Addio al calaprìcu e compagni


 di Armando Polito

In un’epoca in cui l’ingegneria genetica promette mirabilie e, con particolare riferimento al mondo vegetale, già serve sulle nostre tavole frutta e verdura di forma e sapore (?) inusitati, può sembrare da inguaribile nostalgico del tempo che fu dedicare quattro righe ad un umilissimo arbusto un tempo molto diffuso dalle nostre parti: il calaprìcu, cioè il pero selvatico. La voce ancora oggi è usata per sottolineare il sapore amaro di un cibo o il carattere scontroso di una persona, anche se la metafora a breve scomparirà seguendo in questo il destino dell’arbusto.

È per me paradossale e scandaloso che a parole si sottolinei l’importanza della biodiversità e che contemporaneamente non si muova un dito per salvare specie animali e vegetali in pericolo di estinzione e che, anzi, per motivazioni egoisticamente ed esclusivamente economiche (qualcuno ha persino la spudoratezza di affermare che le modificazioni genetiche applicate all’agricoltura risolveranno il problema della fame nel mondo!) si sovrapponga incoscientemente e presuntuosamente alla biodiversità progettata,  realizzata e collaudata nei millenni dalla natura e parzialmente turbata dall’uomo con l’antichissima tecnica dell’innesto, quella ideata, sempre dall’uomo, in questi ultimi anni e immessa sul mercato senza, a mio avviso, le dovute garanzie che solo un controllo prolungato nel tempo può dare.

È triste consolarsi col passato, ma tant’è! Plinio il Vecchio (23-79 d. C.) nella Naturalis historia (17, XIV, 75) ci ha lasciato sul tema quanto segue; non so, anche su altri temi, purtroppo, cosa lasceremo noi…:

Tubures melius inseruntur in pruno silvestri et malo cotoneo et in calàbrice. Ea est spina silvestris; quaecumque optime et myxas recipit; utiliter et sorbos.

(I lazzeruoli si innestano meglio sul susino selvatico, sul melo cotogno e sul calaprico. Questa è una pianta spinosa selvatica; accoglie ottimamente ogni specie e i susini; con buoni risultati anche i sorbi).

E tre secoli dopo Palladio Rutilio Tauro Emiliano (Agricultura, X, 14) ribadiva:

Mense ianuario ultimo vel februario tuburum surculus mirabiliter proficit cydonio insitus. Inseritur autem melis omnibus et piris et prunis et calabrici melius trunco fisso quam cortice.

(Alla fine di gennaio o di febbraio la gemma dei lazzeruoli attecchisce mirabilmente innestata sul melo cotogno. Si innesta inoltre su tutti i meli, peri, susini e sul calaprico meglio a spacco che a corteccia).

Ma il funerale dei portainnesti antichi vede, oltre al calaprìcu, il piràscinu (altra specie di pero selvatico, il cui nome è da piru+lo stesso suffisso dispregiativo di nannàscina, purpàscina, etc. etc.; un latino piràginus è attestato molto tardi e precisamente nello statuto di Atena (Sa) che è anteriore al 1475), la maràngia [direttamente dall’arabo narang, dal persiano narany , probabilmente dal sanscrito nagaranja=frutto degli elefanti, mentre in italiano si è sviluppato arancio con caduta di n– per deglutinazione in seguito a fusione con l’articolo (un narangio>un arangio>arancio); solo in epoca relativamente recente, per probabile importazione da Gallipoli e incrocio con mara=amara, la voce si è specializzata ad indicare la varietà amara] e il tèrmite (specie di olivo selvatico); la voce è  direttamente dal latino tèrmite(m)=ramoscello, con specializzazione del significato; i  nostri  oliveti secolari ed  ultrasecolari con il loro irregolare sesto d’impianto provano la pratica antica  di  innestare   in pieno  campo  olivastri  (tièrmiti) spuntati qua e là nei campi e nella macchia e, con la loro maggiore resistenza alle malattie rispetto ad esemplari frutto di tecniche colturali più recenti, confermano ciò che già il poeta latino Orazio (I° secolo a. C.) aveva celebrato nei versi 41-48 del 16° epodo: Nos manet Oceanus circumvagus: arva beata/petamus, arva divites et insulas,/reddit ubi cererem tellus inarata quotannis/et imputata floret usque vinea,/germinat et numquam fallentis termes olivae/suamque pulla ficus ornat arborem,/mella cava manant ex ilice, montibus altis/levis crepante lympha desilit pede (Ci attende l’Oceano che tutto abbraccia: di campi beati/andiamo in cerca, di campi ricchi e di isole/dove la terra ogni anno senza esssre arata dà le messi/ e la vite senza essere potata rifiorisce sempre/ e il ramo dell’olivo che mai inganna germoglia/e il giovane fico orna il suo albero,/il miele stilla dal cavo leccio, dall’alto dei monti/scende giù con la sua corrente fragorosa l’acqua leggera).

Termes è connesso col greco terma=meta, limite e con i latini termo, termen e tèrminus=linea di confine, a riprova questa volta del fatto che un tempo dei rami segnavano il confine di un campo,  proprio come avrebbero fatto per secoli nelle nostre campagne le piante di olivo (chisùre). E Tèrminus per i Latini era il dio dei confini.

Al di là della contestualizzazione storica (l’abbandono della terra natia verso lidi che sembrano una sorta di paradiso è visto da Orazio come unico rimedio al clima di distruzione e morte indotto dalle guerre civili), dove cercheremo rifugio noi dopo aver violentato anche l’Amazzonia? Sembra una vendetta della storia e pure dell’etimologia quando si pensa che il greco terma, prima citato, deriva dal verbo tèiro (in latino tèrere, dal cui participio passato tritum sono nati i nostri trito, tritare e triturare) che significa logorare, indebolire. I Greci erano partiti da questo concetto di sfinimento e morte per dar vita a quello di conclusione, confine; poi i Latini, a parte i già nominati termo, termen, tèrminus e Tèrminus avevano mantenuto l’originario significato negativo oltre che nel verbo tèrere anche in tarmes/termes=tarma (dalla variante termes la nostra tèrmite o termìte, il temibile insetto). E noi? Noi, in pochi decenni, siamo stati capaci solo di percorrere il cammino inverso…

E io sono stato solo in grado di partorire queste poche, inutili osservazioni e questi miserabili, altrettanto inutili versi (?)…

Lu tèrmite

                                                                                  

Quantu tièmpu è ppassàtu ti ddhu ggiùrnu!                  

Simènte eri, ti ceddhu cuncardàta1;                              

ti lu sole poi sott’a llu furnu                                          

la vita chiànu chiànu è spuntàta.

                                                                                        

Picchi acqua ‘ggiàna2 intr’a ‘stu maru cuèzzu,            

stuèrtu e ttanti bbuchi intr’a lla scorza,                        

ti stòria antìca tu sî ormai ‘nu stuèzzu                          

e ddi natùra la proa ti la forza.

                                                                                       
Ma quarche ccosa strana mo sta ssiènti:                      
                                       

l’acqua non è cchiù queddha e mmancu l’aria,            

troppu ti pressa càngianu li tièmpi,                                                                            

lu sangu ‘ndi mbilèna addha malària.                                                                      


E ppàssari, ciciàrre  e ssaccufàe
3                                                                 

sempre menu ti fannu cumpagnìa,                                       

irdulèddhe e ccardìlli cchiù no ‘nd’hae                         

e sta tti pìgghia la malincunìa.

                                                                                       
Piensi ca no ppuè ffare mancu figghi                            

e la simènte tua a ‘n terra minàta                                 

sai ggià ti sicùru ca ttra ppicchi                                    

è mmuffìta, morta e ppoi squagghiàta.

                         

L’olivastro

 

Quanto tempo è passato da quel giorno!

Seme eri, riscaldato dal ventre di un uccello;

del sole poi sotto il calore

la vita piano piano è spuntata.

 

Poca acqua piovana dentro questa roccia amara,               

storto e con tanti buchi nella corteccia,

di storia antica tu sei ormai un pezzo

e la prova della forza della natura.

 

Ma qualche cosa strana stai ora sentendo: 

l’acqua non è quella di una volta e nemmeno l’aria,

troppo in fretta cambiano i tempi,

il sangue ci avvelena una diversa malaria.

 

E passeri, cinciallegre e rigogoli

sempre meno ti fanno compagnia,

verdoline e cardellini non ci son più

e ti sta prendendo la malinconia.

 

Pensi che non puoi fare nemmeno figli

e il seme tuo a terra abbandonato

sai già di sicuro che tra poco

sarà ammuffito, morto e poi disfatto.

_______

1 Il calore del ventre dell’uccello che ha inghiottito il seme favorisce, dopo la sua eliminazione, l’attecchimento; cuncardàre corrisponderebbe ad un inusitato italiano concaldare.

2 Da *foggiàna, acqua che si raccoglie nella fòggia (fossa), con aferesi di fo-.

3 Dal greco siukòfagos=mangiatore di fichi.

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2 Commenti a Addio al calaprìcu e compagni

  1. Ciao, agghiu apprezzatu motu la poesía ca a’ scrittu. Eti sempre nnu piacere quannu se acchianu persone ca de nna manera o de nn’otra fannu ccuna cosa pi salva’ la cultura de lla propia terra.
    Ci uè, passa pi llu meu blog :)

    Nnu salutu de Barcellona (però sontu franchiddese)

    Damiano

    • Caro Damiano, ti ringrazio dell’apprezzamento, che ricambio dopo avere dato una veloce visita al tuo blog. Non appena il tempo me lo consentirà ti farò sapere la mia sugli accostamenti da te rilevati tra il salentino ed altre lingue (nemmeno io, però, sono un filologo, ma un semplice insegnante di latino e greco da tempo in pensione). Un caro saluto dalla nostra bella, anzi bellissima terra. Armando

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