Tempi di guerra

Noci, monumento ai Caduti

di Pietro Gigante

La guerra continuava e la sua funesta azione portava lutti, distruzione, fame e miseria: bisognava arrangiarsi per sopravvivere il meno peggio possibile. In ogni paese di questa zona c’era un distaccamento di truppe, più o meno consistente a seconda del numero degli abitanti e l’importanza strategica del luogo. Queste truppe erano considerate d’occupazione dalla popolazione, perché occupavano le case migliori del paese; non si considerava affatto che fossero alleate, nemiche, ex alleate o ex nemiche.

Il mondo continuava ad alternare le notti ai giorni, gli uomini alternavano pensieri a preoccupazioni: il come procurarsi il cibo ed il vestiario cedeva spesso il posto a come far durare un bene il più a lungo possibile. Le case erano piccole ed i ragazzi per avere un po’ di spazio erano per strada; essi per rendere interessante la vita pattugliavano ogni angolo del paese e conoscevano tutto di tutti, specialmente i depositi dell’esercito.

Nel paese[1] dove hanno luogo gli avvenimenti che andiamo a raccontare era dislocato un drappello, a quel tempo il narratore non aveva alcuna cognizione militare e non sapeva quali funzioni questi militari avessero, udiva quello che i compagni di gioco dicevano e riferiva ad altri quello che aveva udito. Però sapeva che il comando di quello che per lui era l’esercito occupante aveva requisito ed occupato una casa patrizia appartenente a ricchi proprietari terrieri i quali volenti o nolenti si erano sistemati nella loro villa-masseria non lontano dal paese. La truppa, invece, aveva occupato il nuovo edificio scolastico intonso, come un libro di lettura, da poco licenziato dalle maestranze edili. Questi militari per la sistemazione, per il trasporto del vettovagliamento e per le pulizie si erano serviti e si servivano di gente del paese. Queste persone, forse per essere estremamente operative, forse per loro motivi, forse … non lo so, avevano impresso nella loro mente la pianta dettagliata dei luoghi, le vie di fuga ed ogni particolare, meglio di una esperta spia nemica. Tutto ciò che ai più sembrava essere un segreto, lo era di Pulcinella, perché negli incontri con amici e parenti tutti ci tenevano a far confidenze per stare sempre più nell’intimità, ma il tema obbligato era la guerra, quella che si combatteva (si fa per dire data la presenza dei militar-soldati) in casa cioè nel paese. Quello che succedeva al fronte interessava solo chi aveva un parente o un amico arruolato.

Anuccio[2] e Uccio[3] avevano avuto la soffiata: zio Catallo[4], che faceva il vastaso[5], aveva loro detto che aveva scaricato un camion di scatoloni che racchiudevano scatolette di carna bif[6] e di marmellata; poi c’era anche altra merce che egli non sapeva. Egli era certo di quelle derrate perché il militare, che sovrintendeva il suo lavoro, ne aveva regalato alcune a lui ed al suo compagno di lavoro. Lo zio aveva soprattutto raccomandato di affrettarsi poiché, è vero che avevano giurato il silenzio, ma a questo paese si dice. “citte citte, minz’a chiazze[7].

I ragazzi avevano studiato il percorso: dovevano salire sul tetto della casa di comma Nunziétte[8] e poi scendere dall’altro versante nel cortile del palazzo requisito e usato come caserma. Avevano previsto tutto: per la scalata verso il tetto dal versante strada dovevano usare la scala del lattatore Minguccio[9], che stava lavorando nei pressi;  poi per la discesa c’era una finestra della casa che dava nel cortile, che dimezzava l’altezza. Al lettore meticoloso qui verrà il dubbio: esiste una casa che non ha finestre verso l’esterno, ma le ha verso l’interno? Il palazzo completo aveva il prospetto con un ampio portone e sovrastante grande balcone che dava sulla via principale del paese, esso si elevava fino al secondo piano, come pure le due facciate laterali. Invece la parte opposta al prospetto era occupata da una costruzione a piano terra con il tetto spiovente, che in termine tecnico viene detta costruzione a pignon. In vero questi locali, un tempo deposito e stalla ma ora casa, era del proprietario del palazzo, ora sfrattato in masseria, data in fitto al marito di Nunziétte che, esperto “giardiniere”[10], curava l’orto del signorino[11]. Nel cortile c’erano due porte, una dava alla scala che portava agli appartamenti e l’altra al deposito, formato da più vani e che aveva anche un uscio verso l’esterno, ottimo per la fuga. Tutto quindi era stato calcolato bene, cioè i ragazzi avevano spremuto le loro meningi per prevedere tutto e nei minimi particolari. L’impresa, poi, era iniziata sotto ottimi auspici, perché i nostri eroi, avvicinandosi al luogo dell’impresa, avevano notato una signora del vicinato preparare l’occorrente per stendere i panni. Per fortuna la facciata della scalata era celata dai panni stesi ed occhi indiscreti non si sarebbero potuti indispettire vedendo le loro azioni scavalcatorie. Essi avevano spazio sufficiente per agire poiché a quei tempi per sciorinare i panni si legava a ganci, già infissi nel muro, una lunga e resistente corda e la si tendeva con una pertica o con qualcosa di simile in modo da formare un triangolo con la parete, cioè in maniera che i panni lavati ed ora stesi, non toccassero il muro sporco.

Anuccio e Uccio si presentarono sul luogo con un sacco vuoto e con una scala recuperata non si sa dove e come. L’imbianchino aveva terminato il suo lavoro in quei pressi ed era andato altrove, perciò c’era chi aveva subito approfittato per occupare quello spazio stendendo i panni. Iniziò subito la scalata ed in men che non si dica i due ragazzi erano già belli e spariti alla vista della gente. La scala però era rimasti lì e la massaia-lavandaia, quando si accorse di quella presenza, lanciò solenni improperi contra la sua vicina che, a suo dire, aveva tentato e forse riuscito a sporcare i suoi panni per vendetta, avendo trovato lo spazio già occupato;  lei invece, alzandosi prima, aveva avuto diritto di precedenza per la stenditura. Ma torniamo al nostro racconto: i nostri, giunti nel cortile, si diressero verso una delle due porte che stranamente trovarono socchiusa, cautamente l’aprirono ma videro che di lì partiva una rampa di scale a salire, quindi non era quello il deposito. Di corsa verso l’altra porta e stranamente anche questa non era chiusa a chiave, aveva il battente appoggiato perché appena la toccarono essa si aprì. Naturalmente se la richiusero subito alle spalle, ma così facendo l’ambiente divenne buio; l’azione doveva essere eseguita e presto, quindi Anuccio non la chiuse del tutto ma permise che uno spiraglio di luce vi entrasse. La stanza era grande, aveva un secondo uscio senza porta che dava in un luogo anch’esso buio ed aveva accatastati su due pareti opposte scatoloni di cartoni. Portare via uno scatolone era improbo sia per il peso che per il volume, occorreva aprire e prenderne il contenuto. Uccio propose di agire con prudenza cioè prima perlustrare, trovare subito la porta che immetteva sulla strada, quindi accertarsi della merce presente ed infine prelevare il bottino. Così fecero, mettendo mano alle indispensabili attrezzature che un ragazzo di vita di quel tempo doveva avere in tasca. Essi certamente avevano fiammiferi ed un temperino; i primi servono per accendere qualche sigaretta che la provvidenza fa capitare a portata di mano, il secondo è un oggetto che non serve solo a tagliare ma può essere cacciavite, può far da leva ed è fatto di metallo sottile che s’infila in qualsiasi pertugio. Essi accesero un fiammifero e notarono che la seconda stanza aveva una porta chiusa che faceva trapelare qualche filo di luce e v’era anche un altro uscio che conduceva in una terza stanza. Nel secondo locale non c’era scatolame, ma nel terzo si. Fa dato uno sguardo alla serratura e si notò che si poteva manomettere, era di tipo antico con gli ingranaggi a portata di mano, non c’era la calotta di protezione. Usando, quindi, la lama del temperino sulla lamina che contrasta lo scorrimento del ferro di chiusura, si poteva aprire la porta. Uccio voleva già provare ad aprire azionando la serratura pur senza spalancare la porta; però desistette, impegnato, come fu, a lanciare al cielo particolari epiteti non ripetibili perché si era scottato le dita; la fiamma, infatti, aveva consumato tutto il fiammifero. Quindi per risparmiare fiammiferi tornarono al primo locale in cui v’era un po’ di luce naturale e aprirono uno scatolone; dentro v’erano, ben impilate, altre scatole con una scritta indecifrabile. Ma non era tempo di darsi alla lettura, quei luoghi non erano aule scolastiche. Il vero contenuto era costituito da rotonde scatolette metalliche di lucido per scarpe; non ci volle tanto a capirlo: la forma del contenitore, la laterale chiavetta a forma di elica da usare per l’apertura, il nero colore del contenuto e l’olezzo non portavano a dubbio alcuno. Passarono all’altra pila di scatole: qui il risultato fu quasi similare, un dubbio sorse nel vedere il colore, era un bianco sporco tendente al giallo chiaro; ma la puzza non era nota, non era catalogata fra le loro conoscenze. Assaggiarlo non era opportuno; è pur vero che le papille gustative agiscono più e meglio di un ottimo analista chimico, ma si rischia di disturbarsi tanto che anche un’abbondante sputata per terra non sarebbe bastato. Uccio toccò quel contenuto con le dita e lo sentì grasso e untuoso, la scatoletta aperta fu lanciata via con stizza. I ragazzi si dissero che pure l’esercito si prende le fregature, cioè era stata rifilata una merce avariata; non avevano, infatti, capito che era grasso per tenere morbido il cuoio delle scarpe. Fu gioco forza esplorare la terza stanza usando i fiammiferi. Decisero di fare in fretta perché gli zolfanelli non abbondavano. Anuccio subito accese un fiammifero, sfregandolo sul muro, poi cautamente imboccò l’uscio della terza stanza; ma si fermò di botto tanto da essere tamponato da Uccio che lo seguiva da presso e l’urto scosse l’amico il cui inconsulto movimento fece tremolare la fiamma del fiammifero, come se stesse per spegnersi. Cosa era successo? La stanza era colma di scatoloni ammucchiati a gruppi! L’abbondanza aveva tanto colpito il ragazzo da immobilizzarlo. Ma durò un attimo, il cuore riprese a pulsare ed il sangue a scorrere con maggior vigore. Uccio si tirò seco il sacco e con il temperino squarciò il primo cartone cioè quello che aveva più a portata di mano, mentre Anuccio si procurava dalla tasca altri fiammiferi par una eventuale bisogna ed indicava al compagno che verso l’altra parete c’erano scatoloni già aperti. Occorreva solo far bottino! Gli occhi dei ragazzi si abituarono subito a quella luce fioca, ora la visione della stanza era più nitida e completa. Anuccio notò in un angolo delle candele sparse per terra e si diresse in quella direzione. Ciò facendo copriva il fascio luminoso e toglieva luminosità ad Uccio, ma non impediva a questi di svuotare nel sacco buona parte di uno scatolone che conteneva scatolette di sardine sott’olio, come fu dopo appurato. Sembrava che ci fosse un gruppo d’azione con due comandanti che davano perentori ordini: “Fammi luce!”; “Prendi le candele!”; “Fammi finire qui!”; “Non prendere scatolette tutte uguali!”. Se ci fosse stata una macchina da presa avrebbe inquadrato Anuccio mentre, presa da terra una candela, l’accendeva e notava che costà c’era uno scatolone aperto pieno di candele; mentre Uccio aveva infilato nel sacco un bel po’ di scatolette rettangolari e alquanto piatte. La razzia velocemente continuava ed i due ora collaboravano perché la candela era stata fissata su di una pila di scatoloni, come si usa fare dopo aver riscaldato la parte inferiore di essa[12]. I due avevano posizionato il sacco al centro e facevano la spola dagli scatoloni periferici al sacco centrale. Quando il sacco fu quasi colmo provarono a sollevarlo, prendendolo dalle due estremità ma notarono che a malapena riuscivano a smuoverlo. Purtroppo dovevano levare un po’ di bottino e non c’era tempo per la scelta. Versarono per terra la parte superiore del carico ma un bagliore li annichilì. La porta che dava all’esterno si era aperta ed essi non avevano udito niente. Forse il rumore dello scatolame che rotolava per terra, forse l’eccitazione del momento e degli atti che facevano, forse … (ciascuno metta quel che crede) ma sta di fatto che videro comparire un soldato seguito da due civili che trasportavano merci e da un secondo soldato. Tutti erano sorpresi, il primo militare iniziò ad inveire urlando parole incomprensibili e gesticolando, i nostri due alzarono le mani in segno di resa, i facchini posarono per terra il loro carico ed il secondo militare estrasse la rivoltella e si posizionò in prima fila. Avvenne tutto all’unisono, ogni azione indipendente dall’altra. Alle grida entrò di corsa un terzo militare e ciò si rivelò una fortuna perché era l’unico che conosceva l’italiano. Ma mettiamo ordine, riposizioniamo la macchina da presa: il primo militare aveva la chiave della porta e apertala fu il primo ad entrarvi ed essendo il responsabile del m
agazzino inveì per il disordine che i due ragazzi avevano creato; il secondo militare era il capo pattuglia e temendo un attentato, aveva subito messo mano all’arma; uno dei due facchini erano Catallo che appena li vide si mise l’indice in bocca in senso orizzontale morsicandoselo per disperazione, temendo di essere coinvolto per le parole che avrebbero detto i due fedifraghi, l’altro era uno nuovo che conosceva i ragazzi perché in paese tutti si conoscevano indicandosi con la parentela[13] ma dentro di se si chiedeva come avessero fatto ad entrare in quei locali; il terzo militare era l’autista ed aveva questo incarico anche perché conoscendo la lingua, in teoria, poteva chiedere indicazioni ed avere contatti verbali con gli indigeni, però spesso aveva difficoltà a comunicare poiché non conosceva il dialetto, lingua ufficiale del luogo. I ragazzi dopo il primo spavento non si persero d’animo, strinsero le meningi per trovare una soluzione; Uccio con le mani alzate gridò. “Siamo cattolici!”, ma di rimando, qualche attimo dopo, Anuccio corresse: “Siamo cristiani!” Le parole furono udite da tutti ma nessuno capì il significato; per chi non conosceva la lingua era normale, ma per gli altri era poco intuibile il nesso logico. Il capo pattuglia urlò degli ordini che furono subito tradotti in italiano: ai ragazzi fu imposto di svuotare il sacco e rimettere al loro posto lo scatolame, anzi tutto doveva tornare in ordine, mentre i facchini dovevano continuare il loro lavoro. I nostri giovani protagonisti iniziarono il loro lavoro scoprendo che in quei locali esisteva l’energia elettrica perché uno dei militari accese la luce nei tre locali. Essi cercarono di sistemare quel ch’era sparso sul pavimento, cioè infilarono tutto ciò che c’era di sfuso negli scatoloni senza tener conto dell’esatta ubicazione dello scatolame perché non conoscendo lingue straniere non erano in grado di leggere le etichette e soprattutto non tennero conto della forma cioè non vollero prendersi fastidio (come si usa dire). Però durante questo che chiamiamo lavoro, seppur sottovoce si parlavano anzi si beccavano vicendevolmente, come i polli di manzoniana memoria che Renzo porta al dottor Azzeccagarbugli. Il contendere riguardava l’uso del vocabolo “cattolico” anziché “cristiano”. Anuccio insisteva sul fatto che quelli cioè i soldati, essendo stranieri, erano cristiani protestanti. Uccio affermava che lui era cattolico e che era meglio non mentire così pacchianamente di fronte al nemico armato. Ma cosa c’entrasse la religione in questo tentativo di furto, non è dato saperlo. Lo zio Catallo una sola volta deviò dal suo percorso abituale di lavoro di scarico per avvicinarsi ai ragazzi e digrignando i pochi denti che gli erano rimasti in bocca disse: “Che cosa avete combinato?!” Le testuali parole sono irripetibili ma il senso è quello citato.   

Il narratore non è in grado di dire quale processo mentale fosse passato per la testa di Uccio quando aveva gridato di essere cattolico; Anuccio poi aveva abbozzato un ragionamento per giustificare la correzione in cristiano. Una ipotesi verosimile è questa: Uccio aveva come maestro di scuola un prete che, impartendo le dovute lezioni miranti a saper leggere e scrivere e far di conto, insisteva sul concetto religioso della fratellanza fra gli uomini e quindi fra i popoli. Egli, poi, aveva visto il parroco dell’unica parrocchia del paese recarsi presso il comando di quei militari ed una volta lo aveva visto anche sorridere e salutare cordialmente quello che l’aveva accompagnato all’uscita del palazzo requisito. In vero c’è che il sacerdote cercava di avere buoni rapporti con tutti e si recava dai militari occupanti per elemosinare qualche vettovaglia da poter distribuire ai poveri del paese. Comunque sia il ragazzo pensò ad parroco per un aiuto. Come scritto prima il ragionamento di Anuccio era più lineare; egli, studiando la storia, era rimasto impressionato dalle sanguinose guerre di religione e forse ancora il suo maestro, laico, aveva parlato del fanatismo religioso. Comunque sia essi avevano una tesi difensiva discordante che occorreva unificare perché, colti in flagranza di reato, dovevano giustificarsi per non essere condannati ovvero puniti.

Non appena ebbero sistemato tutto lo scatolame, in altri termini sgomberato lo spazio centrale da qualsiasi oggetto in modo che tutto sembrasse in ordine, essi furono condotti o meglio spinti al primo piano dell’edificio. Il soldato armato proferendo parole per loro incomprensibili indicò la porta di uscita nel cortile, poi quella per salire e terminata la scala si trovarono in un’ampia sala che aveva altri due usci ed una finestra, tutti posti su pareti diverse. Un uscio aveva la porta aperta da cui si intravedeva il prosieguo delle stanze poste in fila, una seguiva l’altra; l’altro uscio aveva la porta chiusa. Il soldato sempre con la pistola puntata aprì la porta e indicò loro di entrare; ormai non parlava più perché s’era convinto che la sua lingua era incomprensibile ai suoi prigionieri, si limitava ad indicare con la mano libera il da farsi. All’interno di questa stanza c’era un letto disfatto e della biancheria intima gettata per terra. Questo è quello che colpì primariamente i ragazzi, l’inventario di tutto il resto lo fecero dopo. Il militare tolse la chiave dalla toppa della facciata interna della porta, farfugliò qualcosa fra sé e senza urlare, uscì e richiuse con la chiave. Per Anuccio e Uccio questa era la loro galera. Essi subito notarono che c’era una finestra e scoprirono che dava nel cortile; videro che stavano due sedie colme di biancheria e indumenti militari; in un angolo erano allineati due paia di scarpe ed infine videro un armadio chiuso, che chiedeva di essere perlustrato. Dopo aver fatto questa veloce rassegna visiva, cominciarono a parlarsi. Dovevano agire perché non era nella loro indole stare fermi. Cominciarono con il riferirsi vicendevolmente quel che vedevano; ciò sembra pleonastico, tutti e due avevano una vista perfetta: visus dodici decimi; però ciascuno coglieva un particolare diverso da quello dell’altro e soprattutto utile ad una azione diversa da quella pensata dall’amico. Decisero che dovevano prima di tutto pensare a come uscire da quella incresciosa situazione. Essi non sapevano quanti soldati ci fossero in quel palazzo, né che tipo di pattugliamento fosse effettuato. Convennero che dalla loro parte stava il fatto che una eventuale via di fuga era attraverso il cortile e magari attraverso il deposito; cioè un percorso noto, era quello che avrebbero fatto con il bottino. Nessuna riflessione sul come discolparsi se fossero stati interrogati; prima avevano usato la religione, così d’intuito, anche se dopo ne era scaturito una divergenza fra di loro. Continuare a discutere poteva innescare un conflitto religioso che generalmente sfocia in reciproche scomuniche ed anatemi cioè in separazioni, proprio adesso che urgeva ferrea unione. Fu espressa, quasi all’unisono, l’idea che se ci fosse stato tempo avrebbero visionato quello che stava in quella stanza e l’occhio cadeva spesso sulle scarpe, là incolonnate come i reparti di un esercito (anche se le paia erano solo due). In quel tempo il problema delle scarpe per camminare era sentito quanto quello del cibo per mangiare; procurarsene un paio era una utopia e ci si arrangiava riparandole e passandosele in famiglia da uno all’altro. Certamente andando in campagna si trovava un frutto, maturo o acerbo, della verdura, amara o dolce, ma niente scarpe.

Non era passato tanto tempo da quando erano lì rinchiusi che udirono il rumore della serratura e la porta si aprì. Entrò un giovane soldato biondo ma scuro in volto perché adirato, che fulminò con una occhiataccia i due ragazzi; egli bofonchiava abbondantemente mentre sistemava il letto, ma essi non capirono un’acca anche se le parole udite sembravano piene di acca e di cappa con tanti suoni gutturali. Uccio e Anuccio si posizionarono in un angolo silenziosi e timorosi, temendo che si potessero scatenare le ire del militare. Cos’era successo? Il biondo, in servizio a quel comando, aveva scelto per sé una stanza e di sua iniziativa si era distaccato dal resto della truppa, in vero non numerosa, che alloggiava altrove. Quindi curava la sua stanza a piacimento, non sottoposto ai quotidiani riti di una camerata militare, nessuno aveva obiettato alla sua iniziativa perché non aveva danneggiato alcuno; ma adesso c’era una necessità. Il soldato che aveva catturato i due fedifraghi era più anziano e fra militari: l’anzianità fa grado. Egli aveva creduto opportuno sistemare i prigionieri in quella stanza in attesa che il comandante, reso edotto dell’accaduto, avesse preso le sue decisioni. Fra l’altro. aveva visto tutto quel disordine e certamente aveva fatto un cazziatone[14] al biondo prima di avvertirlo dello sgombero. Sta di fatto che il malcapitato soldato si caricò di quanta più roba possibile e uscì dalla stanza per destinazione ignota ai ragazzi. Essi erano stati muti ma attenti ad ogni azione ed evenienza. Non avevano, infatti, udito alcuno scatto della serratura, cioè il soldato con gli arti superiori impegnati aveva tirato la porta con un piede senza poter chiudere con la chiave. Essa doveva essere nella toppa, all’esterno della stanza, quindi…. Quindi, come dicono i giocatori di biliardo: calma e gesso (ma quest’ultimo vocabolo non c’entra). Anuccio e Uccio aspettarono che il militare si fosse allontanato, udendo attentamente il suo calpestio, e cautamente aprirono la porta guardando a destra e a manca, quindi sfilarono la chiave e la reinfilarono dalla parte interna. Convennero che quello non era il momento di evadere, sia perché poteva tornare il soldato a prendere altra roba, aveva lasciato le scarpe e ciò che stava nell’armadio, ed anche perché quella era un’ora centrale della mattinata con tanta gente in giro. Per loro fortuna non avvenne niente, si udiva gente camminare per le stanze, ma per essi nessuna visita. Ebbero il tempo per ispezionare l’armadio e stranamente, per loro, trovarono appesi abiti femminili fra cui due cappotti e due pellicce, pensarono tristemente a mamme e sorelle; forse erano stati lasciati dalla famiglia proprietaria del palazzo che ottimisticamente sperava in un presto rientro.

Si avvicinava oppure era già giunto mezzogiorno, fu l’orologio dello stomaco a segnalarlo, ma non c’era niente da mettere sotto i denti. Purtroppo per essi, il cervello era momentaneamente inattivo poiché non avevano cosa fare, fu quindi interessato dallo stomaco, ma per poco. Udirono delle voci provenire dal cortile, cautamente si avvicinarono alla finestra e videro Catallo e l’altro vastaso assieme al soldato con la mania dell’ordine e responsabile del deposito ed a quello che parlava italiano. Capirono che il loro lavoro era finito e che gli italiani potevano andare via ed infatti si infilarono nella porta che conduceva al primo piano. Poco dopo si sentirono nella stanza adiacente, quasi dietro la porta e capirono distintamente che veniva detto agli italiani di andare via e ripassare nel pomeriggio per il pagamento perché il comandante era assente e soprattutto seppero che i soldati sarebbero andati a consumare il loro rancio altrove, nell’edificio assegnato loro come dimora. Anuccio e Uccio quasi quasi non credevano alle loro orecchie, era giunto il momento per tentare la fuga. Stettero in completo silenzio per udire meglio ogni minimo rumore; quando ogni vocio ed ogni tramestio cessò, cautamente, uscirono portandosi seco le scarpe che giacevano inoperose. Chiusero la porta di quella che era stata la loro cella con la chiave che portarono via e imboccarono le scale. Uscirono nel cortile, si infilarono nella porta del deposito, sempre non chiusa a chiave; uno si diresse all’interruttore della luce e l’altro riaccostò la porta non appena le lampadine si furono illuminate. Guardarono mestamente tutto il ben di Dio lì depositato, purtroppo non avevano un contenitore utile al loro bisogno, gli scatoloni erano troppo vistosi; il sacco non era più in loro possesso; le tasche non avevano alcuna capienza, stipate com’erano di altre cianfrusaglie; riuscirono a mettere un po’ di marmellata nelle scarpe perché era confezionata a piccoli parallelepipedi. Ma, heureka! Presso la porta d’ingresso, che per loro era d’uscita, c’era un sacco. Che fosse quello loro oppure un altro, non importava, occorreva cogliere l’occasione. Le quattro mani sembravano otto, le quattro gambe erano più veloci del vento; si faceva la spola dagli scatoloni al sacco. Quando fu sufficientemente pesante a loro giudizio, aggiunsero le scarpe e via alla porta. Qui ancora una stranezza, la serratura di chiusura non era alloggiata nel suo alveo, cioè la porta era solo accostata. Ma non c’era tempo per azzardare ipotesi o analizzarla per notare manomissioni, i ragazzi presero il sacco dalle due estremità e uscirono. Esso era pesante ma quel dolce peso per le loro braccia era una piuma. Appena fuori chiusero la porta e via di corsa costeggiando il muro per essere il meno possibile visibili. Stavano doppiando l’angolo della casa di comma Nunziétte che si scontrarono con un uomo che, come loro, costeggiava troppo il muro. I tre rimasero allibiti tanto da non proferir parola alcuna. Era l’altro vastaso che collaborava con zio Catallo. Di certo sappiamo donde venissero e dove andassero i due ragazzi ma del terzo uomo non sappiamo niente e così rimaniamo perché noi ci facciamo i fatti nostri.


[1]Il racconto è ambientato a Noci (Ba).

[2]  Diminutivo del nome Sebastiano

[3]  Diminutivo del nome Vito

[4]  Forma dialettale del nome Cataldo

[5]  In dialetto (come anche a Palermo) con questo vocabolo è indicato un facchino, forse deriva dal greco bastazein . Il vocabolo è anche usato in senso dispregiativo perché queste persone spesso indaffarate, non appena riuscivano a raggranellare qualche spicciolo, lo spendevano in cantina. Ma non tutti gli uomini sono uguali.

[6] Traduzione dialettale di “carne”, perché le scatolette contenevano carne, e “beef” nel senso di carne bovina.

[7]  Traduzione: zitto zitto, in piazza. Nel senso che in piazza per quanto si parli sotto voce, il detto è udito da tutti.

[8]  Traduzione: comma sta per comare, Nunziétte è il diminutivo dialettale di Nunzia che poi viene da Annunziata, nome dato per ricordare l’Annunciazione dell’Angelo a Maria Vergine, che si festeggia il 25 marzo cioè 9 mesi prima di Natale.

[9]  Traduzione: lattatore sta per imbianchino, il vocabolo viene da latte perché gli imbianchini usavano latte di calce per pitturare di bianco le mura: Minguccio è diminutivo dialettale di Domenico, dopo averlo trasformato in Mingo e non Minco per non farlo derivare da minchione.

[10]  In paese con giardiniere è indicato l’ortolano.

[11] I ricchi proprietari non erano mai chiamati per nome, ma si premetteva sempre il “signore”. Il diminutivo veniva dato in gioventù, per indicare il figlio del padrone, e tolto alla tomba per diventare buonanima anche se considerato un dispotico tiranno.

[12] Chi non è aduso a queste operazioni chieda lumi ad un sagrestano.

[13] Quando si incontrava una persona, specialmente se giovane, si chiedeva :”A chi appartieni?” e si rispondeva elencando l’intera parentela con il soprannome piuttosto che con il cognome.

[14]  Termine militare o quasi per indicare un solenne rimprovero.

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