Un rifugio stagionale salentino: la pagghiàra (terza parte)

 

campagna salentina con costruzione a secco (ph M. Gaballo)

CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

 

Un rifugio stagionale salentino: la pagghiàra  (terza parte)

 

  LA SERPE  SVUOTA LE MAMMELLE DELLA PUERPERA

 

 di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Nel suo intrico di rami, foglie e paglia, la pagghiàra offriva nascondiglio facile a bisce e a serpi che, sicure di potersi ben mimetizzare, spesso la sceglievano a loro tana. Soprattutto la sacàra, rettile descritto come particolarmente ghiotto di latte e perciò irresistibilmente attratto dal suo odore.

Dato il ritmo di procreazione allora in uso, che poteva dirsi biennale se non addirittura annuale, nelle pagghiàre non scarseggiavano certo i neonati e di conseguenza le donne in fase di allattamento: donne prosperose, spesso costrette a portare attorno al petto li filàzze, ossia due strisce di tela contenenti uno strato di bambagia atta ad assorbire il latte che, sollecitato dai movimenti impressi dal lavoro, traboccava dalle loro mammelle. Punto di orgoglio per le contadine, che giudicando tanta abbondanza segno visibile di particolare predilezione divina, si compiacevano di aggiungere alla definizione “filàzze” il patronimico “ti la Matonna”, nella convinzione che la Vergine Maria, per essere la benedetta fra le donne, chissà quale portentosa monta lattea aveva avuto e quindi si era trovata costretta, come loro, a indossare li filàzze.

Se da un lato si vantavano di tanto privilegio, a volte facendolo amaramente pesare nei confronti di qualche mana ssùtta (mamma asciutta, priva di latte), dall’altra però ne lamentavano i rischi, prendendo alla lettera il proverbio “Cinca latte énne / ti latte fete” (“Chi latte vende / di latte puzza”). In effetti, di notte, fra eruttini del neonato, emanazioni epidermiche dell’allattatrice e filàzze, che unitamente agli altri indumenti venivano appese a lli càpure ti furcéddhre (agli speroni dei tronchetti portanti della costruzione, fatti capitare all’interno per usarli appunto come appendiabiti), l’ambiente piccolo e male arieggiato della pagghiàra si saturava di afrore latteo. Esalazioni grevi che le donne cercavano di contrastare appendendo in alto, là dove i tronchetti convergevano a chiusura di volta, un panierino con dentro un bicchiere colmo d’aceto e spargendo qua e là foglie di basilico, utili anche a tenere lontane le zanzare. Né mancava chi, a ulteriore precauzione, sistemava all’imbocco della pagghiàra un recipiente pieno di cenere di mortella, alla quale si attribuiva la spiccata proprietà di assorbire i puzzi emanando in pari tempo un gradevole odore. Accorgimento suggerito dall’uso che di detta cenere si faceva nelle stanze degli ammalati gravi, sotto il cui letto si aveva la cura di deporne una cardarélla (caldaretta) affinché alleggerisse l’ambiente dalle sgradevolezze olfattive determinate da piaghe purulente, urine, aliti, sudori, ecc. Antico rimedio collaudato durante le veglie funebri, quando, in caso di esalazione da decomposizione, si circondava il tavolo-catafalco con limme e llimmicéddhri (bacili e piccole conche di terracotta) pieni di cenere reperita presso i forni pubblici dove,  per avere pane profumato, abitualmente si bruciavano rami di mortella.

La presenza di un neonato nelle pagghiàre metteva in apprensione anche i capifamiglia, i quali, pur fingendo di non dare peso ai timori delle mogli, anzi a volte prendendole in giro per quelle che definivano “fìsime ti fémmine ca no tténinu cce ppinsàre” (“manie di donne che non hanno a che pensare”), si sentivano in dovere di concorrere alla tranquillità delle notti, ricorrendo a rimedi generalizzati, propri della vita in campagna, quali quello di spargere tutt’intorno alla pagghiàra uno strato di tufo – capace di rivelare, nell’orma delle spire, un eventuale passaggio di serpe -, o bruciare, nell’approssimarsi della notte, un pezzo di cuoio (scarpe vecchie, otri rotti, cavezze inservibili), il cui puzzo metteva in fuga i rettili.

Non sempre però questi rimedi risultavano efficienti: la sacàra , per essere cummàre ti lu tiàulu (comare del diavolo), la sapeva lunga, e il suo comportamento, descritto come frutto di un ragionamento preciso, raggiungeva vertici paradossali, purtroppo pienamente godibili solo se assunti in diretta, ossia attraverso il coloristico resoconto dialettale che le vecchie contadine facevano dell’avventura notturna.

Acciambellata nel punto più impenetrabile allo sguardo, la signùra cacciòppula (la signora che per attestare la sua autorità si erge come carciofo fra le erbe) attendeva che la notte scendesse e la famiglia tutta, gravata da un’intera giornata di lavoro, piombasse nel sonno. La stanchezza era infatti il laccio traditore che giocava il suo ruolo anche sull’istintiva vigilanza della madre: dopo avere sistemato il proprio capezzolo nella bocca del poppante e arcuato il braccio per stringerlo a sé e quindi mantenerne il contatto, anch’essa cedeva al risucchio del sonno, sicché non avvertiva  lo strisciare della sacàra  che, “jàppiti jàppiti” (muovendosi al rallentatore per non destare sospetti), abilmente si faceva strada nel groviglio dei corpi, stesi per terra, l’uno accanto all’altro, sul semplice strato di paglia che fungeva da letto.

Scénnu sempre a strampìgna ti ndòre, misciàzza comu gghéra” (“Andando sempre a pista di odore, maestra di furbizia com’era”) riusciva a inserirsi fra mammella e neonato, e dopo avere con mosse accorte staccato il piccolo dal seno materno, gli infilava nella bocca l’estremità della sua coda, affinché non avesse a piangere e svegliare i genitori. Messo a tacere l’innocente, “éntre mia fatte capanna” (“ventre mio allargati come capanna”), si attaccava al seno della donna e, “sapénnu ca li campane sònanu a ccòcchia” (“sapendo che le campane suonano appaiate”), per meglio rimpinzarsi, passava dall’una all’altra mammella. “Sulu topu ca ja lliccàtu piàttu e ffirsòra lassàa

lu campanàru e a scanzu ti scarde si la tìa ti pete” (“Solo dopo aver leccato piatto e padella abbandonava il campanile, e a scanso di lische se la dava di piede”, cioè solo dopo aver spremuto l’ultima goccia di latte si staccava dal petto della donna, e a scanso di rischi si allontanava scappando).

     Privato del succhiotto-coda, che fino a quel momento lo aveva tenuto quieto, il piccolo esplodeva  in “ritàssi ti nfamàtu” (“strilli d’affamato”), svegliando di soprassalto “ddhra pòra scrucicchiàta ti fatìa” (“quella poveretta spezzata dalla fatica”, cioè la madre) che inutilmente cercava di correre ai ripari: “li menne sua mpinnìanu a cquaséttu, sbacantùte an funnu “ (“le sue mammelle pendevano come calze, svuotate completamente”). Non c’era altro da fare che alzarsi e preparare in fretta e furia nna pupatélla, ossia mettere un pizzico di zucchero in una pezzuola inumidita e con quel surrogato calmare, almeno per poco, la fame della creatura.

Al sorgere del sole,  il primo pensiero era quello di analizzare i contorni della bocca del neonato: “Ci ténta nc’era, còta nc’ìa stata ti certu!” (“Se colore c’era, coda c’era stata di certo!”). Nessuno si faceva venire il dubbio che le macchie di colore trovate sulle labbra potevano essere dovute a qualche grano di terra rossa o frammento di foglia verde, accidentalmente capitati nella pupatélla – preparata in fretta, magari al solo lume di luna – e che attraverso zucchero e acqua si erano fissati sulla pelle. Nel riproporne i particolari, le vecchie giuravano che la causa era da attribuire alle minutissime scaglie che rivestivano l’estremità della coda, nel loro dire paragonabili alla polverina che ricopre le ali delle farfalle.

Sperando si trattasse solo di una visita occasionale, non tutti chiamavano subito lu carmàtu ti santu Pàulu, ma ovviamente, dopo una notte simile, difficilmente la donna riposava tranquilla, “ora e mmumiéntu mmagginànnuse ddhra fìgghia ti puttàna mpìsa  a llu minnìcculu” (“ora e momento immaginandosi quella figlia di puttana appesa al capezzolo”). Se poi, nelle notti successive, le capitava di trovarsi ancora col seno svuotato, la sua paura non aveva più argini:

Subbugghiàta ti sangu e ddi core, ddiscità tuttu lu icinàtu, scamàannu intra lla notte comu jaddhrìna  sicutàta ti la orpe: la sacàra!… la sacàra!… fucìti fémmine! Jutàtime màsculi… pi ll’ànima ti li muérti ccitìti stu tiàulu ca mi ene am piéttu!…

“Agitata nel sangue e nel cuore, svegliava tutto il vicinato, starnazzando nella notte come gallina inseguita dalla volpe:la sacàra!la sacàra!… accorrete donne! Aiutatemi uomini… per l’anima dei morti uccidete questo diavolo che mi viene sul petto!…” (…).

 

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994, (pagg. 74-78)

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4 Commenti a Un rifugio stagionale salentino: la pagghiàra (terza parte)

  1. Ritengo il libro di giulietta verdesca livraghi zein uno dei piu’ belli da me letti una ricerca meravigliosa ottraverso le pieghe di una umanita contadina e delle antiche leggi Che governavano il tempo lento Del salento Di fine ottocento. Peccato che Il libro sia introvabile questo mi spiace avendolo spesso consigliato. Spero presto di leggere altro di lei che da sempre ama Il salento la sua gente e lo dona a gli altri. Con grandissima stima . Leo Ancona

  2. siamo fermamente convinti della validità e della profondità di pensiero di Giulietta Livraghi Verdesca Zain, eccezionale ricercatrice ed antropologa, che trova pochi eguali nel campo. L’aver concordato con il coniuge e nostro amico Nino Pensabene di farne un punto di forza di questo spazio e di riproporla “in pillole” per quanti non hanno possibilità di leggere il libro è per contribuire a rendere il giusto merito alla memoria e all’instancabile attività profusa in tutta la sua vita. Pagine validissime, che tutto il popolo salentino dovrebbe conoscere. Noi facciamo la nostra parte…
    Per quanto ne so il coniuge ha ancora delle copie disponibili e possono essere richieste direttamente a lui, se si ha difficoltà di reperire l’opera.
    Grazie per il commento al signor Leonardo, che ci ha dato occasione per sottolineare ancora una volta l’operato della grande Giulietta

  3. Proprio perchè il testo della Verdesca Zain è difficilmente reperibile, quest’inverno ho provveduto di persona, insieme a Nino Pensabene, a lasciarne alcune copie in due librerie di Lecce, precisamente presso la libreria Adriatica in piazza Arco di Trionfo e presso la libreria Milella, in via Stampacchia (di fronte al Palazzo Parlangeli, alle spalle del Tribunale). Un saluto al signor Leonardo, il cui entusiamo per l’opera di Giulietta ben comprendo! Infine, per venire incontro alla sua voglia di leggere qualcosa di nuovo della stessa autrice, ricordo che sul VI numero di Spicilegia Sallentina, rivista diretta dal medesimo direttore di questo sito, Marcello Gaballo, è già comparso un brano mai pubblicato prima della Verdesca Zain (riproposto anche qui nel sito http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/02/19/la-memoria-narrata-invito-allopera-di-giulietta-livraghi-verdesca-zain/ ); un altro inedito inoltre comparirà nel VII numero della rivista che uscirà a breve! Ma su ciò vi daremo ulteriori dettagli in questi giorni. Seguiteci! ;)

  4. Caro Leo,

    Pier Paolo Tarsi, estimatore dell’opera della Giulietta mia e pertanto anche mio amico, mi ha preceduto fornendole tutte le notizie che mi ero proposto di darle io personalmente.
    Non mi resta che ringraziarla per la stima dimostrataci con tanta benevolenza.

    E grazie anche a te, Paolo.

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