La frisella, regina delle tavole salentine

di Marcello Gaballo

Nelle calde serate estive, dopo aver giocato con i fratellini e con gli amichetti nnanzi ccasa, mia madre invitava al rientro immediato perché aveva già preparato la cena: aggiu ssuppatu li friseddhe. L’ordine era perentorio. Bisognava lasciar tutto, anche la conta del nascondino (“mazzareddhe”), per correre filati al desco dove ci attendeva una gustosa e variopinta frisella. Ritardare avrebbe significato trovare nel piatto una molliccia e inzuppata pietanza, disgustosa, che difficilmente poteva mangiarsi con le mani.

Per chi non è salentino diciamo subito che l’arcinota frisa o frisella (friseddha) può paragonarsi ad una galletta secca circolare, che va bagnata in acqua fredda per poterla consumare. In realtà essa è pane casereccio, cotto due volte nel forno di pietra, dopo averla tagliata in due in senso orizzontale.
Alimento “povero”, antichissimo, di basso costo (acqua, farina integrale e lievito), creato per necessità, quando bisognava trasferirsi in campagna, senza possibilità di avere a disposizione il forno in cui cuocere il pane.

Priva di grassi (al contrario di crackers e grissini arricchiti con oli e strutto), fornisce un discreto apporto calorico e nei tempi passati si consumava anche “a secco”, sgranocchiandola nel tardo pomeriggio, durante un viaggio o mentre si lavorava nei campi. Ottima compagna anche per i pescatori e per quanti vanno a fare il bagno, in questo caso spugnandola direttamente nel pulitissimo mare di un tempo, senza bisogno di aggiungervi il sale.
Le nonne la gradivano inzuppata nel latte, a colazione o nelle cene frugali invernali, quando davano fondo all’esubero estivo.

Essendo biscottata, se correttamente conservata, non può andare a male e la sua gradevolezza può anche mantenersi per due-tre mesi, a patto di riporla negli appositi recipienti di terracotta (capase). Lasciata all’esterno, anche solo per poche ore, perde la sua caratteristica croccantezza, sino a “risciuncare”, come per i biscotti lasciati fuori dalla confezione per qualche ora.
Non deve mai essere troppo bagnata (spunzata) e quindi il tempo di immersione in acqua deve limitarsi a pochi minuti (lu tiempu ti ‘n’Ave Maria). Alcuni preferiscono la metà inferiore, più compatta, altri la superiore, più friabile e perciò atta a trattenere maggior quantità di acqua.

Insostituibile compagno della frisella è lo straordinario olio d’oliva locale, con cui si condiscono abbondantemente i pomodori rossi che la ricoprono e le fette di poponelle (minunceddhe) accantonate con le olive nere e le foglie di rucola selvatica (cresta) al bordo della ciotola che la contiene. La dolcezza di questi ultimi veniva alleviata dai rametti di “erva ti mare” sottaceto, preparata all’inizio dell’estate o avanzata dall’anno precedente. Col passare degli anni è stata guarnita con cubetti di mozzarella, cipolla barlettana a fette, tonno, acciughe, olive verdi, sottaceti, magari spolverandola con origano raccolto nelle “macchie” dell’ubertosa campagna salentina.

Delle tante etimologie proposte forse si deve optare per il latino frendere = spezzettare, pestare, stritolare. Frisa dunque sarebbe un participio passato femminile del verbo, da cui il diminutivo frisella. Ma il buon Armando Polito son certo interverrà per chiarire l’arcano.

Una norma valida per tutti: mangiatela con le mani, mai con la forchetta. I vostri commensali salentini vi riterrebbero troppo schizzinosi!

Alcuni termini propri della frisella:
ssuppare: bagnare in acqua, come si farebbe con i crostini nel brodo. È il verbo più appropriato per il nostro alimento.
Spunzare: trattenere acqua oltre il dovuto, tanto da alterare le qualità organolettiche della pietanza. Il grado successivo, che disfa la frisella, si indica con “spulisciare
Risciuncare: rammollirsi della frisa per umidità protratta
Friseddha ti sotta: metà inferiore della frisella che è stata a contatto con le chianche del forno durante la cottura. Più compatta rispetto alla friseddha ti sobbra.
Capasa: grande recipiente di terracotta (circa 5 litri) per riporvi fichi, olive in salamoia o le stesse frise. La chiusura era garantita da un piatto posto in corrispondenza dell’apertura circolare.

Modi di dire:
ssuppatu a friseddha: bagnato fradicio
ti fazzu a friseddha: colpire fino a ridurre a persona informe
ndi ssuppamu ‘na friseddha: invito al convivio, anche se non si consuma la frisella
ruzzulisciare: crocchiare tra i denti della frisa non bagnata.

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4 Commenti a La frisella, regina delle tavole salentine

  1. MIA NONNA UGENTINA, NEGLI ANNI ’40-50, BAGNAVA LA “FRISA” NELL’ACQUA DI PRIMA COTTURA DEI CECI… PER LA MERENDA DI METa’ MATTINATA, CON OTTIMI RISULTATI GUSTATIVI.
    a QUEI TEMPI NON SI BUTTAVA NULLA…

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