Brigantaggio e secessionismo (1.)

1861-2011 – 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, Brigantaggio e secessionismo (1.)

di Maurizio Nocera

Mi domando: al Nord quanto c’entrano più i Savoia? E a Sud quanto c’entrano più i Borbone? Comunque la si pensi, comunque la si giri, si tratta di due modelli monarchici dannosi al popolo italiano. Due modelli di stato che cozzano con qualsiasi tipo di modernità. Ecco perché c’è da riflettere sul fatto che, nel Meridione e tra di noi, circoli una romantica vulgata sulla storia del brigantaggio, che vuole i briganti, soprattutto quelli di origini contadine, comunque buoni e dalla parte giusta, che si comportarono come si comportarono perché indotti da situazioni particolari. In molti casi questo è vero, perché quanti non furono i braccianti e i contadini poveri che si trovarono involontariamente coinvolti nel fenomeno. Questo dato di fatto però non ci deve indurre a interpretare il fenomeno del brigantaggio come un evento progressivo, perché questo non corrisponde a verità storica.

I briganti oggettivamente combatterono una battaglia sotto un vessillo sbagliato che, in quel momento, rappresentava il peggio della reazione politica in Europa. È stato dimostrato che la strumentalizzazione venne messa in atto anche da quei signorotti borghesi ex feudatari reazionari, già essi stessi maltrattati e stanchi del governo borbonico, quei cosiddetti “galantuomini” e manutengoli, che tentarono di giocare un ruolo di contrasto alla nascita dello stato unitario italiano, spezzato solo dal moto risorgimentale che li spazzò via assieme a qualsiasi altro tipo di conservatorismo e attesismo. Su questo terreno, Valentino Romano ha dato un importante contributo di chiarificazione storica, smascherando il ruolo di quei doppiogiochisti.

 

Le “fotine dei briganti”

Ovviamente, va ribadito il concetto che non ci sono dubbi sull’efferatezza e crudeltà antipopolare degli eserciti sabaudi. Wladimiro Settimelli, direttore di «Patria indipendente», periodico della Resistenza e degli ex combattenti, a proposito di un servizio fotografico [le famose foto dei briganti uccisi, esposte in mostra a Torino e pubblicate nel catalogo “Brigantaggio Lealismo e Repressione” (Gaetano Macchiaroli editore, 1984)] scrisse: «In queste povere, misere, piccole fotografie di personaggi, “banditi”, e ufficiali, fucilati e impiccati, non c’è sventolio di bandiere e non arrivano gli echi delle bande militari che sbuffano o suonano per “l’Italia nuova”, “l’Italia unita”, “l’Italia di tutti”. C’è invece un mondo terribile, durissimo, fatto di repressione e di sangue, di sadiche e terribili manipolazioni di corpi, di falsi fotografici incredibili e sconvolgenti. […] Arriva il momento della repressione senza quartiere e senza pietà: si bruciano interi paesi e si massacrano parenti e amici dei “banditi” [ns virgolette]. Viene punita anche la popolazione che non aiuta i bersaglieri a trovare i ricercati. Provincia dopo provincia si impone lo stato d’assedio che permette tutto e oltre ancora. Le esecuzioni sono pubbliche e senza appello. Quanti morti? Diverse migliaia tra banditi, popolani e ufficiali e soldati del regio esercito. Cifre ufficiali non ce ne sono. In pratica, la verità è stata sempre nascosta. […] Molto spesso i corpi dei “banditi” uccisi sono legati, in piedi, ad un albero e hanno lo schioppo in mano. / Dovevano, evidentemente, sembrare vivi. Altri sono seduti da qualche parte e ancora una volta legati nelle posizioni più assurde. Corde e cinturoni appaiono quasi sempre nascosti. Vengono organizzate anche terribili messe in scena. Il corpo di un bandito già morto viene posato su una sedia mentre, accanto, un sacerdote benedice. Insomma, come per far vedere che l’assistenza religiosa non è mancata. In altre “fotine” il bandito, come al  solito, è morto, ma qualcuno ai lati degli occhi ha sistemato stecchini di legno per mantenere gli stessi occhi aperti. Furono i cacciatori di taglie a far scattare quelle foto orrende? […] Le “fotine” raccontano, raccontano. Un pezzo di storia d’Italia è stato tenuto da parte, ma eccola qua. Anche tutto questo è Risorgimento e racconta, comunque, la nascita dell’Italia unita e quel che costò al Sud» (cfr. «Patria indipendente», Le Fotostorie, 10 dicembre 2006).

Ovviamente non vado oltre questo giudizio sulle note e tristi vicende del brigantaggio. Peraltro Valentino Romano e la Casa editrice di Lorenzo Capone di Cavallino, con i loro libri, hanno messo a disposizione degli studiosi del fenomeno una messe notevole di volumi, fra i quali quelli scritti o curati anche dal compianto Gianni Custodero, autore tra l’altro de “Il mistero del brigante. Un enigmatico giallo nell’Ottocento” (Capone editore, Cavallino 2008).

Il brigantaggio dopo l’unità

Se concordo con quanto sul brigantaggio ha scritto Wladimiro Settimelli, non posso evitare di menzionare quanto sul fenomeno, il lucano Franco Molfese (1916-2001), per decenni vice direttore della biblioteca della Camera, ha scritto su uno dei testi fondamentali, “Storia del brigantaggio dopo l’unità” (Feltrinelli, Milano 1964), nelle cui conclusioni, afferma che «nel Mezzogiorno continentale, dal 1860 in poi, si giuocò una “partita a tre” tra moderati, democratici e reazione borbonico-clericale» (p. 405). Egli la chiama reazione borbonico-clericale e, non a caso, perché, sul fenomeno del brigantaggio, si chiede: «fu una “guerra contadina”? Fu soltanto una reazione alla repressione statale? Fu un autentico movimento di classe? […]. È difficile […] negare al brigantaggio il carattere di un movimento di classe. Si tratta piuttosto di stabilirne la portata e i limiti, il che significa anche accettarne la reale autonomia. […]. Il brigantaggio si presenta […] come la manifestazione estrema, armata, di un movimento rivendicativo e di protesta che si eleva fino a rozze forme di lotta di classe […]; d’altra parte, non è una “guerra contadina” contro lo Stato unitario. Sotto il profilo politico-militare, non si centralizza mai e non conduce mai grandi azioni di masse considerevoli con obiettivi politici e strategici. […] Il brigantaggio, dal punto di vista militare, è la sola “guerra” che la classe contadina riesca a condurre quando lotta da sola: la guerriglia priva di direzione centralizzata, per obiettivi limitati e con aspetti anarcoidi. [… Tuttavia] in quella lotta disperata, condotta in forme rozze e primitive, corrispondenti alla loro arretratezza e alla loro insufficiente maturità politica e sociale, i contadini meridionali dettero prova di combattività e di energia indomite che, dopo la sconfitta, si riversarono sulle tribolate vie dell’emigrazione. Indubbiamente, tra i briganti non pochi furono quelli che la miseria, l’ignoranza, la mancanza di un lavoro certo, e anche gli istinti perversi, spinsero a malfare e a porsi fuori della legge comunemente accettata per soddisfare ciechi impulsi di vendetta e di rapina. Ma molti altri furono posti, dalle circostanze e dalla società in cui vissero, dinanzi all’alternativa di vivere in ginocchio o di morire in piedi. La loro scelta preannuncia, in un certo senso, le lotte sempre più civili e più consapevoli che i contadini del Sud avrebbero condotto per la propria emancipazione nei decenni che sarebbero venuti» (pp. 406 e sgg.).È possibile essere d’accordo con questo giudizio storico-politico di Franco Molfese? Io lo sono, perché ritengo che ancora oggi quelle sue conclusioni reggono al vaglio della storia vissuta. Da esse traggo anch’io delle mie conclusioni. Queste: il brigantaggio non fu un movimento totalmente autonomo, quindi fu succube di forze esterne e, fra tutte, succube di quella che Molfese chiama la reazione borbonico-clericale; conseguentemente a questa sua dipendenza, il grande brigantaggio non ebbe mai obiettivi politico-strategici chiari. Di fatto, l’unico obiettivo politico, se così lo possiamo definire, fu quello della restaurazione della casa regnante dei Borbone. Ma sappiamo che questo non poteva essere più un obiettivo vincente. Per questo e per non pochi altri motivi, quel movimento contadino meridionale di riscatto della propria dignità identitaria, passato alla storia dei vincitori col termine dispreggiativo di brigantaggio, non riuscì a vincere e fu sconfitto sul campo e sulle pagine dei libri di storia. Comunque, io non sono fra coloro che di questa vittoria truculenta dei Savoia si fa vanto, anzi, al contrario, sento grande pietà per quei tanti nostri poveri avi che furono massacrati ingiustamente. Detto questo, però, non cado nella trappola della reazione: apro gli occhi e stappo le orecchie e cerco di vedere da quale parte soffia il vento, e se è un vento neomonarchico che porta tempesta, cerco di correre ai ripari.

Anche il nostro conterraneo Aldo De Jaco ha scritto pagine interessanti sul fenomeno. Nell’introduzione al suo libro “Il Brigantaggio meridionale” (l’Unità-Editori Riuniti, Roma 1979), scrive: «Questa raccolta di scritti [sul brigantaggio …] tende […] a salvare, mettere in luce nella loro autenticità dei testi di opposta origine [Fortunato – Crocco] che, insieme composti, formino un mosaico veritiero […] sul tragico periodo del brigantaggio di massa nel Mezzogiorno. Non s’intende così contribuire a porre una bella lapide dove è la fossa senza nome del brigante o chiedere per lui compassione o “sistemare” la sua vicenda nella storia d’Italia, bensì […] disseppellire i resti e considerare di che ferite la sua vita è stata spenta, e arrivare da questo al come e al perché. Tutto questo ci sembra utile per salvare, rinverdire dei tragici ricordi e da essi […] trarre impliciti insegnamenti per nuove generazioni cui le condizioni del paese pongono ancora oggi quesiti che alla formazione dell’Unità d’Italia si collegano» (p. 21).  Interessa anche a noi la domanda che poi egli si pone: «Chi erano dunque i briganti?» (p. 27). La definizione di De Jaco è anch’essa di tipo romantico, e questo non come dato riduttivo. Per lui i briganti erano persone che, dopo aver compiuto un grave reato, furono costretti alla macchia e da quel momento iniziava il loro percorso appunto di briganti, di banditi amati dalla povera gente quando ad essa facevano bene, e odiati dai ricchi che, in un modo o nell’altro, si trovarono ad avere a che fare con le loro scorribande. Ci fu chi allora vide i briganti come dei coevi Robin Hood. Oggi però sarebbe un bel guaio vederli come il bandito mafioso Salvatore Giuliano.

per gentile concessione de Il Paese Nuovo

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5 Commenti a Brigantaggio e secessionismo (1.)

  1. Benissimo, vedo con soddisfazione che si parla di quelle vicende storiche, a mio avviso molto importanti per capire molte cose dell’Italia di oggi. Detto questo, chi si richiama al così detto “brigantaggio” o chi riporta in auge Francesco II e i Borbone, non lo fa sicuramente per nostalgia di quel sistema o di quegli “anni infami”, ma lo fa con quel senso di riscoperta della propria storia, che a livello nazionale è stata nascosta e travisata, iniettando nei cervelli delle varie generazioni di genti meridionali, quasi il disprezzo, verso se stessi e verso la propria terra, vissuta con vergogna.
    Pertanto, avanti con la riscoperta della notra storia, perchè noi nell’ambito di questa Nazione siamo discendenti delle DUESICILIE e all’interno di essa siamo SALENTINI (nulla a che vedere con Veneti, Lombardi o Savoiardi) e ne dobbiamo essere orgogliosi e impegnarci perchè il meridione d’Italia riscatti il proprio ruolo all’interno della nazione.

    • sull’argomento ci torneremo ancora con molti altri saggi che ci hanno messo a disposizione e che, per ovvi motivi, scaglioneremo nel tempo

  2. Post molto interessante. Non commento nulla perché non ne so nulla e non sono di quelle zone. Mi sarà utle anche per il prossimo anno scolastico. Seguo!

    • CaroTemitope. E ora ti faccio pensare! sicuramente se sei su queste pagine credo che tu sia Salentino come me quindi “meridionale”, il dramma purtroppo è proprio nel tuo commento (che poi dovrebbe essere il commento del 99% degli uomi e delle donne del meridione d’Italia) e di questo io non do la colpa a te come a tanti altri, purtroppo questo tuo “non sapere” è frutto di quella che io chiamo la distruzione e l’annientamento delle menti di noi meridionali, pianificato e pervicacemente portato avanti prima dall’amministrazzione SAVOIARDA e poi continuato dallo stato Italiano, in primis attraverso la scuola, che ha volontariamente rimosso dai propri programmi la conoscenza proprio di quelle particolari vicende storiche, rilegandone il tutto ad una serie di “GUERRE DI INDIPENDENZA” (ma indipendenza da chi?????) studiate in sequenza su appena due paginette di libro!

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