito) quando, passata nel 1514 la gestione dell’ente alla Città, si decise di ingrandirlo su progetto dell’architetto Gian Giacomo dell’Acaya – Mastro dell’ospedale.

La costruzione era già terminata all’epoca della stesura dell’Apologia paradossica, redatta tra il 1576 e il 1586, dov’è descritto: in «detto Spedale si veggono magnifiche, e sontuose fabbriche con bellissime e comodissime stanze»[v]. All’interno dell’edificio vi era un «cortile principale», ove si affacciavano vari ambienti e «di più canto di detto cortile sta attaccata la chiesa sotto il titolo dello Spirito Santo»[vi].

Nella seconda metà del Cinquecento, nello slargo antistante porta Rudiae, dunque, si fronteggiavano il complesso gotico di San Giovanni d’Aymo e la compatta fabbrica dell’Ospedale, la cui facciata è scandita da coppie di paraste scanalate e arricchita dal bugnato, entrambi elementi architettonici tipici di dell’Acaya.

Il nuovo assetto urbanistico durò poco più di un secolo, anche se c’è chi presume un intervento dell’architetto di Carlo V anche nel convento. Nel 1652, vi fu traslocata da Andria la sede del Centro di Studi filosofici e teologici dei Padri Predicatori, i domenicani decisero di adeguare al nuovo stato chiesa e convento, non più consoni all’importanza del nuovo status. La chiesa fu ricostruita tra il 1691 e il 1728 su disegni di Giuseppe Zimbalo, morto durante i lavori, nel 1710. Nel Seicento anche il convento, fu ristrutturato, così come denotano le cornici delle porte murate al piano terra. L’edificio fu ulteriormente rielaborato nella seconda metà del Settecento, quando Emanuele Manieri e le sue maestranze, cui viene dai più attribuita l’opera, realizzarono gli ambienti superiori, il nuovo chiostro e l’elegante facciata racchiusa da due portali sormontati da balconcini e scandita da paraste di ordine gigante. Qui compare la conchiglia: “firma” sia di Mauro, sia di Emanuele Manieri.

Lecce, ingresso Accademia di Belle Arti (ph Giovanna Falco)

Riguardo la chiesa dell’Ospedale, secondo Infantino, fu « fabricata non sono molt’anni da limosine, con una porta incontro la Sala dove dimorano l’infermi»[vii]. Si tratterebbe di una ristrutturazione, riconducibile, secondo Michele Paone, al gusto di Giuseppe Zimbalo[viii]. L’impianto, a navata unica, è scandito da quattro arcate da cui si accede alle nicchie, riccamente realizzate in pietra e stucchi, che racchiudevano sei altari e le porte di accesso alla strada (murata) e ad una delle corsie. Nella chiesa, sulle chiavi di volta delle nicchie sono scolpiti gli scudi che racchiudono le armi del’Ospedale (prima a destra, e terza e quarta a sinistra), dei dell’Antoglietta (quarta nicchia a destra) e quella partita Verardi – Prato (prima nicchia a sinsitra)[ix]. Sulle altre nicchie compare lo stemma dell’Ospedale (La colomba dello Spirito Santo dalla cui coda escono tre fiammelle)[x]. Le due chiavi di volta del soffitto sono decorate con lo stemma dell’Ospedale (differente da quello che si riscontra sugli archi) e con quello di Lecce.

Nel corso dell’Ottocento nuove vicende accomunano i due edifici. A causa della soppressione degli ordini religiosi durante il Decennio francese (1806 – 1815), il convento fu incamerato dal Demanio Regio e destinato, nel 1812, a  sede della Manifattura dei Tabacchi: l’edificio fu soggetto a profonde modifiche, atte ad ospitare gli impianti per la produzione del tabacco. Nel 1898 l’ospedale fu trasferito nella nuova sede (il vecchio ospedale Vito Fazzi) e il Demanio decise di adibire l’edificio a sede della Direzione compartimentale dei tabacchi. Successivamente le due “infermerie” sono state trasformate in sala cinematografica. L’ex convento ha ospitato la Manifattura dei Tabacchi, sino agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso. Dal 1970 vi ha sede l’Accademia di Belle Arti ed è stato restaurato. L’Ospedale dello Spirito Santo è stato recentemente destinato a futura sede della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Lecce, Brindisi e Taranto.


[i] G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 19.

[ii] Cfr. M. PASTORE, Il Codice di Maria d’Enghien, Galatina 1979, p. 56. Il Codice è una raccolta di norme e regolamenti amministrativi e fiscali, compilata nel 1473 per volontà di Antonello Drimi (Cfr. Ivi, p. 25).

[iii] Ivi, p. 41.

[iv] Cfr. A. FOSCARINI, Lecce d’altri tempi. Ricordi di vecchie isole, cappelle e denominazioni stradali (contributo per la topografia leccese), in “Iapigia”, a. VI, 1935, pp. 425-451.

[v] J. A. FERRARI, Apologia paradossica della città di Lecce (1576-1586 ca.), Lecce 1707 (riedito a cura e con introduzione di A. Laporta, Cavallino 1977) p. 481.

[vi] Ibidem. Secondo Ferrari dal cortile si accedeva a due infermerie (corsie) per gli uomini e alla spezieria, vi era poi l’infermeria per le donne, il collegio e, al piano superiore le stanze predisposte per le trovatelle. L’ente, infatti, dal 1568 gestì l’Ospedale di San Nicolò degli Espositi, eretto nel 1544 nelle case di Giovanni Francesco de Noha, su sua disposizione testamentaria del 1490.

[vii] G.C. INFANTINO, op. cit., p. 24.

[viii] Cfr. M. PAONE, Chiese di Lecce, Galatina 1981, II ed., voll. 2: vol. I, pp. 310-311.

[ix] Riguardo l’arme della terza nicchia a destra, che compare anche in facciata, sul portone d’accesso all’Ospedale, Luigi Antonio Montefusco la attribuisce agli Angrisani, Amilcare Foscarini ai Palmieri e Michele Paone all’ Ospedale (cfr, P. BOLOGNINI – L. A. MONTEFUSCO, Lecce Nobilissima, Lecce 1998; A. FOSCARINI, La chiesa dello Spirito Santo e i suoi stemmi, Lecce 1921; M. PAONE, op. cit.). Nella didascalia a p. 314, però Michele Paone la attribuisce ai d’Aymo.

[x] P. BOLOGNINI – L. A. MONTEFUSCO, op. cit., Lecce 1998, p. 113.

Veniva da Lecce la bella maestrina

 

Veniva da Lecce la bella maestrina: come divenni un leccese

 

di Alfredo Romano

Vestiti d’un grembiulino nero, un po’ lacero ma pulito, con un colletto bianco inamidato allacciato da un grosso fiocco azzurro, stavamo affacciati col naso schiacciato contro il vetro alla finestra della scuola elementare. Attendevamo tutti con ansia l’arrivo della bella maestrina. Era puntuale. Ad un minuto dal suono della campanella sopraggiungeva sul piazzale una fiammante 600, color verdino, con le portiere che dall’interno si aprivano sul davanti.
Accompagnata da un fusto di fidanzato, vestito in doppiopetto grigio con i baffetti alla Fred Buscaglione, la maestrina, nell’atto di scendere dall’auto, divaricando le belle gambe, lasciava involontariamente scoprire un pezzo della sua carnagione bianca. A quel punto per un posto in prima fila alla finestra succedeva di tutto: spintoni, gomitate, cazzotti e colpi bassi. Poi tra un fuggi fuggi generale ognuno al suo banco a far finta di niente al sopraggiungere in classe della maestrina.
Portava generalmente delle scarpe bianche a punta con tacchi alti, un tailleur classico chiaro con gonna che scendeva oltre le ginocchia, una camicetta bianca con colletto smerlato alla quale dava risalto una collana di perle a triplo giro che ornava un collo gentile, a reggere un viso dolce e bianco, di una bellezza non sovrastante ma delicata, pulita, sfumata da una punta di rossetto che sprigionava un profumo vagamente di violetta, profumo che faceva svenire anche quelli dell’ultima fila di banchi che a quel tempo erano i gli asini della classe.
La bella ed elegante maestrina veniva da Lecce. Ma la maestrina non poteva che venire da Lecce. Tutto ciò che era signorile, tutto ciò che era bello, che era grande, che era diverso, tutto quello che noi non conoscevamo, che non avevamo mai visto, veniva da Lecce.
Per noi bambini di Collemeto, una frazione allora abitata in gran parte da contadini, Lecce era un sogno. La maestrina leccese non perdeva occasione di parlarci con dovizia di particolari dei grandi palazzi baronali, delle bellissime chiese barocche, delle ville liberty, dei negozi fantasiosi dove si poteva trovare merce indescrivibile, mai vista, che magari arrivava dall’America o dall’Oriente lontano; ci deliziava facendoci mentalmente entrare in quel bazar che doveva essere il mercato coperto dove c’era tutto il ben di dio: potevi trovare pesci dai mille colori, e alcuni lunghi anche un metro; c’erano montagne di cozze, di ostriche, di polpi; c’erano cataste di agnelli, carni di tutte le specie; c’era gente addirittura che cucinava per strada.
E poi sacchi e sacchi di verdura, di cicorie, finocchi, rape che la gente comprava a bracciate e chi aveva le braccia più lunghe ne portava a casa di più. E c’erano traini pieni di quintali di mandarini, di aranci, di noci. E poi era tutta una festa, Lecce era tutta una festa, con le belle strade illuminate di

La chiesa dell’Addolorata di Galatina nei suoi trecento anni

di Tommaso Manzillo

Il patrimonio artistico, storico e culturale di Galatina, nel corso dei secoli, si è arricchito di numerosi edifici sacri, molti dei quali dedicati alla Beata Vergine nelle Sue varie denominazioni, a testimonianza della grande devozione del popolo galatinese verso la Madre del Cristo, corredentrice alla salvezza del genere umano. In questo contributo si vuole ricordare il terzo centenario dalla costruzione della chiesa dell’Addolorata, situata lungo il lato nord delle antiche mura, nel cuore pulsante della città, su quella strada prima denominata, appunto, dell’Addolorata o dei Dolori, ma che oggi porta il nome dell’illustre filosofo pedagogista galatinese Pietro Siciliani. La devozione verso l’Addolorata, che si discosta da tutti gli eccessi di teatralità tipici di alcune manifestazioni della Passione del Cristo presenti nel Sud d’Italia, è penetrata sempre più nell’animo e nella pietà del popolo, che numeroso vi accorre e partecipa, con profondo raccoglimento, al Solenne Settenario in onore alla Beata Vergine Dei Sette Dolori (tradizionalmente il venerdì antecedente la domenica delle Palme o della Passione), divenendo, la chiesa, il centro vitale per tutta la Settimana santa e, in particolare, nel triduo pasquale.

Diciamo subito che mentre la chiesa è dedicata alla Vergine Addolorata, l’Arciconfraternita ivi presente è denominata “Beata Vergine Maria dei Sette Dolori”, perché appartenente, fin dalle origini, all’Ordine dei Servi di Maria, e di questo abbiamo traccia sull’altare maggiore, dove sono raffigurati alcuni dei fondatori e seguaci dell’Ordine stesso. Della storia dell’Arciconfraternita si avrà modo di parlare, ricorrendo il prossimo anno il terzo centenario dalla sua costituzione (agosto 1711), anche se la sua storia si intreccia con quella della chiesa. È con lo scioglimento della

Misteriosi viaggi migratori delle gru

LE GRU (Grus grus) NEI CIELI DEL SALENTO!

di Oreste Caroppo

In autunno e in primavera, imprevedibili, di giorno o nel pieno della notte, nel cuore della Puglia del Sud, anche sulla Città di Maglie, nei loro magici misteriosi viaggi migratori attraverso mari e monti, le Gru attraversano il cielo, ed i loro canti, coro di instancabili ric…hiami, di solide collaborazioni, risvegliano il nostro cuore nel suscitato ricordo di selvagge immutate melodie quasi udite dai nostri avi nei millenni trascorsi e impresse nei meandri più inconsci del nostro sangue!
Sebbene ligie ai loro atavici transiti sulla terra salentina, quanti possono riconoscersi oggi tanto fortunati d’averne visto o udito i loro stuoli signori dei cieli !?
Pochi, eppure chi le ode non ne dimenticherà mai più la magia, ed ogni simil suono ritmato nel cielo, susciterà in loro, come in me, un sussulto, come di innamorati dei misteri più antichi e belli della natura, ed un impulso

Che figura di “corbezzolo”!

Una figura di mezzo crùsciulu

di Armando Polito

Ritorno sul post di Antonio Bruno (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/03/20/unum-tantum-edo-uno-e-basta-questo-e-il-corbezzolo/) e, in particolare, sul mio relativo primo intervento per procedere alla dovuta autoflagellazione. Mi era, infatti, sfuggito un pezzo della Naturalis historia di Plinio precedente a quello da me citato (XV,99): Pomum inhonorum, ut cui nomen ex argumento sit unum tantum edendi. Duobus tamen his nominibus appellant Graeci comaron et memaecylon, quo apparet totidem esse genera; et apud nos alio nomine arbutus vocatur (Frutto senza onore, sicché il suo nome deriva dal fatto che vale la pena mangiarne solo uno. Tuttavia i Greci lo chiamano con i nomi di comaron e mamaecylon, per cui pare che altrettante siano le specie; e presso di noi è chiamato con altro nome arbutus).

A questo punto, però, non mi somministro altre frustate, poiché rimangono confermate tutte le altre mie riflessioni relative all’impossibilità, almeno per me, di accettare l’etimologia pliniana. Non tutti sanno, infatti, che le etimologie proposte dagli antichi sono molto traballanti e in non pochi casi sono delle paretimologie, vale a dire etimologie popolari che nulla hanno di scientifico. Tutti i dizionari di latino concordemente attribuiscono alla e di unedo la quantità di lunga, compreso il Forcellini2 che, evidentemente accortosi dell’incongruenza della e lunga di unedo con l’etimologia pliniana, salomonicamente e troppo decisamente afferma: “Unde et cognoscimus, corripere paenultimam” (Donde conosciamo pure che abbreviavano la penultima)3. La conclusione mi appare affrettata e, come tutte quelle legate all’uso parlato e non scritto del latino (o di altra lingua antica), documentabile solo da qualche forma (finora non emersa) presente in qualche epigrafe pompeiana.

La Naturalis Historia di Plinio in edizione del ‘500 commentata da Ermolao Barbaro

Un’ultima annotazione: la scarsa considerazione in cui gli antichi tenevano questo frutto quasi certamente è alla base, nel neretino, del suo significato traslato di stupido, anche perché non riesco a capire di quale altra voce possa essere deformazione eufemistica (come succede, solo per fare un esempio, in cacchio per cazzo). E questo, oltre che a necessaria integrazione, pure ad esplicitazione del titolo.

1 Ma sono proprio un cretino se mi son lasciato sfuggire questo pezzo!

2 Totius Latinitatis lexicon, tomo IV, Giachetti, Prato, 1845, pag. 700, lemma unēdo.

3 Pronunziavano cioè ùnedo la voce unēdo (che correttamente andrebbe letta unèdo), come se fosse unĕdo.

 

Libri/ U trafuru

Quando si perde la memoria dei luoghi è la poesia a conservare testimonianza delle grandi imprese

 

“La conza è ppronta,
la chianca puru,
carotta è pperta
pe ‘llu trafuru.”

 

Questo è l’inizio del poema in dialetto di Gianluigi Lazzari“U TRAFURU” (edizioni Consorzio Autori Del Mediterraneo)

Castello di Castro – 25920010 – ore 18.30

con Pina Petracca voce recitante

interventi di:
Giuliana Coppola
Carlo Alberto Augeri
Nicola Russi
Ninì Ciccarese
Nunzio Ciriolo

L’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme in Puglia

Dalla Terra Santa alla Puglia.

L’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme

 

di Massimo Perrone

Nella sua storia millenaria l’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme è tra i più antichi e gloriosi ordini cavallereschi nel mondo[1]. Esso si sviluppa nel corso di quattro periodi ben delineati: il periodo delle Crociate e del Regno Latino di Gerusalemme (1099-1291); il periodo della Cavalleria suprema (1335-1499); il periodo dell’Ordine organizzato (1500-1847); il periodo moderno (1847 ai giorni nostri).

L’Ordine trae le sue origini storiche nel sodalizio cristiano avente finalità religiose e di difesa della Terra Santa che fu costituito presso la basilica del Santo Sepolcro in Gerusalemme nel 1099, subito dopo la conquista della città da parte dei crociati.

I nomi sono presagi. Lo scrive e lo dimostra Armando

 

da http://bottegheoscure.splinder.com/archive/2007-09

OMINA NOMINA

 

di Armando Polito

Il titolo è la forma abbreviata della locuzione latina nòmina sunt òmina (i nomi sono presagi) che rifletteva la credenza dei Romani che nel nome della persona fosse indicato il suo destino. Non è una credenza originale perché è presente già nel mondo greco con Platone e Teofrasto e a me sinceramente sembra una forma rozza e primitiva di prevedere il futuro non diversa da quella con cui in passato pretendevano di farlo la Pizia, la Sibilla e gli aruspici e oggi maghi e fattucchieri. Questa volta, però, sono costretto anch’io a fare il mago (sfruttando un apposito software on line…) e a dedicarmi a qualcosa che definisco puro e semplice gioco (il mio, però, è innocuo e gratuito…) perché ne sono profondamente convinto e non per difendermi da un’eventuale accusa di calunnia. Il gioco consiste nell’anagrammare il nome e cognome di personaggi quotidianamente alla ribalta, e unicamente per motivi di spazio vi coinvolgerò solo pochi protagonisti della politica governativa (salvo un fuoruscito…) e mi limiterò solo nei casi più ermetici, facendo concorrenza agli interpreti di Nostradamus, a commentare il responso del computer.

1) GIANNI LETTA (sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio) tentai lagni.

2) CARLO GIOVANARDI  (sottosegretario Famiglia, droga, servizio civile) giovani col radar oppure adorava gin.1

3) PAOLO BONAIUTI (sottosegretario Informazione, comunicazione ed editoria) io punto al boia.2

4) GIANFRANCO MICCICHE’ (sottosegretario CIPE) macini gnocca.3

5) DANIELA SANTACHE’ (sottosegretario Programma di governo) ha la cantina sede.4

6) ANDREA AUGELLO (sottosegretario Pubblica amministrazione e innovazione) ora allude, nega.5

7)LAURA RAVETTO (sottosegretario Rapporti con il Parlamento) votata, urla “re!”6

8) GUIDO BERTOLASO (sottosegretario Protezione civile) se idrologo tuba…

9) GIANFRANCO ROTONDI (ministro Attuazione programma di governo) fa cigno tra rondoni.

10) RENATO BRUNETTA (ministro Pubblica amministrazione e innovazione) brutto tenne ara.

11) MARA CARFAGNA (ministro Pari opportunità) fa mancar gara.7

12) ANDREA RONCHI (ministro Politiche europee) chinando erra.

13) CLAUDIO SCAJOLA  (ministro Sviluppo economico, fino al 5 maggio 2010) io ci scaldo aula oppure dai, io cullo casa!

14) ELIO VITO (ministro Rapporti con il Parlamento) io levito.

15) UMBERTO BOSSI (ministro Riforme per il federalismo) mi sto su ebbro.8

16) MARIASTELLA GELMINI (ministro Istruzione, università e ricerca) sen lima, taglia merli.9

17) GIORGIA MELONI (ministro per la gioventù) noleggiai mori.10

18) ROBERTO CALDEROLI (ministro Semplificazione normativa) creder tallo Orobi.11

19) FRANCO FRATTINI (ministro Affari esteri) non tra traffici.

20) ROBERTO MARONI (ministro Interno) io trombar nero.12

21) ANGELINO ALFANO (ministro giustizia) anelano il fango.13

22) IGNAZIO LA RUSSA (ministro Difesa) urlo assai, ganzi!

23) GIULIO TREMONTI (ministro economia e finanze) urlo ignoti temi.14

­­­­­­­24) GIANCARLO GALAN (ministro politiche agricole, alimentari e forestali) a galla con grani.

25) SILVIO BERLUSCONI (presidente del Consiglio) unico visir sbolle oppure lisci viso burlone oppure bel culoso, rivinsi.

Assumo fin da ora l’impegno a dedicare la mia attenzione futura a chi dovesse subentrare nel governo attuale e, se sarà la sinistra, avrò rispettato pure la par condicio… Per ora un assaggio: PIERLUIGI BERSANI rigiri plebe suina.

E, per scoraggiare quei milioni che senza dubbio hanno già deciso di votarmi prima ancora che io, in un empito di follia, mi presenti candidato, si sappia che ARMANDO POLITO, dopo anagramma, è trama dopo il no.

_____

1 Il primo risultato è in linea con la situazione demografica attuale (tra poco bisognerà cercare i giovani col radar), il secondo vede nell’imperfetto un ridimensionamento del suo contenuto inquietante che, però, pare in linea con una tendenza abbastanza diffusa (vedi più avanti nn. 5 e 15 con le relative note).

2 Riferimento alla legge sulla libertà di stampa e di informazione?

3 Se l’espressione è riferita al suo principale è difficile dire se è dettata da ammirazione, piaggeria o invidia.

4 Ecco, forse, perché certe decisioni…; comunque il vizietto, se di vizietto si tratta, è in comune coi nn. 2 e 15).

5 Avrà preso lezioni dal suo principale?

6 Quell’omertoso del computer si è rifiutato di dirmi chi sarebbe questo re; ma io ho la mia idea…

7 Debbo riconoscere che neppure il freddo computer è rimasto insensibile alla sensualità della nostra, a meno che “gara” non si riferisca non a una gara di bellezza ma a  qualche gara d’appalto…

8 Sarà lo stesso vizietto dei nn. 2 e 5?

9 Sen=se ne; i merli sono i precari…e non solo.

10 Razzismo in comune col n. 20?

11 Qui debbo indossare i panni del sacerdote-interprete per ricordare che tallo sta per base, fondamento e che gli Orobi erano una popolazione preromana stanziata nel territorio attorno al lago di Como.

12 Razzismo in comune col n. 17?

13 Anche qui il computer ha fatto l’omertoso, ma credo che il soggetto della frase sia ”i giudici di sinistra”.

14  Con riferimento al fatto che, almeno secondo lui, sarebbe stato il primo al mondo a prevedere l’attuale crisi e, cosa più importante, le cause scatenanti.

Libri/ Il Vento e le Pietre

24 settembre 2010, 19,30
Fondo Verri, via S. Maria del Paradiso 4, Lecce

Ambienti tra le righe

Moderatore: Stefano Donno

 

Presentazione del volume

Il Vento e le Pietre di Dario Stornati

(Lupo editore).

 

Dario Stomati  è un neurologo di Mesagne, che poco ha a che fare con
la storia, anzi, con la preistoria, e men che meno con pietre,
megaliti e reperti archeologici. Eppure è lui la voce narrante di
questo viaggio tra i megaliti del salentino e sulla cultura che li ha
prodotti. Il libro da lui scritto – tra le numerose pubblicazioni
scientifico e a carattere medico – è Il vento e le pietre, edito dalla
Lupo (pp. 181, 15 euro), pubblicato nel 2010.
Questo libro si pone come un percorso tra pietre, popoli e territori.

Proposta per una nuova coltivazione nel Salento. Il sesamo



di Antonio Bruno

Quella TV che nel 1983 mandava in onda la trasmissione “OK il prezzo è giusto” quando la nonna di mia moglie, una nonnina arzilla e mitica di nome Maria Capone, osservava la postazione davanti alla quale Sabani conduceva parte della trasmissione: ricordate? Era costituita da un piccolo palco con a fianco una pedana girevole che celava gli Oggetti-Invito che poi il conduttore ribattezzò “Apriti, Sesamo!” La nonna di mia moglie alla vista di quella pedana coprendo la voce di Sabani , con enfasi, con gli occhi furbetti e il sorriso sulle labbra diceva:“Apriti, Stefano!”. La nonna di mia moglie era stata amica d’infanzia di mia nonna Domenica detta “Memmi” e non penso immaginassero, mentre erano intente nei giochi dell’infanzia, che due loro nipoti si sarebbero poi sposati.

Sembra ieri ma sono volati trent’anni senza che nemmeno me ne accorgessi e con la nonna di mia moglie che adesso non c’è più. Però, ogni volta che ascolto la formula magica “Apriti, Sesamo!” rivedo la sua casa, il suo viso e il suo sorriso.
La nonna Maria chiedeva a Stefano di aprirsi in una sorta di “parodia” della formula magica “Apriti, Sesamo”, che viene dritta dritta dalla Persia dove viene usata nella fiaba di Alì Baba e i 40 ladroni perchè esclamando “Apriti, Sesamo” questi briganti avevano accesso alla caverna del tesoro. E sapete perchè i persiani usavano questa formula magica? Perché fa riferimento alle “incredibili” proprietà nutritive e vitali del sesamo, che aprirebbero all’uomo le porte della forza e della vitalità.

I suoi semi vengono usati per aromatizzare i prodotti da forno del Salento leccese: i taralli al sesamo, o il pane al sesamo, e il suo olio ha preceduto l’uso dell’olio d’oliva. Semi e olio di sesamo hanno caratteristiche forse uniche per il nostro sistema nervoso, immunitario e motorio.
L’olio di sesamo copre il 75% della produzione mondiale di grassi.
In India ed Egitto diversi millenni fa, l’olio di sesamo accompagnato da rituali magici, era bevuto contro mal di testa ed emorragie.
I Babilonesi gli attribuivano proprietà cosmetiche, ma è nella letteratura antica che si riporta l’usanza di spargere con semi di sesamo i sedili dei commensali, per cacciare i demoni che potrebbero impossessarsi del cibo.

Il sesamo ha semi ovali e piatti dai quali i nostri antenati estraevano l’olio che era usato come condimento. Per questo motivo le donne di 10.000 anni fa l’hanno coltivato anche se la prima testimonianza dell’olio di sesamo è in alcune tavolette d’argilla sumeriche, risalenti al 2300 a. C.
Anche in un testo Mesopotamico in lingua aramaica in onore del dio Hadad, si legge di un olio alimentare diverso da quello d’oliva : “…ho dedicato loro offerte funerarie di buoi, pecore ingrassate, pane, birra di qualità, vino, olio di sesamo, miele e ogni altro prodotto dell’orto…”.

Il nome scientifico della pianta “Indicum” è la conseguenza della circostanza che vede l’India maggiore produttrice mondiale. Arrivano informazioni sulla presenza del Sesamo in India da autori e viaggiatori greci come lo storico Ctesia o il geografo Strabon. Comunque c’è il ritrovamento di un grumo di semi carbonizzati nel sito archeologico di Harappa in India che può essere ricondotto all’arrivo degli Ari nel Subcontinente circa il III millennio a. C.

Il sesamo Sesamum Indicum (LINN.) appartiene alla famiglia delle Pedaliaceae. Ti dico due cose che possono interessarti: la prima è che l’olio di sesamo si vende a a 15 – 25 Euro al litro e la seconda è il prezzo del seme che va da 8 a 10 Euro al chilo.
Poi mi chiederai quanti quintali di seme produce un ettaro di terreno coltivato a sesamo. E io te lo scrivo così cominci a farti due conticini: la produzione è da 10 a 20 quintali di seme per ettaro. Un quintale di seme di sesamo lo puoi vendere ricavando sino a 1.000 Euro e se ne produci 20 quintali ottieni 20.000 Euro ad ettaro. Come dici? Non ci credi? Vai a fare una ricerca di mercato e vedrai che converrai con me su questi numeri. E l’olio? Dal seme si ottiene da un minimo del 40% a un massimo del 63% di olio. Tradotto avrai dai 20 quintali di seme 12 quintali di olio! E se lo vendi a 20 Euro al litro ecco che 24.000 Euro non te li toglie nessuno!
Non ci credi vero? E cosa devi fare per coltivarlo nei campi incolti del Salento leccese? Lo semini a maggio a righe e ti bastano 3 – 4 chili di seme per ettaro. Il 13 giugno, per la festa di Sant’Antonio da Padova, eccolo fiorire e, prima di ferragosto, lo potrai raccogliere! La cosa bella è che devi raccogliere la pianta intera prima che si aprano le capsule che contengono il seme e poi, queste piante devi lasciarle stagionare su una superficie liscia, perchè il seme uscirà da solo. A quel punto non ti resta che ammucchiarlo e metterlo nei sacchi. Le spese? La seminatrice per la semina,un paio di sarchiature, un diradamento a 30 centimentri da una pianta all’altra sulla fila e qualche irrigazione di soccorso di non più di 500 metri cubi di acqua per ettaro.

Insomma il sesamo essendo tra le prime piante coltivate nel neolitico, scelta dalle nostre antenate perchè facile da coltivare, rende gustoso il pane e regala l’olio ottenuto con la spremitura a freddo dei semi della pianta, con ottime proprietà emollienti, antiossidanti e seborestitutive.
Fammelo sapere come è andata la coltivazione del tuo campo di sesamo, chiama i tuoi figli, mostragli la pianta dei nostri antenati, quella che ha dato semi e olio per lungo tempo e che a te che hai un seminativo nel Salento leccese, con una spesa minima, in 100 giorni con ogni probabilità ti darà un buon reddito. Mi raccomando quando vedrai le piante di sesamo devi ripetere “Apriti, Stefano!”: la formula magica di Maria Capone, vedrai che funzionerà!

Bibliografia
D. BEDIGIAN – J. R. HARLAN, Evidence for cultivation of sesame in the ancient world, in «Economic Botany» XL (1985), p. 137.
J. W. MAC CRINDLE, Ancient Indian as Described by Ktesias the Kuidian, rist. Dehli 1976, p. 16; B. N. PURI, India as Described by Greek Writers, Allahabad 1939, p. 88 sgg.
M. S. VATTS, Excavations at Harappa, Calcutta 1940, p. 466, S. PIGGOTT, Pre-Historic India, New York 1950, p. 153; R. E. M. WHEELER, The Indus Civilization, Cambridge 1953, p. 62.
Aldo Quindo Lazzari: Storia dell’uomo attraverso il suo cibo
Wikipedia: Sesamum indicum
Saverio Sani: Il Sesamo nell’India Antica
Prezzi Olio di Sesamo: http://www.twenga.it/dir-Gastronomia,Olio-e-Aceto,Olio-di-sesamo
Enrico Pantanelli: Il Sesamo

Libri/ Gianluca Memmi e il lupo

 di Paolo Vincenti

“Ma Cappuccetto Rosso no! E’ il trionfo dell’idiozia. Un padre assente; una madre cinica che manda la sua bambina sola, nel bosco infestato dai lupi; un’anziana nonna immobilizzata nel letto e abbandonata da tutti. Proprio una famiglia da imitare! Per non parlare poi della piccola protagonista, che disobbedisce alla madre, prende la strada più lunga e tortuosa e scambia una bestia pelosa e puzzolente per la propria nonna! E questi sarebbero i buoni? Cos’ha di educativo questa storia? E’ solo l’apoteosi della stupidità! L’unico scaltro e intelligente, degno di essere preso come esempio, è il lupo. Ebbene sì! Lo ammetto! Io tengo per il lupo!”.

Abbiamo riportato questo estratto, che si trova in seconda di copertina, perché crediamo, faccia capire benissimo il messaggio di questo libro e le intenzioni del suo autore. Storie di favole, come Cappuccetto Rosso, da sempre ammannite ai bambini senza forse mai riflettere sulla devastante portata di alcune di esse, storie di ragazzi, di adolescenza, storie di storie, raccontate con la freschezza e l’immediatezza di un giovanissimo scrittore di Casarano: Gianluca Memmi.  Io tengo per il lupo (Besa editrice 2006) è la sua opera prima, ma Memmi non è nuovo ad esperienze culturali anche molto interessanti.

Memmi è fra i fondatori della casaranese associazione socio-culturale Eteria che si è già distinta, nel variegato panorama della promozione culturale salentina, per la qualità delle sue proposte. Questa associazione culturale opera sul territorio da alcuni anni, ed ha presentato diversi spettacoli come

Renata Fonte eroina del nostro Meridione

 
 
DOVE SI DEVASTA IL PAESAGGIO Lì C’è MAFIA!

di Oreste Caroppo

Renata Fonte è un’eroina del nostro Meridione ed il suo sacrificio oggi assume un valore nuovo ed importante, vivo, che non stiamo cogliendo come dovremmo! Il Salento muore oggi sotto la stessa avidità speculativa per cui oggi Renata non è più tra noi a difenderci nei consigli comunali dai mafiosi e dalla mafia pugliese fatta anche e soprattutto di quegli uomini politici che, come traditori che dall’interno delle città, vendutisi, aprivano le porte delle loro città assediate ai nemici, stanno svendendo, per un piatto di lenticchie o per laute tangenti, il nostro territorio sul patibolo del business dei mega impianti eolici e fotovoltaici industriali, ubicati nelle nostre zone agricole e naturali; una follia che calpesta ogni principio di pianificazione urbanistica ed energetica ed ogni buon principio di prevenzione e precauzione!
E’ quanto sta avvenendo con la mafia della Green Economy, degli imprenditori e delle multinazionali delle cosiddette energie pulite, mega eolico e mega fotovoltaico! Non credo sia stato un caso che il moto popolare, divampato nel Salento, di opposizione a questo scempio inaudito e di proporzioni bibliche sia partito proprio da Nardò, dalla difesa di quella stessa costa, dell’orizzonte di Porto Selvaggio, dove ogni passo si carica del ringraziamento a Renata e del dispiacere che scaturisce dalla

Felice è rinato

di Rocco Boccadamo

La prima considerazione che scaturisce spontanea lasciando scorrere sul lenzuolo della memoria immagini antiche di mezzo secolo e passa, e però tuttora nitide e vive, è che, mai, nome di battesimo fu più beffardo.

Difatti, da bambino, Felice – venuto al mondo in seno ad una famiglia poverissima e, se il ricordo è fedele, anche numerosa, dove si viveva di gran lunga al di sotto della condizione d’indigenza, ossia a dire che non v’erano nemmeno lacrime per piangere – non si portava appresso la soavità distesa del viso e il disincanto negli occhi, connotati propri di tale scala d’età, bensì una sorta di ghigno, una smorfia stampata e spessa, trasparenza epidermica, senza mezzi termini, di un dramma di sofferenza, miseria nera, fame.

Andava in giro coperto da quattro stracci, talvolta in compagnia di un fratello d’età appena minore, l’un attaccato all’altro, non soltanto per le strade paesane, ma anche spingendosi, a piedi scalzi, sino alle località contermini.

L’espressione della faccia minuta e smunta costituiva, già di per sé, una scena forte, che ti prendeva dentro; in più, veniva addirittura a materializzarsi una vera e propria saetta di struggimento interiore, quando, poi, s’aggiungeva una mano, insieme palmo e piattino, per l’implorazione di un aiuto materiale, di un’elemosina ancorché povera.

Sequenze che, nel sentire profondo – nessuno sforzo a riconoscerlo nonostante la notevole distanza temporale – trasudano ancora cruda attualità, quasi che si materializzassero, fossero riprese e girate con lo sguardo, giusto oggi.

Come accade lungo gli incontrollabili percorsi esistenziali, il coetaneo autore di queste righe, durante le lunghe stagioni successive della giovinezza e della maturità piena, snodatesi peraltro in giro, tra varie residenze lontane, non ha avuto modo di seguire il gemello divenire di Felice.

Finalmente, tornato, da pensionato, a ricalcare questi lidi, l’ha riscoperto, rivisto, ritrovato: l’incavato, l’anima della faccia, richiamanti sempre l’originale, tutto il resto, è ovvio, aggiornato all’avanzamento degli anni, pochi capelli, più bianchi che grigi, barba leggermente folta e di analoga tonalità cromatica.

Insomma, un uomo ormai “antico”, sposato, padre e nonno, esattamente al pari dello scrivente.

Particolare bellissimo che risalta immediatamente all’osservazione, l’assenza, adesso, di qualsiasi traccia di ansia, di disagio, di miseria, quel triste coacervo che, nella indimenticabile figura del bambino di ieri, sembrava dettare disperazione.

Lieto epilogo della rievocata “rinascita”, sgorga un sentimento di sincera contentezza, ad ogni scambio di saluto con Felice, incontrandolo a piedi, oppure alla guida del suo “Ape” o della motoretta, come anche nel notarlo seduto ad un banchetto con gli amici, intento a gareggiare in una serena partita di tressette.

Stracuenzi

 

di Armando Polito

1 Leva di mezzo tutte queste cianfruaglie, cominciando da te…

2 Fa’ conto che me ne sono già andato; alle altre cianfrusaglie pensaci tu!

3 È diabolico! Pure oggi ha trovato il sistema per non pulire lo studio…e per voi devo pure far finta di ridere.

 

Stracuènzi nel dialetto neretino è usato nel senso di cianfrusaglie, attrezzi inutili e ingombranti. Al lemma straquènzi (dopo dirò perchè la grafia più esatta per me è con la c e non con la q) il Rohlfs si limita a rinviare a strafìzi. In realtà questa voce non è registrata, al contrario di strafìzie, ove rinvia a strafìzzu1 e a sarvìzie. A strafizzu1 non compare etimologia, mentre a sarvìzie rimanda a servìzzie ove rinvia da capo a strafizie. Al di là di questa estenuante serie di rinvii probabilmente per il Rohlfs sarvìzie/servìzzie corrisponde all’italiano servizi, mentre strafìzie per lui è deformazione di sarvìzie o frutto di incrocio tra quest’ultimo e strafìzzu1.

Meno male che stracuenzi è al di fuori di questa battaglia perché nemmeno un ammutinamento spinto e folle alla fonologia potrebbe portare a dire che stracuènzi è deformazione di strafìzi (tra l’altro, in neretino, strafìzzu significa rovina, distruzione e il Rohlfs, senza etimologia, lo registra come strafìzzu2). In altra occasione proporrò la mia etimologia di strafìzzu, ora mi interessa stracuènzi.

La voce è usata pure al singolare con riferimento a qualcosa di ingombrante ma anche a persona che impaccia. Per me è da extra (dalla voce latina che significa fuori)+cuènzu. Da solo cuènzu indica uno strumento per pescare (si tratta di una lenza lunghissima con molti ami e galleggianti che richiede molta cura nella sua fabbricazione e ancora più esperienza nel suo uso, ad evitare che a partire dal momento della sua calata in acqua tutto si riduca ad un groviglio inutilizzabile). Per il Rohlfs, e condivido pienamente, corrisponde all’italiano concio nel suo valore di participio passato sostantivato di conciare che nel basso uso significa sistemare, aggiustare, mettere in sesto e che è da un latino *comptiare, dal classico comptus, participio passato di còmere=unire, acconciare, adornare. Stracuènzu, perciò, è sematicamente l’esatto contrario di acconcio e va scritto, rispettando il consonantismo di origine, con la c e non con la q.

Piccoli seminaristi crescono (tredicesima parte)

I giochi nel Seminario Vescovile di Nardò dal 1960 al 1965
(Tredicesima parte)

di Alfredo Romano

Il gioco in Seminario rappresentava una disciplina come le altre: c’erano dei tempi, dei modi, delle regole da rispettare. Giocare, soprattutto, era obbligatorio: non potevi esimerti, non potevi addurre scuse, dire oggi non mi va. Era obbligatorio, ma, al tempo stesso, in caso di mancanza disciplinare, venivi punito restando fuorigioco. Il gioco si svolgeva in cortile durante le quattro ricreazioni giornaliere della durata di 10-15 minuti l’una. Nell’area scoperta del cortile c’erano due campetti per la pallacanestro; il biliardino e il ping-pong, invece, stazionavano all’interno del porticato. A rotazione giornaliera, ognuna delle quattro camerate era coinvolta in uno dei tre sport. Nel giocare non ci si cambiava d’abito, si tenevano gli stessi indumenti di tutti i giorni, scarpe comprese. Addosso avevi sempre lo spolverino che serviva a evitare l’usura dei pantaloni, della camicia bianca senza collo, oppure del maglione nelle stagioni fredde. Il nostro corredo era modesto, misurato, l’abito doveva durarti più a lungo possibile. Sessantacinque seminaristi a giocare tutti insieme nel cortile facevano un gran baccano, gridavano soprattutto quelli della pallacanestro. Eravamo dei ragazzi e giocavamo con tanto impegno e tanta e tanta foga. Dal quarto d’ora di gioco si usciva sfiniti e sudati per poi tornare ai nostri doveri ancora accalorati e col fiato addosso.

Il gioco veniva interrotto dalla campanella e, incredibilmente, in un attimo si smorzava tutto quel vociare e gridare, quasi l’ordine fosse stato dato dalla bacchetta di un direttore d’orchestra. D’improvviso come catapultati un silenzio surreale. Ci piaceva giocare e forse il gioco ha rappresentato per noi quella valvola di sfogo senza la quale non avremmo sopportato di sottoporci per anni a un sistema educativo così rigido. Dopo cinque anni di pallacanestro, di biliardino e di ping-pong, eravamo ormai diventati nel campo dei maestri imbattibili.

Molti anni dopo, durante una vacanza estiva a Collemeto, mi capitò di entrare in una sala giochi dove c’era un tennis da tavolo. Un mio cugino, ben ferrato in questo tipo di sport, mi sfidò. Non giocavo da anni, per cui la prima partita mi servì per riprendere un po’ di confidenza con la racchetta, battute e schiacciate varie. Ma persi clamorosamente. Seguirono altre partite e, con mia sorpresa, le vinsi tutte, e mio cugino che non si rassegnava

Libri/ Crepuscolo nel mare di Gallipoli

“CREPUSCOLO NEL MARE DI GALLIPOLI”  DI MAURIZIO NOCERA
 

di Paolo Vincenti

Per la collana “I poeti de L’uomo e il mare”, Maurizio Nocera ha pubblicato   Crepuscolo nel mare di Gallipoli (2004), che è il Quaderno n.6, edito dalla conosciuta associazione gallipolina “L’uomo e il mare”, fondata da Augusto Benemeglio (già “Augusto Buono Libero”, autore di un altro, indimenticabile, poetico omaggio a Gallipoli,  L’isola della luce, che, ci sembra, faccia il paio con il libro che qui si presenta). Questo poemetto, come spiega lo stesso Nocera nell’ Avvertenza, nasce da un debito di riconoscenza dell’autore nei confronti della “Città bella”, un debito contratto molti anni fa, avendo, il tugliese  Nocera,  trascorso molta parte della sua infanzia ed adolescenza nella città jonica, da cui proveniva la sua famiglia. Ed anche oggi, egli che vive a Lecce, rimane legatissimo a Gallipoli, anche per avere sposato una gallipolina, Anna Donno, scrittrice ed operatrice culturale, presidente della sezione italiana della AWMR.

Come molte opere di Nocera, Crepuscolo nel mare di Gallipoli è una miscellanea, un mix apparentemente informe  dove, insieme ai versi del suo poemetto, trovano posto le lettere degli amici, le foto di Gallipoli, un ricordo di Ernesto Barba, scritti eterogenei ed addirittura un omaggio a Massimo Troisi, attore

Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: spirdare

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (12): spirdàre.

Non sempre il rapporto tra causa ed effetto

è interpretabile univocamente.

________

1 Papà, perché stai facendo quella faccia da spiritato? Era normale che lo zucchero perdesse di peso cinque chili in tre giorni.

2 Il problema è che il diabete in tre giorni se ne è salito a cinquecento…

Spirdàre nel dialetto neretino può significare assumere un atteggiamento da spiritato (deformazione dell’italiano di basso uso spiritare, con sincope di –i– e passaggio –d->-t-) e perdere di peso [da sfridu=calo fisiologico del peso della merce, probabilmente da un germanico *fridu=pace, ammenda con aggiunta di s– intensiva; il passaggio semantico sarebbe giustificato dal

Anche nel Salento cronopios e famas

 “Cronopios e famas”

 di Gianni Ferraris

Chi sono questi personaggi inquietanti e bizzarri di Cortazar? Quelli che stanno nel libro giudicato da molti il suo capolavoro assoluto?

Italo Calvino era uno che quando scriveva lo sapeva fare veramente. Allora lo faccio dire a lui chi sono i cronopios e i famas. Sono tesi e antitesi, volo e cammino faticoso, sorriso e triste consapevolezza dell’oggi. E mentre scrivo, invidio Calvino, forse lo detesto anche un po’ perché lui sa scrivere. E’ uno di quelli che quando l’hai letto ti tocca dire “ma perché non l’ho scritto io?” Però… a ciascuno il suo. Accontentiamoci del nostro orticello.

«I cronopios e i famas, due geníe d’esseri che incarnano con movenze di balletto due opposte e complementari possibilità dell’essere, sono la creazione piú felice e assoluta di Cortázar. Dire che i cronopios sono l’intuizione, la poesia, il capovolgimento delle norme, e che i famas sono l’ordine, la razionalità, l’efficienza, sarebbe impoverire di molto, imprigionandole in definizioni teoriche, la ricchezza psicologica e l’autonomia morale del loro universo. Cronopios e famas possono essere definiti solo dall’insieme dei loro comportamenti. I famas sono quelli che imbalsamano ed etichettano i ricordi, che bevono la virtú a cucchiaiate col risultato di riconoscersi l’un l’altro carichi di vizi, che se hanno la tosse abbattono un eucalipto invece di comprare le pasticche Valda. I cronopios sono coloro che, se si lavano i denti alla finestra, spremono tutto il tubetto per veder volare al vento festoni di dentifricio rosa; se sono dirigenti della radio fanno tradurre tutte le trasmissioni in rumeno; se incontrano una tartaruga le disegnano una rondine sul guscio per darle l’illusione della velocità. Del resto, osservando bene, si vedrà che è una determinazione degna dei famas che i cronopios mettono nell’essere cronopios, e che nell’agire da famas i famas sono pervasi da una follia non meno stralunata di quella cronopiesca». 

“Quando i cronopios cantano le loro canzoni preferite, il loro  rapimento è tale che più d’una volta sono finiti sotto un camion o una bicicletta; cadono dalla finestra, perdono quel che avevano in  tasca e persino il conto dei giorni.”

Meditazione del  cronopio:

 «È tardi, ma meno

 Tardi per me che per i famas,

 per i  famas è cinque minuti più tardi,

 andranno a letto più tardi.

 Io ho un orologio con meno vita, meno casa

 E meno andarmene a letto

 Io sono un cronopio disgraziato e umido».

 “…Mentre beve il caffè al  Richmond di Florida, bagna il cronopio il suo biscotto con le sue  lacrime naturali…”

Sentirsi cronopios o fama? Essere qui ed ora o vivere oggi svolazzando fra ieri e dopodomani?  Vedere il mondo con gli occhi   di uno di quelli che si dicono “pragmatici”, e quando sente quella parolaccia, un cronopio qualunque pensa ad una brutta malattia che cancella le emozioni, oppure vedere le cose chiudendo gli occhi? Con la forza dei ricordi che addolciscono i colori e le emozioni? E’ vero, poi cammini ad occhi chiusi.  E’ vero, sbatti contro l’albero che sta  sta corteggiando spudoratamente il cespuglio lì vicino. E’ vero, è tutto vero. Però vuoi mettere la visione della realtà distorta.  Forse solo contorta. Forse meno irreale di quell’altra, quella fatta di numeri e caselle incasellate?

 E poi, alla fine, quando anche i famas scoprono che spesso, troppo spesso “il vero è inverosimile”?  Quando scoprono, giusto per fare un esempio banale, che un paese esporta armi nei territori in cui manda guerrieri con armature e archibugi e dire che vanno a “fare la pace”?  Ah il realismo dei famas…..

Salento… Voi salentini per grazia ricevuta o per casta, pensate di esserne esenti? Anche qui cronopios e famas. Il maestrale può essere un fastidioso vento, oppure un’opportunità per vedere il cielo terso standosene, nelle notti d’inverno, in campagna a farsi congelare senza sentire freddo e guardare le stelle allungando la mano per toccarle una ad una. E riuscirci. E

Rimbocchiamoci le maniche!

 

‘NFURDICAMUNDE LI MANICHE!

di Armando Polito

Mi ha spinto a stilare queste poche righe il recente post Nardò. Un comitato spontaneo per dire “basta” alla scriteriata amministrazione della città. Poche le righe che mi accingo a scrivere, ma troppe per trovare ospitalità nello spazio dedicato alle risposte, a costo di far pensare a qualcuno che sono un maniaco della visibilità (basta che me lo faccia, pubblicamente, sapere e scomparirò…). Rimbocchiamoci le maniche è la traduzione italiana del titolo in dialetto neretino, anzi, più alla lettera, rimbocchiamone le maniche. Il lettore mi perdonerà se a questo punto dovrà sorbirsi (ma non è, neppure questo, un obbligo…) la solita tiritera etimologica, in questo caso frutto, più che di deformazione professionale, del bisogno di stemperare la rabbia prima delle considerazioni finali. Allora: ‘nfurdicàre deriva secondo il Rohlfs (la sua proposta, per quanto possa valere il mio parere, è ineccepibile) da un latino *infulticàre, composto da in=dentro+ *fulticàre, forma frequentativa dal supino fultum del classico fulcìre=rafforzare. L’espressione italiana (come quella dialettale) dal significato letterale (piegare le maniche attorno al braccio significa rafforzarle con pieghe multiple) ha sviluppato quello metaforico di darsi da fare (la manica costituisce un impaccio, perciò va ridimensionata). Non va dimenticato, però, che il gesto, scherzosamente o non, prelude pure al venire alle mani. È questa la situazione in cui l’Umanità si è sempre cacciata (lo dimostra la storia) di fronte al potere che non agisce per il bene concreto della collettività, ma è prevaricatore dell’interesse collettivo in difesa di quello di pochi. Lo stesso regime, la democrazia, che fa della libertà la sua bandiera ha solo determinato uno spostamento dei gestori del potere (Rivoluzione francese, tanto per citare un solo esempio, docet) mantenendo le antiche velleità di esportazione anche in culture diverse: e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Meglio non parlare delle religioni, di tutte, che sulla paura della morte hanno costruito le loro fortune, offrendo ognuna le sue lusinghe consolatorie: in particolare, poi, quella cattolica, continua ad avere la spudoratezza di pretendere di esportare il Vangelo presso popolazioni primitive dalle quali dovremmo, al contrario, imparare, visto che in non poche di queste culture chi delinque è costretto spontaneamente a uscire fuori dal contesto sociale, senza bisogno di indagini e vari gradi di processo…

Sicché appaiono eroi Socrate, Cristo, Gandhi, Martin Luter King, Falcone, Borsellino, Ambrosoli e tanti altri noti e anonimi, rei di avere solo fatto il proprio dovere in una società per la quale, secondo il pensiero di cui si è fatto recentemente degno portavoce Andreotti, “se la sarebbero cercata”.

Ma, in rapporto al post che mi ha ispirato, cosa possiamo fare? Data l’inutilità dell’intervento violento (come ho detto prima ampiamente dimostrata dalla storia) non rimane che darsi da fare: ma come?

Io non credo minimamente, e da tempo, alla verginità politica e strumentale nemmeno delle formazioni cosiddette spontanee, tant’è che non mi vergogno di dire che non mi reco ad esercitare il diritto di voto da più di trent’anni (chiunque può controllare…): ho rinunciato, paradossalmente, ad un diritto fondamentale per preservare quello che è alla base di tutti: la libertà.

Chi ancora crede che una trota e simili (la metafora è offensiva per i relativi animali) debbano guadagnare infinitamente di più rispetto al più geniale dei ricercatori (evito volutamente di parlare della innumerevole schiera di giovani e meno giovani senz’altro intellettivamente ed intellettualmente superiori a trote ed affini) è libero di continuare a votare. Io continuerò nel mio atteggiamento perchè credo che solo l’astensione massiccia potrà portare qualcosa di pacificamente rivoluzionario. Ne ho piene le scatole di individui (e sto usando un eufemismo) di destra, sinistra e di centro che non hanno (indipendentemente dalle legge elettorale in vigore) problemi di elezione, mentre credo che abbiano problemi di erezione proprio quelli che, direttamente o indirettamente, vogliono far credere di avercelo duro…

Chissà se, in un empito di presunzione, dopo L’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, non vedrà la luce, a distanza di secoli, sulla scia dell’Uomo qualunque, il mio Elogio del qualunquismo

E questa volta la mia fantasia vien meno nel concepire la solita vignetta: l’ironia (soprattutto l’autoironia) nasconde, in fondo un sorriso di umana comprensione e di larvata, più o meno sana, complicità. Qui non mi è riuscita la dissacrazione che tanto amo: per me è brutto segno!

Libri/ Terroni

di Rocco Biondi*

Il recente libro di Pino Aprile “Terroni” sta ottenendo un grandissimo successo editoriale. E’ un libro di guerriglia culturale in difesa del Sud.
I piemontesi, quando centocinquant’anni fa invasero il nostro Meridione, fecero terra bruciata (in alcuni casi letteralmente) di tutto ciò che di buono avevamo. Saccheggiarono le nostre città, stuprarono le nostre donne, rasero al suolo e bruciarono tanti paesi, praticarono la tortura più spietata, fucilarono tanti contadini senza processo e senza condanna, incarcerarono donne e bambini, aprirono al Nord campi di concentramento e sterminio dove tormentarono e fecero morire tanti italiani del Sud squagliandoli poi nella calce viva; quelli del Nord s’inventarono leggi speciali per annientare noi meridionali, venne depredato tutto l’oro del Regno delle Due Sicilie, vennero trafugate le opere d’arte dei ricolmi nostri musei.
L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza, ma la ragione dell’Unità d’Italia.
I nostri padri briganti tentarono di reagire a questi immani soprusi e in

Cartoline da Tuglie. La chiesa matrice

Una facciata, quasi un volto

 di Luigi Scorrano

In molti la ricordano ancora, col suo aspetto biancastro o ingrigito, con le tracce della stanchezza che il tempo lascia sui monumenti oltre che sulle facce delle persone. Appena restaurata, la facciata della Chiesa Matrice provocava un effetto choc, con il suo colore che poteva risultare troppo acceso, con la quasi sfacciata evidenza della sua mole subito tornata ad imporsi nello spazio della piazza. Ora, però, anche quel colore così vivo sì è un poco velato, o forse l’occhio vi si è abituato e l ’effetto è quello di collocare la facciata della chiesa tra le immagini familiari; non più staccata dagli edifici circostanti ma con essi in colloquio pacato e cordiale come s’addice allo spazio urbano d’una piazza cordiale anch’essa, con un aspetto quotidiano che non incute soggezione.

Una facciata è come un volto: vi si stratifica la memoria degli anni e degli avvenimenti. La si può assumere come testimone di eventi che sono ormai lontani dal nostro tempo; si può facilmente immaginare che resterà, anche dopo la stagione della nostra vita, a vegliare sulla vita del paese.

Una facciata, quella della nostra Chiesa Matrice, senza pretese, aperta, fraterna alla dimensione della quotidianità nella quale siamo immersi. L’orizzontalità dei suoi piani è bilanciata dalla verticalità di rilevanti elementi architettonici; il sagrato-terrazza, con la sua balaustra di confine, piccolo balcone dove sostare in piacevoli incontri, costituisce un sorridente

Una spigolatura fuori campo…

di Armando Polito

Credo sia legittimo ogni tanto uscire dal seminato salentino, anche se qualcuno potrebbe obiettarmi: “E così, come spigoleremo?”. Obiezione respinta: la cultura non è fatta di compartimenti che all’occorrenza possono diventare stagni impedendo (o consentendo…si tratta di punti di vista) agli occupanti di uscire e a chi è fuori di entrare, ma di celle perennemente intercomunicanti e fruibili da chiunque, per depositare qualcosa o per prelevarla. Solo pochi giorni fa nella miriade di argomenti oggetto di una conversazione telefonica con l’amico Marcello venne fuori, non ricordo più come, una riflessione sulla capacità diagnostica dei clinici di un tempo e su come la semeiotica, complice una sempre più spinta (forse troppo…) frantumazione della conoscenza (si chiama specializzazione…) e una fiducia (forse eccessiva…) nelle nuove tecnologie (ma indietro, questo è sicuro, non si torna), tenda nei casi peggiori a ridursi ad una passiva serie di dati su cui la macchina esprimerà il giudizio assumendosene, magari (mi auguro che a questo non si arrivi mai…), pure la responsabilità. Sono convinto anche che i casi peggiori di cui parlavo prima costituiscono un’esigua minoranza e che, nonostante tutto, i medici italiani sono forse i migliori interpreti di quel felice convivere di creatività, fantasia, preparazione ed abnegazione (le quattro cose non sono in contraddizione, anzi vicendevolmente rendono possibile l’una l’incremento dell’altra non solo nella poesia che è, forse, la forma più alta di conoscenza, ma in ogni attività umana, anche in quella apparentemente più insignificante) che, in fondo, non rendono inutile questo nostro passaggio sulla terra. Nel secondo capitolo dei Promessi sposi il Manzoni scriveva: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi”. Questa massima si può tranquillamente applicare, secondo me, all’esigua minoranza di cui parlavo prima. Intrepretando, infatti, in quel modo la loro professione, essi sono anche responsabili, forse inconsapevoli, di tutta una serie di conseguenze legate fondamentalmente al progressivo venir meno del contatto umano e preparano il terreno su cui tanti imbroglioni criminalmente sguazzano. Sta emergendo, infatti, in tutta la sue estensione e gravità, il fenomeno di coloro che esercitano l’attività medica senza averne titolo. Sul piano giuridico sono del parere che è della massima urgenza un provvedimento legislativo, che, almeno questo, sia  chiaro e non suscettibile di interpretazioni difformi, che comporti sanzioni certe e pesantissime, che, anzitutto, non preveda in casi come questi che l’indagine sia legata essenzialmente a qualche provvidenziale querela di parte (ho il sospetto che pochissime siano state quelle di cittadini resisi conto della situazione e che la maggior parte siano strumentali, cioè “soffiate” o indotte da desiderio di semplice vendetta). Mi ha fatto piacere che un clinico, intervistato in occasione dell’ennesimo scandalo, abbia stigmatizzato proprio il fatto che a monte del fenomeno ci sia il distacco umano di cui parlavo prima, tant’è che metteva in rilievo come i pazienti turlupinati manifestassero, scoperto l’inganno, la loro grande  meraviglia non tanto per l’avveniristico arredo dello studio e per la serie di titoli che ne tappezzavano le pareti (la forma e l’immagine prima di tutto…) o per l’avvenenza di svettanti infermiere e atletici infermieri, quanto piuttosto per la gentilezza e affabilità, insomma, “umanità” del sedicente medico, nonché per la sua bravura. Delle due, una: o siamo in presenza di tanti novelli Leonardo (non mi riferisco all’allenatore di calcio… può anche darsi, poi,  che qualche “autodidatta” sia veramente bravo, ma bisognerebbe, dopo l’esemplare condanna, somministrargli, comunque, un adeguato corso di formazione…tenuto da medici autentici), oppure siamo in presenza di individui in possesso di un culo gigantesco (sarebbe interessante indagare se mai, proprio mai c’è scappato il morto…). Voglio chiudere con una piccola incursione in casa mia. Non è un caso se oggi non si incontrano più filologi del calibro del Rohlfs, dal momento che pure la filologia si è frantumata in una serie infinita di specializzazioni minori e lo studio sicuro di un lemma richiede che esso sia aggredito da una caterva di specialisti (storici della lingua, glottologi, etc. etc.). Non è un caso se, a tal proposito, parecchi si improvvisano etimologhi, magari senza ombra di preparazione, nemmeno autodidatta, specifica, sputando verità inesistenti: io farò pure la stessa cosa, ma almeno, per stare in pace con la mia coscienza e per rispetto mio e del lettore, infarcisco le mie scemenze di “probabilmente” e “forse”. Mi auguro che, pur essendo uscito dal campo salentino, la spigolatura non ne abbia risentito…

Libri/ Sulle tracce del grande Sheakspeare

MAURIZIO NOCERA SULLE TRACCE

DEL GRANDE SHEAKSPEARE
 

di Paolo Vincenti

Figli, vostro padre uccidete/ La lama del tenente è un poemetto di Maurizio Nocera ispirato  al noto capolavoro teatrale di William Sheakspeare, Giulio Cesare.  In questo libro, edito nella copertinese collana “I quaderni del Bardo”, di Maurizio Leo (2004), Nocera si rifà al grande Bardo del Seicento ed al suo famoso dramma, mutuandone temi ed accenti, per svolgere, traendola dalla storia romana, una trama che invece ha del moderno e dell’universale.

Il tema è quello della tirannia che, da sempre, nega all’uomo il suo bene più prezioso, vale a dire la libertà, e quindi del tirannicidio, visto come unica via per ripristinare la situazione ante quem, cioè restituire ai cittadini i loro più elementari diritti,  cancellati dall’oppressione dittatoriale. Solo che, come nell’alto modello di riferimento di Nocera, il tirannicidio, in questo caso, è anche parricidio,  ed assume quindi  una doppia valenza, fortemente simbolica, colorando con tinte ancora più fosche un quadro già di per sé tetro che, con pennellate forti e decise, l’autore del libro ha saputo comporre.

Maurizio Nocera, “questo vivace Sant’Antonio salentino”, come lo definisce Mario Lunetta, autore della “Presentazione” del libro, cala i fatti ed i personaggi del dramma nella nostra realtà contemporanea, volendo dare, con questi suoi versi asciutti, duri e veramente ispirati,  un monito ai suoi lettori. E la lezione che emerge dalla lettura è quella di reagire a tutte le forme di oppressione che infestano le nostre moderne nazioni, anche quelle forme più subdole e striscianti che, proprio in quanto tali, non vengono percepite immediatamente ma che si insidiano come un cancro nel corpo di una democrazia, demolendone piano piano tutte le strutture portanti, se le democrazie non sono forti abbastanza, cioè se non hanno sviluppato col tempo immunodifese sufficienti a scongiurare il pericolo di un male tremendo, quale quello della dittatura.

Sulla copertina del libro, sotto il titolo, campeggia l’immagine di una lama che altro non è che il logo dell’azienda vitivinicola “Castel di Salve” di Depressa (Tricase), che l’autore ha chiesto di potere utilizzare perché, come

Quella bizzarra terracotta dal collo stretto…

Lu mbile

di Armando Polito

Insieme con la capàsa, il capasòne e il capasièddhu anche lo mbile appartiene alla categoria di contenitori di origine ed uso contadini divenuti, quelli di realizzazione moderna,  oggetto di arredamento e, i più antichi, di antiquariato. Si tratta di un recipiente di terracotta per acqua, dalla bocca molto stretta, corredo fondamentale del contadino che si recava al lavoro, perché la creta, trasudando, consentiva all’acqua all’interno di conservare la sua temperatura più bassa rispetto a quella esterna. Sembrerà incredibile, ma il nostro oggetto ha in comune l’etimologia con la voce comparsa in italiano nel XVII secolo ad indicare un vaso per liquidi di vetro o metallo, lungo e senza collo; questa accezione è ormai obsoleta ma la voce in questione, bombola, ha successivamente vissuto una seconda giovinezza ad indicare un contenitore metallico di forma cilindrica per fluidi compressi, dando vita anche all’accrescitivo bombolone. Fra qualche decennio, molto probabilmente, anche questi contenitori saranno obsoleti e a ricordarne l’etimologia sopravviverà, paradossalmente, solo mbile, anche perché bombole e bomboloni non sembrano avere canoni estetici tali da farne oggetto di arredamento o di antiquariato.

Ma chi è il padre delle voci fin qui messe in campo? Altrettanto incredibilmente, si tratta di un insetto. Vero è, infatti, che quelle voci derivano tutte dal greco bombiùle=boccetta, ma quest’ultima deriva da bombos, voce onomatopeica che può significare rumore sordo, rimbombo, sibilo, ronzio delle orecchie, borborigmo  (gorgoglio dello stomaco o dell’intestino) e, addirittura, canto. Parallelamente a bombiùle in greco era nato pure bombiùlios=insetto ronzante, calabrone, ape, larva di baco da seta, vaso gorgogliante. Tra i tanti significati solo quello di bozzolo è legato ad un rapporto di somiglianza formale con la boccetta ma è chiaramente posteriore a tutti gli altri (boccetta compresa) legati alla primitiva valenza onomatopeica. Il collo stretto, infatti, quando si versa il liquido, crea un gorgoglio, che nel caso dello mbile è tutto particolare. Per quanto riguarda la fedeltà alla parola originaria la partita tra l’italiano e il neretino questa volta si chiude in parità: partendo, infatti, da bombiùle, bombola presenta il mantenimento della sillaba iniziale ma la regolarizzazione della desinenza (-e>-a), mbile la perdita di bo– ma la conservazione della desinenza antica. In mbile, infine, la conservazione della m mi fa pensare ad una forma intermedia *ombìle (da *bombìle con aferesi di b-, fenomeno frequentissimo), dalla quale per errata discrezione  dell’articolo (*l’ombile>lo mbile>lu mbile), altro fenomeno molto frequente non solo nel dialetto, è nata la nostra voce.

Libri/ VIAGGIO NEL SALENTO di Maria Brandon Albini

a cura di Stefano Donno

Maria Brandon Albini, una delle protagoniste di maggior rilievo della
letteratura meridionalista del secondo dopoguerra, ci racconta il suo
“Viaggio” nel Salento con una scrittura dall’andamento leggero e
brioso, tanto che si ha quasi l’impressione di leggere degli appunti,
delle notazioni di viaggio prese giorno per giorno.
L’autrice s’immerge in un universo composito dove convivono antiche
credenze e istanze della contemporaneità, dove le leggende
s’incrociano con storie di santi e il mondo magico e rituale della
cultura contadina non è in contraddizione con il sindacalismo e le
leggi di difesa operaia.
L’Albini si sofferma sulla condizione delle donne nel Sud, registra il
persistere di tradizioni popolari che sopravvivono agli assalti della
modernità, la pratica della lamentazione funebre, la lingua grika e il
tarantismo, pagine queste ultime di estremo interesse da un punto di

Spicilegia Sallentina n°3, luglio 2008

 

  • Giovanni Zuccaro, Editoriale, p. 1
  • Fernando Sammarco, Origine storiche del Salento messapico e la Messapia del V sec. a. C., p. 3
  • Francesco Danieli, Il rito bizantino in Terra d’Otranto. Chiarificazioni, radici e retaggi, p. 11
  • Domenica Specchia, Appunti sul tesoro e sulla chiesa di S. Caterina d’Alessandria in Galatina, p.22
  • Rosa Bianca Gaballo, Cucina barocca. Viaggio nella memoria gastronomica della terra salentina
  • Pierluigi Caputo, Aspetti architettonici e trasformazione morfologica della torre-masseria Grande di Surano (Lecce), p.31
  • Emanuele Arnesano, La Madonna del Rosario di Alliste opera giovanile di Giovanni Andrea Coppola, p. 37
  • Roberto Filograna, Il primo Libro Rosso di Nardò. Privilegia, monimenta et scriptura magnifice Universitatis civitatis Neritoni, p. 42
  • Giuseppe A. Pastore, Io e Leonardo Leo, p.53
  • La poesia – Maria Rosaria Tamblè, Amore tesperatu, p. 56
  • Mauro Bortone, I Martiri di Otranto e il 1480. Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali, p. 57
  • Salento, Segni di civiltà, p. 70
  • Vittorio Zacchino,  Francesco Bellotto scultore di  Nardò e il cinquecentesco corteo trionfale della chiesa di S. Sebastiano a Galatone, p. 71
  • Cosimo Giannuzzi, Poesia visiva. Il Labirinto metrico del magliese Oronzo Pasquale Macrì (1738-1827), p. 79
  •  Francesco Lacarbonara, Puglia: porta d’oriente. Cenni di storia geologica e aspetti naturalistici di una terra al confine tra Oriente e Occidente, p. 84
  • Salvatore Muci, Note sulla Torre del Fiume di S. Maria al Bagno alias Quattro Colonne, p. 93
    Emilio Rubino, Nascerà maschio o femmina? Pregiudizi popolari sul nascituro, p. 97
  • Salento, Segni di civiltà, p. 102
  • Pier Paolo Tarsi, Note di viaggio di un salentino nella sua terra, p. 103
  • La poesia – Mara Ceccarelli, Strapiombi d’infinito, p. 114
  • Michele Lenti, La pittura di Leonardo Antonio Olivieri a Martina Franca, p. 115
  • La poesia – Nicola Manieri Elia, Cuezzi, p. 132
  • Enrico Gaballo, Un artista salentino del Novecento. Agesilao Flora: decoratore o “poeta” del colore?, p. 134
  • Oronzo Mazzotta, Estate (acquaforte), p. 138
  • La poesia – Gino Pisanò, Presso una torre costiera del XVI secolo, p.140
  • Francesco Danieli, Un libro vivente di Storia d’Italia. Corrado De Rossi, fra Roma e Nardò, nel ricordo delle Fosse Ardeatine, p. 141
  • Old paper, p. 144
  • Marcello Gaballo, Il palazzo comunale nella ducale città di  Nardò, p. 145
  • Old paper, p. 155
  • Salvatore Magno, Il racconto. Tonino della lettera, p.156
  • Sommario, p.160

La Manifattura Tabacchi di Lecce

 
 
 

Dopo 200 anni rischia di scomparire la Manifattura Tabacchi del Salento leccese


di Antonio Bruno


Nel 1812 viene istituita per speciale privilegio la Manifattura Tabacchi del Salento Leccese che lavorava dagli 11 ai 12 mila quintali di foglia di tabacco che veniva prodotta nei migliori terreni di 24 Comuni del Salento leccese. Oggi è la British American Tabacco l’erede di quell’opificio che è l’azienda anglo-americana unica in Italia a produrre tabacco e confezionare sigarette: le Ms, annuncia lo stop della produzione nel Salento.

In questa nota alcune considerazioni sulla distruzione della coltivazione del Tabacco del Salento leccese.
 

Fìmmene, fìmmene ca sciati allu tabaccu

(Donne, Donne che andate a lavorare nei campi di tabacco)

‘nde sciati dhoi e ne turnati a quattru

(quando andate siete due e dopo ritornate in quattro)

ci bu la dice cu chiantati lu tabaccu

(chi è che vi dice di piantare il tabacco)

la ditta nu bu dae li taraletti

(la ditta non vi da i telai su cui mettere le foglie per l’essiccazione)

ca poi li sordi bu li benedicu

(benedico i vostri soldi)

bu ‘nde cattati nuci de Natale

(con cui comprare le noci a Natale)

te dicu sempre cu nu chianti lu tabaccu

(te lo dico sempre di non piantare il tabacco)

lu sule è forte e te lu sicca tuttu

(il sole è forte e lo fa seccare)

sigaraie (da http://digilander.libero.it/arup/folclore.html)

Ricordate le nostre mamme o nonne che ci raccontavano del lavoro che facevano nelle “Fabbriche del Tabacco”? A San Cesario del Salento leccese di queste fabbriche ce n’erano parecchie anche se adesso non ce ne sono più da decenni. E cosa dire dei nostri nonni, sino ai nostri padri e fratelli che hanno coltivato il tabacco nel Salento leccese sino a qualche anno fa? Era estate quando si lavorava il tabacco e il sole salentino ardeva le campagne e la pelle delle donne e degli uomini che lavoravano in campagna. Giuseppe Abatianni di San Cesario del Salento leccese rimane turbato quando scopre che il tabacco, anche se non si coltiva più, produce il premio agli agricoltori, un premio in soldi! Mi chiede che ne facciano di quei soldi, mi chiede se li investono nelle campagne, io gli rispondo che non so… Giuseppe Abatianni è uno dei 500 dipendenti della British American Tabacco, l’azienda anglo-americana, l’unica in Italia a produrre tabacco e confezionare sigarette (le Ms), Giuseppe Abatianni mi racconta delle manifestazioni che sta facendo perché ha il suo posto di lavoro a rischio. Le cronache di questi giorni raccontano degli incontri tra azienda e sindacati per trovare soluzioni alternative allo stop della produzione annunciato nel Salento.

La tabacchicoltura del Salento leccese degli anni 2000 era ridotta ai margini tanto che nel 2006 rappresentava lo 0,36% dei 157.720 ettari coltivati. Nel 2006 dal tabacco venivano poco più di mezzo milione di Euro ovvero lo 0,2% dei 281 milioni di Euro che rappresentavano la Produzione lorda vendibile ottenuta dall’agricoltura del Salento leccese.
Eppure sino al 1996 si coltivavano 5.180 ettari di tabacco ed i 5.500 ettari di tabacco davano lavoro a 30 mila braccianti agricoli che lavoravano per 1 milione e 600 mila giornate agricole con 172 miliardi delle vecchie lire tra salari e contributi e con una produzione di tabacco di 14mila Tonnellate.

Ma non finisce qui, nella fase successiva della trasformazione c’erano 11mila addetti con 220mila giornate lavorative e 25 miliardi di lire tra compensi e contributi.

Nel 2004 dopo le varie crisi cancellano posti di lavoro e redditi mettendo al tappeto l’agricoltura del Salento leccese e, in questo 2010, appena sei anni dopo, rischia di accadere la stessa cosa per la Manifattura Tabacchi di Lecce.

Era l’anno 1561 quando il Cardinale Prospero Pubblicola di Santa Croce (1513-1589), Nunzio Apostolico in Portogallo, al ritorno da una missione diplomatica presso la Corte di Lisbona, portò i semi di tabacco in dono al Papa Pio IV che li fece coltivare dai monaci Cistercensi nei dintorni di Roma.
Proprio per questo motivo la coltivazione del Tabacco nel Salento leccese fu affidata per lungo tempo ai frati mendicanti. Nel 1800 la “polvere leccese” è considerata alla pari della “Siviglia di Spagna” come un prodotto di gran lusso che riesce a penetrare prepotentemente nelle Corti dei Re di tutto il Mondo, insomma il Tabacco del Salento leccese diviene un bene raffinato e costosissimo. Nel 1810 la coltivazione e il commercio del Tabacco diviene una “privativa di Stato” e per questo motivo subisce nel Salento leccese una temporanea contrazione: la quantità di prodotto si riduce perché vengono introdotte razze esotiche per la coltivazione. Nel 1812 viene istituita per speciale privilegio la Manifattura di Lecce che lavora dagli 11 ai 12 mila quintali di foglia di tabacco che viene prodotta nei migliori terreni di 24 Comuni del Salento leccese. E’ nel 1870 – 75 che la produzione riprende a crescere in quantità e in qualità. Infatti con l’unificazione del Regno d’Italia, nel 1870 c’è un nuovo orientamento dell’attività di produzione agricola determinato dalla maggiore sicurezza delle campagne e dai più facili mezzi di comunicazione. In quegli anni c’è anche un allargamento del mercato e un’ampia applicazione del contratto ventinovennale (di 29 anni) di “Colonia a miglioria” che si rivelò uno strumento formidabile per valorizzare terreni marginali e poco produttivi in quanto coniugava il vantaggio di nessun costo per il proprietario con un equo compenso per il lavoro del conduttore del fondo.

Sono passati appena cinque anni dal 2005 dalla nascita del Programma dell’Unione Europea denominato Coalta ovvero Colture alternative al Tabacco che aveva l’obiettivo di favorire la riconversione della tabacchicoltura del Salento leccese attraverso l’introduzione delle coltivazioni del Farro, l’artemisia, il muglolo (un cavolo del Salento leccese), l’asparago e le patate e ricordo vennero avviati campi sperimentali a Monteroni del Salento leccese nell’Azienda Agricola dell’Istituto sperimentale tabacchi e a Sternatia e Maglie sempre nel Salento leccese.

Dal 2006 c’è il disaccoppiamento totale che ha provocato l’abbandono in massa della coltivazione del tabacco e i titoli storici maturati dai tabacchicoltori non sono stati più investiti nella coltura e nessuno in questi anni ha registrato investimenti di questi capitali nell’agricoltura del Salento leccese.

Abbiamo perso tutti! Più di 40 mila tra braccianti e addetti alla trasformazione non guadagnano più e non spendono più i quasi 200 miliardi di vecchie lire ovvero i 100 milioni di euro. Un danno enorme per l’Economia di questo territorio perché i 100 milioni di Euro sono spariti e nessuno è riuscito a cavarli da qualche altra “coltura del Salento leccese”. Adesso anche la Manifattura dei Tabacchi del Salento leccese, l’ultimo baluardo costituto quasi 200 anni fa, nel 1812 , rischia di scomparire. Il Tabacco, la “polvere leccese” il prodotto di gran lusso del Salento leccese ovvero la “Ferrari” del Tabacco non è che uno sbiadito ricordo lontano, il Tabacco del Salento leccese è l’ennesima vittima della mancanza di una politica in grado di competere in questo tempo della globalizzazione! Abbiamo un compito nuovo, siamo chiamati a un’ impresa entusiasmante: c’è da ricostruire l’agricoltura del Salento leccese perchè di quella che è stata l’economia agricola rimangono solo macerie.


Bibliografia

Vincenzo Rutigliano: Puglia, dal Tabacco nasce il farro Sole 24 ore del 1 febbraio 2007

Valentina Marzo: Produzione «Ms» in Romania La vertenza diventa nazionale Corriere della sera del 9 settembre 2010

Bat: fumata nera in Regione, si attende il vertice di venerdì a Roma – Il Paese Nuovo

L’Agricoltura Salentina, Lecce Giugno 1935.

Piccoli seminaristi crescono (dodicesima parte)

Le gite nel Seminario Vescovile di Nardò 1960-1965
(dodicesima parte)

di Alfredo Romano

Come per tutte le scuole che si rispettino, anche in Seminario c’era la gita annuale sul finire dell’anno scolastico. Durava un giorno soltanto, ma abbastanza per aspettarla con un po’ di euforia.

La prima gita, aprile del 1961, ebbe come meta Monte Sant’Angelo in provincia di Foggia. Ci alzammo prestissimo, visto che il pullman doveva macinare quasi 400 km per giungere alla meta. Io non mi ero allontanato mai fino a tanto da casa mia (immagino anche i miei compagni), e ricordo, arrivando sul Gargano, l’impressione che ebbi alla vista dei primi monti. Il mondo conosciuto per me allora era una distesa piatta di case bianche, di uliveti e vigneti, era il mare di Santa Maria al Bagno dove ad agosto di ogni anno affittavamo una casetta nei pressi della Cuzzara. I monti d’Italia li avevo studiati sull’Atlante scolastico, ne avevo memorizzato anche i nomi, per non dire che erano lo sfondo di tanti racconti per ragazzi quasi sempre ambientati nelle regioni del Nord: i luoghi delle fate, dei nani, dei cavalieri, dei boschi, delle foreste, dei laghi, di re, regine e principesse che regnavano in un castello sperduto su qualche cucuzzolo. Ma, per la prima volta in vita

Lu rrumàtu…e altre zozzerie, antiche e moderne

di Armando Polito

1 Tu sai che c’è dietro la parola rrumatu?

2 Io so solamente che ti complichi la vita pure con la merda!

3 Io sto col mio padrone e perciò gli preparo altro materiale perché approfondisca i suoi studi!

 

Rrumàtu (nel Brindisino e nel Tarantino rummàtu) è il nome con cui si indica il letame. Il plurale (li rrumàte) è sinonimo, forte e pittoresco, di spazzatura. Voce derivata: rrumatisciàre=letamare. Per quanto riguarda l’etimologia Il Rohfs nel suo Vocabolario dei dialetti salentini si limita solo a dire che è “identico al toscano rumato=fango”.

Per la sua terminazione la voce ha tutta l’aria di essere il participio passato del verbo rumàre attestato a Lucugnano, Salve e Ugento (altre varianti nell’area salentina: riumàre, riumbàre, riumbàri, riumà, riummàre, reumbàre, rriumàri, rraumàre, rreumbàre) col significato di ruminare. Ma rumàre (con lo stesso significato) oltre che voce italiana obsoleta è anche forma regionale toscana dove assume il significato di rimescolare un liquido o un impasto; è dal latino ruma=gola.

È intuitivo che ruminare deriva da rumine, dal latino rumen, insieme con la variante rumis chiaramente connesso con ruma; nella  inesattezza anatomica degli antichi le tre voci potevano significare ora esofago, ora rumine, ora stomaco e, addirittura, poppa (di animale).

Ma torniamo a rumàre; la voce non è attestata nel latino classico ma in quello medioevale nel significato di allattare1. Si noterà come nel latino medioevale la voce denota la perdita per ruma (da cui inequivocabilmente rumàre deriva) di quell’ambiguità semantica già rilevata (anche se gravitante, comunque, nell’ambito dell’alimentazione).

Se ci fermiamo qui, però, l’empasse semantica tra rumàre=allattare e rrumàtu=letame appare insormontabile.

Ci accingiamo, perciò a percorrere un viaggio le cui tappe nessuno avrebbe immaginato prima di intraprenderlo.

In latino il lemma irrumàre indica il sesso orale attivo e irrumàtor chi (sempre attivamente) lo pratica e irrumàtio la stessa pratica.

Leggo nel Calonghi-Badellino2: “irrumàre (in e rumo), aliquem=insero…in os alterius [ficco…nella bocca di un altro]3, Catullo (ed unda irrumata, dell’acqua insozzata della piscina, Marziale 2, 70, 3”).4

Più pudico appare il Castiglioni-Mariotti: “irrumàre trattare impudicamente,

Libri/ Nacquero contadini, morirono briganti

Nacquero contadini, morirono briganti

di Valentino Romano (Capone editore). Postfazione di Monica Mazzitelli

Così umano. Così piccolo, meschino, speranzoso, maleodorante,
accaldato o raffreddato, rassegnato, misero, lacero e inumano il mondo
che emerge dalle pagine informate di Valentino Romano. La storia di
carta che fruscia non è qui; i generali impettiti, la lista degli
armamenti, il computo dei morti e dei vivi, gli accordi a palazzo, i
tradimenti regali, le convenzioni, i trattati, le alleanze, le
dichiarazioni in parlamento: carta che fruscia senza odore. Qui invece
c’è l’odore della storia, rimasto impigliato nelle pieghe dei suoi
protagonisti piccoli, quelli che fino a più di un secolo fa erano contadini abbracciati alla propria terra – quelli che non sono dovuti scappare via in cerca di fortuna oltreoceano – coloro che non lasciano traccia del loro passaggio, di cui non ci sono neanche più le tombe.

La Storia è di queste braccia, mani, piedi macinati dal tempo e
riassorbiti nel suolo di cui noi ci nutriamo senza sapere, conoscere.
Ma che magari giudichiamo.
“Briganti” li chiamiamo, come oggi chiamiamo altra gente
“clandestini”: nomi comodi per allontanare da noi, di uno o cento
passi, il desiderio disperato di sopravvivenza, o se possibile di una

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!