Santa Croce in Lecce (II parte)

 

di Teodoro De Cesare

Tra il 1549 e il 1646 l’arte italiana cambia radicalmente: la fase del Manierismo è alla sua conclusione, Firenze perde la sua egemonia artistica a favore di Roma che, a sua volta nel corso del XVII secolo, accoglierà artisti da tutta la penisola e dall’estero; si susseguono, quindi, classicismo, naturalismo e barocco. Questa situazione ha i suoi riverberi anche a Lecce dove i ritardi dei modelli romani si uniscono a una forte tradizione culturale presente in loco. Si può affermare che il barocco leccese, che si vede nella facciata di santa Croce e che si rileverà in altre architetture della città, prende forma tra la seconda metà del Cinquecento e la fine del Settecento.

 

Il quadro storico nel quale si inserisce questo fenomeno artistico è quello della Controriforma e della nascita degli ordini religiosi riformati, un contesto che riguarda processi economici e culturali particolari a cui danno il loro contributo personalità politiche e artistiche diverse e dirompenti. I cambiamenti non sono semplicemente artistici ed estetici, ma si inseriscono in un insieme di idee che coinvolgono anche trasformazioni urbanistiche.

Quello di Lecce è un complesso di palazzi, ville e residenze nobiliari, chiese, conventi, scuole religiose, edifici assistenziali che testimoniano il rango politico attribuito alla città al di là dell’infelice quadro economico che gli storici delineano sulle vicende della Terra d’Otranto tra il Sei e il Settecento . Si può affermare che la facciata di santa Croce sia concepita come un grandioso altare e rappresenti un continuo rimando tra esterno ed interno, piccolo e grande, che è l’ossatura del significato dell’architettura barocca leccese. In qualche modo la facciata, come l’altare, in questo caso rappresenta una sovrastruttura decorativa su una parete preesistente e che, nel caso specifico della basilica di santa Croce, deve essere indagata anche per i suoi rimandi simbolici e figurativi. Un Barocco di facciata?

La conclusione della parte inferiore del prospetto della chiesa, come da iscrizione, risale al 1582. I tre portali sarebbero stati eseguiti su progetto di Francesco Antonio Zimbalo tra il 1606 e il 1607; prima della loro costruzione dovevano comunque esistere, sotto qualche altra forma, poiché corrispondono agli ingressi nelle tre navate. È molto probabile, allora, che una primitiva forma di portali possano essere di mano di Gabriele Riccardi, autore della parte inferiore della facciata. In particolare, il portale centrale si caratterizza per avere quattro colonne, abbinate a coppie, ed è plausibile che sia proprio questa l’aggiunta dello Zimbalo. Le coppie di colonne terminano con piedistalli ruotati di 45°: questa soluzione si può vedere all’interno della chiesa anche nell’altare di san Francesco di Paola, realizzato proprio da Francesco Antonio Zimbalo nel 1614. L’ordine ruotato di 45° non è qui isolato, lo si ritrova nella teoria architettonica del manierismo italiano .

Di Riccardi, forse, resta nel portale il motivo delle lesene a “foglie d’acqua” come si evince dal confronto con le foglie d’acanto poste sopra ai capitelli della navata di santa Croce. […] In questa porzione del prospetto entra in campo una terza figura di artista e scultore, Cesare Penna che la conclude entro il 1646. Questa data è riportata in un cartiglio retto da due figure di leoni e sancisce la consacrazione della chiesa.

La balaustra è sorretta da telamoni e figure zoomorfe alternati e che affondano le loro radici culturali in un passato lontano. Il riferimento è ai bestiari medievali, che nel Salento non è inusuale, e lega temi profani e religiosi: l’esempio più significativo è il mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, eseguito fra il 1163 e il 1165. In Santa Croce il tema potrebbe anche essere quello della Croce vittoriosa sui miti e sulla superbia dei pagani: «L’allusione si evidenzia nella serie dei tredici telamoni che fanno da mensola alla loggia del secondo piano: è, ingrandita nella magniloquenza barocca, l’antica simbologia dei leoni stilofori, che alludono alla bestialità e al male soggiogati: troviamo infatti tra le tredici mensole il leone, ma anche il grifone, l’aquila, il drago, immagini di orgoglio e di mostruosità, nonché la lupa romana, (…) Ercole con la pelle di leone, figure di legionari, di negri, di musulmani, pagani o infedeli antichi e moderni, con provabilissimo, anzi certo, riferimento ai pirati del Mediterraneo, i famigerati turchi sgominati di recente (…) nella battaglia di Lepanto» .

(continua…)

L’articolo è stato pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°6. Verrà riproposto su Spigolature Salentina in più fasi.

I parte: http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/03/30/santa-croce-in-lecce-emblema-del-barocco/

1587. Ricostruzione di un tratto delle mura di Nardò

di Marcello Gaballo

Il 16 marzo 1587 i sindaci Domizio Boncore ed Antonio Manieri, rispettivamente dei Nobili e del Popolo, concordano con i mastri Tommaso Rizzo, Carlo e Marco Antonio Bruno la ricostruzione da parte di essi della cortina muraria della città dovè la torre del cantone de li paraporti di Santa Lucia verso l’ ecclesia della Carità, in pratica le mura un tempo poste sull’ attuale Via Grassi, a ragione di grane tridici la canna e di grane vintinove li quatrelli dolati, inclusi li pezzi de li cordoni. I mastri devono pure sterrare, scarrare et annettare le pedamenta, quale fabrica ha da essere opra netta fora la facciata di palmi sei a bascio et che venga a finire di palmi quattro sopra e per quanto remanerà con li cordoni, conforme all’ altre principiate nove, quale fabbrica ha d’ essere perfetta.

L’ università dovrà fornire ai mastri solamente la calce, i “quatrielli” e le pietre, mentre essi si preoccuperanno di ponerci tutti afici necessari, maestranza, manipoli e tutte altre cose necessarie.

Otto giorni dopo, con atto dello stesso notaio Cornelio Tollemeto, l’ università stipula un’ altra convenzione col mastro Cornelio Carrieri di Montescaglioso per la ricostruzione del tratto di muraglia sull’ attuale Corso Galliano, vicino alla strada che porta al convento di S. Chiara, visto che era “cascata”.

Un ulteriore tratto di mura verrà commissionato il 13 aprile dello stesso anno ai mastri suddetti, Rizzo e Carrieri, nella zona del fossato del castello.

Santa Croce in Lecce, emblema del barocco

di Teodoro De Cesare

Santa Croce è il monumento simbolo del barocco leccese, è l’edificio che incarna lo spirito artistico dell’architettura nel Salento. La chiesa è famosa per la decorazione ricca e sfarzosa della sua facciata, in particolar modo nella parte superiore.

Non è una chiesa barocca edificata ex novo, essa è stata infatti edificata in epoche precedenti. Si pensa che la sua origine possa risalire addirittura al XIV secolo: i gigli intorno al rosone centrale dovrebbero rappresentare i gigli donati dalla corona di Francia alla popolazione e alla prosperità dei celestini. Quei gigli, dunque, sarebbero un richiamo alla prima fondazione, all’epoca in cui Gualtieri VI di Brienne era conte di Lecce, il quale richiese al vescovo, per conto dei padri celestini, di lasciar ad essi una chiesa di proprietà del vescovo stesso. Il conte volle che la chiesa fosse intitolata a “Santa Maria Annuntiata” e a “San Leonardo confessore”, ma poiché la chiesa era già conosciuta con il nome di Santa Croce, a livello popolare rimase questa titolazione . Gualtieri morì nel 1356 e i lavori furono interrotti; i documenti scarseggiano su una possibile prosecuzione del’opera.

È certo che la chiesa fu nuovamente sottoposta a lavori di costruzione a partire dal 1549 su sollecitazione dei padri celestini. Qui comincia la storia della chiesa che arriverà agli anni della conclusione barocca nella facciata. La ricostruzione della chiesa di santa Croce, dunque, ebbe luogo a partire dal 1549 grazie all’architetto Gabriele Riccardi che ne predispose il progetto. Egli creò la struttura della basilica e compì anche la parte inferiore della facciata, di equilibrio classico e con richiami all’architettura romanica nella cornice ad archetti ciechi. La parete è divisa da sei colonne con capitelli zoomorfi ed è sormontata da un fregio di ispirazione classica. Nel 1606, per opera di Francesco Antonio Zimbalo, si aggiunsero una sorta di protiro a colonne binate su plinti e i due portali laterali. La parte superiore fu eseguita da Cesare Penna e Giuseppe Zimbalo intorno al 1646. Essa si poggia su una balconata sostenuta da cariatidi zoomorfe o simboliche, la balaustra è composta da 13 putti recanti emblemi. Il grande rosone centrale risente della tradizione romanica ed è circondato da una ricchissima cornice; quattro colonne hanno una decorazione fantasiosa; a queste si affianca il fregio, le cui lettere infrascate caratterizzano il nome dell’abate committente, don Matteo Napolitano ; due colonne sorreggono le statue di san Pietro Celestino e san Benedetto. Tutto è unito da una resa plastica di sfrenata fantasia e libertà inventiva, senza per questo risultare troppo ridondante ed eccessivamente abbondante, infatti la struttura risulta, nella sua ricchezza, semplice e chiara. Questa leggerezza nella ricchezza è dovuta sicuramente alla pietra leccese, facile da lavorare, di un colore chiaro che rende vivace la composizione. Queste brevi notizie ci fanno comprendere che solo la vicenda costruttiva della facciata occupa uno spazio temporale di circa cento anni.

 

(continua…)

L’articolo è stato pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°6. Verrà riproposto su Spigolature Salentina in più fasi.

La chiesa di S. Antonio da Padova in Nardò

di Donato Giancarlo De Pascalis

 

Le origini sulla fondazione della chiesa e del convento di S. Antonio da Padova sono strettamente connesse con le vicende della comunità ebraica della città, insediatasi in Nardò fin dall’XI secolo d.C.

Gli Ebrei esercitavano in Nardò l’attività conciaria della lavorazione delle pelli, nonché quello del prestito e dell’usura, e risiedevano nella Giudecca, localizzata all’interno del Pittagio San Paolo, sin quando nel 1495, a causa delle agitazioni antisemite, furono costretti a fuggire ed a riparare nella vicina Gallipoli. L’abbandonata Sinagoga neritina fu affidata all’ordine conventuale dei Francescani Osservanti per essere trasformata in complesso conventuale. Il convento e la chiesa furono edificati ex novo sotto l’auspicio del nuovo duca di Nardò, Belisario Acquaviva, la cui politica a favore della regola francescana era strettamente in linea con quella dei re aragonesi.

Mostra sulle Seicentine di Giuseppe Battista da Grottaglie

di Cosimo Luccarelli

Nelle sale adiacenti all’ingresso della Casa natale di San Francesco de
Geronimo in Via Spirito Santo(le vecchie  scalelle)- Centro Storico
Grottaglie – una Mostra sulle “Seicentine” del poeta grottagliese
Giuseppe  Battista
.
A Giuseppe Battista, poeta barocco, di cui ricorre il quarto centenario
della nascita, è dedicata una mostra bibliografica che raccoglie testi
pregiati in originale risalenti al 1600 e in anastatica oltre ad alcuni
libri di autori che hanno scritto e antologizzato le opere di Giuseppe
Battista. L’iniziativa è organizzata dal Centro Studi e Ricerche
Francesco Grisi e dai Padri Gesuiti di Grottaglie. Si tratta di una mostra
originale che pone in essere un preciso percorso che è quello non solo definito già nelle ricerche strutturate nel Progetto del Centro Studi “Francesco  Grisi” ma si enuclea in un modello di partecipazione sia dal punto di vista di una metodologia educativa che in una proposta rivolta alla conoscenza del poeta e della poesia del Seicento.

All’inaugurazione della mostra, fissata per Martedì 30 marzo 2010 – ore 19.00,  nelle sale adiacenti all’ingresso della casa natale del Santo Gesuita, via Santo Spirito 54 (stradina che costeggia il Santuario), interverranno Padre Salvatore Discepolo S.I. , Arcangelo Fornaro, Roberto Burano, Ciro De Roma, don Cosimo Occhibianco. La testimonianza critico – letteraria è affidata a Pierfranco Bruni mentre i lavori saranno coordinati dal giornalista della Rai Salvatore Catapano.

La mostra ha lo scopo, appunto” di “mostrare” visivamente i libri del
Battista in un itinerario di bibliografia ragionata con lo scopo di avvicinare il
pubblico a prendere contatto con il materiale.

Alcune seicentine, oltre a illustrarsi con il loro reale valore, definiscono la struttura del testo poetico, con la loro forma e la loro legatura, adottato dall’editoria “battistiana”. Importante la collaborazione, in questo senso, tra il Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi” e i Padri Gesuiti di Grottaglie, le
cui sinergie non solo hanno permesso questa manifestazione ma sancisce
l’avvio per ulteriori attività culturali. Una mostra, questa di Grottaglie, che
legge il percorso editoriale di Giuseppe Battista (1610 – 1675)
attraverso alcuni originali, le “seicentine”, che penetrano il tessuto editoriale di un Seicento che si racconta non attraverso una visione ideologica ma grazie ad una interpretazione estetica dentro la quale Giuseppe Battista
costituisce un riferimento non solo per il barocco italiano ma per il barocco tra Spagna e Francia. Nel corso della serata si potranno ascoltare musiche barocche con particolari illustrazioni di filmati oltre a trasmettere il video
realizzato dal Centro Studi “Francesco Grisi” dedicato completamente a Giuseppe Battista e il Barocco, andato in onda su RAI UNO.  In allegato la
locandina che vale come invito.

Si ringrazia la Biblioteca Comunale di Tuglie per questa ed altre segnalazioni.

1605. Una società a fini commerciali

di Marcello Gaballo

Tra gli atti del notaio neritino Nociglia del 1605 il barone di Serrano Napoli de Prezzo da Dipignano (Cosenza), ma residente in Nardò, e l’ artigiano Marco Serenico compaiono innanzi al notaio per stipulare un accordo, articolato in più punti, che prevede l’ istituzione di una vera e propria società di persone, detta per l’ appunto, dal notaio, “societas”.

Napoli de Prezzo dichiara di mettere a disposizione, per la sua parte, cinquecento monete di suoi propri denari, mentre l’ altro, Marco Serenico, la sua persona et il magazeno, posto nella città di Nardò, per tenere et vendere la marcanzia de tavole et legname.

Un personale ricordo correlato alla Liberazione del 1945

di Rocco Boccadamo

24 marzo 1944 – 24 marzo 2010. Non una semplice scansione temporale combaciata, ma la rievocazione della terribile strage delle Fosse Ardeatine, consumatasi a Roma per opera degli occupanti nazisti con la folle motivazione di rappresaglia, spietata rappresaglia.

Come sempre, nella ricorrenza, si è svolta sul luogo una solenne celebrazione alla presenza del Capo dello Stato. Il sacrificio di quelle centinaia di vite umane innocenti, si può considerare come un grande offertorio morale e civile alla liberazione dell’Italia che arrivò a realizzarsi

1576. Armi e munizioni per la città di Nardò

NOTE DI STORIA CITTADINA. LA SANTABARBARA DELLA CITTÀ DI NARDÒ NEL 1576

 

di Marcello Gaballo

In un atto notarile conservato presso l’ Archivio di Stato di Lecce, rogato dal notaio Tollemeto in data 3 aprile 1576, si riporta dettagliatamente la consistenza degli armamenti e delle munizioni a disposizione della città di Nardò  in tale anno, che mi è piaciuto proporre all’ attenzione del lettore non altro per la singolarità dell’ argomento, a parte la curiosità che può destare.

In presenza del Magnificus Giovan Bernardino Macedo, Sindaco dei Nobili, di Giovanni Manieri, Sindaco del Popolo, del Magnificus Gio. Tommaso Pisinati, auditore dei Nobili, di Angelo Manieri e Matteo Sellenico, auditori del Popolo, del Magnificus Lupantonio Sambiasi, Cornelio Cantone e Gio. Tommaso Manieri, ordinati dei Nobili, di Girolamo Burdo, Antonio Manieri, Tommaso Musachio, Bernorio Gaballone e Pietro Falconieri, ordinati del Popolo, ed in presenza degli ispettori regii (“gispani regis“) Antonio de Morales, Francesco Vasquez e Matteo Palmi, si redige l’ elenco delle armi e munizioni che vengono consegnate da questi ultimi ai primi:

– un “sacro” (1) di bronzo del peso di cantare sette e rotoli (2) settanta; “tira balle” (moschetto) del peso di libbre (3) sei circa, con lo stemma di Sua Maestà in rilievo;

– un altro “sacro” simile con lo stemma di Sua Maestà del peso di cantare otto e rotoli cinque;

– un “falconetto” (4) di bronzo del peso di cantare due e rotoli settantaquattro; “tira balle” del peso di libbre due circa;

– un altro “falconetto” di bronzo simile del peso di cantare due e rotoli settantasei; “tira palla” del peso di libbre due circa;

-un altro simile del peso di cantare due e rotoli ottantuno; “tira palla” del peso di libbre due circa;

 un altro “falconetto” di bronzo simile del peso di cantare due e rotoli settantadue; “tira palla” del peso di libbre due circa;

 un altro “falconetto” più piccolo di bronzo del peso di cantare una e rotoli sessanta; “tira palla” del peso di libbre una circa;

sette paia di “rote di artilliaria fra piccole e grandi, ferrate” (5);

– sette “assi di dette rote con i di loro siculi”;

– sette “cascie di detti pezzi fra piccole e grandi, ferrate”; ad una mancano due maniglie ed alcuni “chiovetti”;

– sette “cucchiare” di rame con le rispettive aste;

– dieci “resultatori”;

– sette “scrufuli” con le rispettive sette aste;

– duecento palle di ferro del peso di libbre sei circa ognuna;

– trecento palle di ferro del peso di libbre due circa ognuna;

– altre cento palle di ferro del peso di libbre una.

Per tali armamenti i rappresentanti della città pagano mille ducati al predetto Magnifico Matteo Palmi, in presenza dei testimoni Orfeo Manfredi, giudice regio, dei Magnifici Gio. Donato de Castelli e Domizio di Sambasilio, di Scipione Bonvino, tutti cittadini di Nardò.

(1) è il sagro, sorta di cannoncino molto simile al falconetto indicato alla nota 4.

(2) un rotolo nel regno di Napoli corrispondeva agli attuali 891 grammi.

(3) antica unità di misura corrispondente a 12 once. La libbra del regno di Napoli corrispondeva agli attuali 320 grammi.

(4) il più piccolo tra i cannoni che portava palle di ferro del peso di 5 o 6 libbre. Un altro cannoncino era la “bombarda”, indicata per i tiri curvi, che però non è menzionata nel documento.

(5) tali ruote sostenevano e spostavano il falconetto o il sagro.

Il castello di Fulcignano a Galatone

di Giuseppe Resta

“…Intentio vero nostra est manifestare ea quae sunt, sicut sunt…”

L’imponderabile può essere di segno positivo o negativo. Lo sappiamo bene noi “umani” che spesso confidiamo nella “fortuna” per avere successo e felicità nella vita, o imprechiamo la “sfortuna” quando gli avvenimenti  non succedono a nostro vantaggio. Ma ci sono casi in cui la “fortuna” pare abbandonare anche le “cose”. Si dovrebbe pensare, se la razionalità non lo inibisse, che sia proprio frutto della sfortuna l’amara sorte del Castello di Fulcignano: possente maniero da prima abbandonato da una popolazione in fuga, poi, nonostante sopravvissuto per almeno 600 anni alle ingiurie del tempo e della natura, – per dirla col Galateo Antonio De Ferrariis “Ne han fatto crollare le costruzioni il tempo e il contadino, che ogni traccia dell’antichità distrugge”  –  oggi negletto dagli uomini che da anni non sanno, o non vogliono, valorizzare e riportare alla fruibilità ed al giusto interesse, anche turistico oltre che culturale,  una così unica, interessante e ancora inesplorata struttura castellare. Decisamente un destino non comune a tanti altri castelli che, anche ridotti a ruderi più scalcinati, riescono ad attrarre turismo e cultura, e a dare identità e connotare positivamente il territorio. Invece sarà anche difficile rintracciare Fulcignano senza una mappa o una guida: mancano le segnalazioni stradali, per non parlare di quelle turistiche, ed anche la viabilità rurale a contorno non è del tutto agevolmente transitabile. Galatone lo ha enucleato dal proprio vivere. E, fino a oggi, è ancora di proprietà privata.

I ruderi del castello di Fulcignano si trovano a sud est del centro urbano di Galatone, in provincia di Lecce, proprio nella periferia urbana della cittadina, verso la fine di Via S. Luca e l’inizio della vicinale Vorelle,  a pochi metri dalla sede ferroviaria verso Neviano. In catasto lo rintracciamo al foglio 26, Comune di Galatone, particelle 390-391. Coordinate 40°08’25 N; 18°04’36 E. Il castello si trova in posizione leggermente più rialzata rispetto alla campagna immediatamente circostante, ma un più in basso rispetto all’altura delle Serre Salentine, che lo costeggia sul versante est. Il sito è lambito da un antico corso d’acqua stagionale che scende dalla collina dei Campilatini e si spande nella piccola pianura disperdendosi in alcune vore carsiche poste a nord del castello.

Ciò che è rimasto del castello  è quasi solamente la cinta quadrilatera fortificata. Ma anche da questi resti, ancora generalmente ben conservati, chiara emerge la tipologia del castrum romano come mutuata dagli svevi.

Paul Arthur, professore di Archeologia Medievale presso l’Università del Salento, nel 1997 scrive di Fulcignano in una relazione indirizzata al Sindaco Roberto Maglio del Comune di Galatone “La forma planimetrica, e i dettagli architettonici, suggeriscono che l’edificio non sia anteriore all’età sveva, quando una serie di fortificazioni in Italia, note specialmente attraverso i castelli in Sicilia, risentono di influssi architettonici orientali trasmessi dalle Crociate. La forma quasi quadrata, con quattro torri angolari (le due posteriori scomparse: una circolare, l’altra forse circolare in una prima fase e quadrata in una seconda), trova confronti nell’architettura castellare islamica, che sembra aver, a sua volta, mantenuto vivo le tradizioni tardo romane di architettura castrense.”

La forma della cinta muraria è quadrangolare con i lati lunghi circa una cinquantina di metri: il più lungo, quello dell’ingresso a sud-est, misura, torri comprese, poco più di 75 metri ed il più corto, a nord-ovest, 49 metri senza torri. L’altezza delle mura è di circa 8 metri e lo spessore è di circa 2,6. Le torri angolari hanno i lati di misure variabili tra gli 8,40 ed i 7,55 metri. Tutta la cinta insiste su di una zona di 8800 metri quadri, racchiude una superficie di 2930 metri quadri di cui 220 coperti e 2100 scoperti. Da notare come gli spigoli del quadrilatero sono posti approssimativamente secondo i punti cardinali. Dalla facciata nord-est si accede ad un ingresso voltato a botte con forno laterale; il primo vano è costituito da una sala d’ingresso con volta a crociera a sesto acuto e costoloni sporgenti a sezione trilobata che si intersecano al vertice con una rosetta.  Sulla destra rispetto all’ingresso si trovano due vani laterali  con volta a botte. Proteggono l’ingresso arretrato  delle solide torri angolari poste sul lato est ed allo spigolo nord, la torre a est non si distingue dall’esterno perché è inglobata dalla muratura. Le torri accanto all’ingresso sono cilindriche internamente e quadrate esternamente. Un’altra grossa torre quadrangolare è posta all’angolo est. Altre due torri sono poste a sud ed a ovest e sono quasi dirute: una, quella a sud, cilindrica e di manifattura costruttiva più rozza, è ammalorata da crolli, sembrerebbe essere appartenuta ad un nucleo fortificato più antico ed essere stata inglobata in quello attuale; della quarta, quella ad ovest,  vi sono rimaste solo tracce murarie, le intersezioni con le mura e il passetto d’entrata con volta a sesto acuto; da quello che vediamo oggi sembrerebbe essere stata con l’interno cilindrico.

La tipologia architettonica, secondo la definizione che è stata introdotta dal prof. Architetto Carlo Perogalli, è assimilabile perfettamente a quella di “castello-recinto”, simile a quella di numerosi esempi di fortificazione medievale che attualmente si presentano con la sola cinta, solitamente rinforzata da torri perimetrali, ed eventualmente una torre maestra.

A Fulcignano il paramento esterno della muratura a sacco è costruito in arenaria locale del tipo “tufo carparino” perfettamente squadrata e allettata con buona precisione. Molti sono gli aggressori vegetali che allignano sulla parte superiore delle mura o ne minano le basi. In alcuni tratti si nota ben evidente lo strato di muratura di fondazione. All’interno, eccettuati i vani dell’ingresso e i due laterali anzidetti, non vi è altra superstite struttura. Si nota solo la muratura a pietre informi ed opera incerta sino all’altezza di circa cinque metri – nella quale sono ricavati dei nicchioni ad arco – che lascia posto per la restante altezza ad una muratura ben rifinita anche all’interno. Si potrebbe ipotizzare che la muratura a opera incerta facesse parte della prima costruzione e quella a conci regolari sia stata frutto di un successivo ampliamento ed irrobustimento. In corrispondenza del cambio di tipologia muraria interna si notano numerose buche pontaie. Ciò fa presumere – la specifica tipologia, come s’è anzidetto, lo autorizza con buona plausibilità – che le strutture interne del castello fossero in legno ed erano addossate alle murature esterne secondo una tipologia medievale  consolidata.

Quindi il castello, di tipologia simile ai castelli d’oltremare, è di fogge sveve; è tipico l’arco ogivale, che denota l’ingresso, realizzato con conci di arenaria regolari e perfettamente squadrati. Bisogna dire, però, che la finitura a falde rettilinee che sormonta l’arco ogivale, con una decorazione a foglie, palmette e intrecci viminei,  rimanda a stilemi decorativi bizantino–normanni di datazione ascrivibile tra l’ XII e il XIV secolo. E’ certamente questo particolare che fece maturare al De Giorgi la convinzione che la rocca fosse del periodo angioino e che fossero diretti i collegamenti con la tipologia decorativa del Tempio dedicato a S. Caterina d’Alessandria nella vicina Galatina. Ma questa tipologia decorativa in Puglia ha una diffusione temporale molto più ampia. Basterà confrontarla con quella esistente nel portale della Cattedrale di S. Nicola di Bari, o nel portale romanico dei santi Nicolò e Cataldo a Lecce, o nel complesso di S. Benedetto a Brindisi per averne una retrodatazione. Certo è che il fregio decorato è proveniente dallo spoglio di una precedente struttura: gli angoli presentano una evidente soluzione di continuità decorativa e il pezzo della falda a destra è completamente privo si decorazione, proprio come se fosse stato aggiunto per completare un elemento mancante. Questo ci farebbe supporre con buona certezza che comunque il fregio è precedente all’apparato murario che attualmente lo ingloba.

Tra l’arco a sesto acuto ed il decoro cuspidato a falde piane, nel vuoto che si crea, è inserito un concio di leccese molto corroso. Alcuni sostengono riportasse delle insegne nobiliari, sembra ipotizzabile, ma allo stato non è possibile desumere alcunché. Le mura e le torri sono completamente senza aperture di passaggio o di affaccio, se si eccettua una postierla, accanto alla torre in rovina sullo spigolo a sud, e delle feritoie arciere sulle facciate delle torri. La predetta postierla è coronata da un arco svevo a sesto acuto e doppia ogiva, i conci sono in studiata alternanza di pietra leccese e di tufo carparino e creano un  motivo bicromatico. Le feritoie arciere sono realizzate con la strombatura interna più accentuata verso il lato di tiro più favorevole. Vi sono anche delle aperture strombate verso il basso, molto ben costruite, per l’allontanamento delle acque e dei liquami poste su vari livelli d’altezza. Altri scarichi di forma semplice si rintracciano sulle murature sud ed ovest. All’esterno, sul lato nord, si nota un residuo del fossato originario. Attualmente l’accesso all’ingresso della cinta muraria avviene proprio tramite un viale ottenuto col riempimento di parte di questo residuo fossato.

Dalla forma dell’arco d’ingresso e dall’assenza di specifiche tracce murarie si ritiene che il castello non doveva avere un ponte levatoio direttamente sull’ingresso. E’ invece ipotizzabile l’esistenza di un corpo avanzato munito di ponte mobile. Il forno posto sul lato sinistro della nicchia d’ingresso farebbe presupporre un adattamento utilitaristico dello spessore murario della torre in epoca recente. Si potrebbe ipotizzare anche un uso pubblico e controllato del forno dietro pagamento di gabella. Però il forno è una struttura ricavata molto posteriormente: se fosse stato usato contemporaneamente all’esistenza della pesante anta del portone non vi si sarebbe potuto accedere ad anta aperta perché questa ne avrebbe chiuso il fornice. Bisogna notare che il secondo arco di scarico ogivale, posto sul muro che porta al primo ambiente con la volta a crociera e costoloni, oggi  tamponato di muratura, non sia tanto alto (misura al vertice poco più di due metri e mezzo) e largo. La ridotta dimensione del vano d’accesso rende veramente difficile immaginare un comodo accesso per dei carri stipati di merce essendo già difficoltoso il passaggio di un uomo a cavallo.

Sempre il professore Arthur, nella sopracitata lettera al Sindaco di Galatone afferma come “Senza dubbio il castello rappresenta una delle testimonianze più singolari del Medioevo salentino, per una serie di motivi. La sua forma è localmente inconsueta, ed è probabilmente una delle  fortificazioni medievali più antiche sopravvissute nella provincia, e gode di un rimarchevole stato di conservazione, senza cospicui rimaneggiamenti. Inoltre, non essendo stato inglobato dall’attuale centro di Galatone, offre la possibilità di indagine e di un eventuale sistemazione che tenga conto non solo delle sue strutture, ma anche del suo contesto storico-ambientale”.

Ancora Paul Arthur ci ricorda che “è metodologicamente scorretto porre l’attenzione esclusivamente sul castello, senza considerare che era intimamente legato al territorio, alla viabilità e al casale di Fulcignano, attestato sin dal XII secolo, ma probabilmente ancor più antico. Si ricordi che una moneta dell’imperatore Basilio I è stata rinvenuta nell’area, e che molti casali della Puglia meridionale sono di origine bizantina. Perciò, un qualsiasi progetto scientifico di valorizzazione e tutela del castello deve necessariamente prendere in considerazione le testimonianze archeologiche almeno nel territorio immediatamente circostante il monumento.”

Come ogni castello, infatti,  anche quello di Fulcignano dominava un borgo abitato: il Casale di Fulcignano, quasi certamente posto ad est della residua struttura castellare, sul lato della porta ma che oggi è completamente scomparso. Le ipotesi sull’origine del Casale si perdono in fantasie mai accertate. Il De Ferrariis attribuiva al casale origini greche. Si vuol fare risalire l’etimo del toponimo al greco fulacà, cosa nascosta, mentre non si valuta abbastanza il latino fulcire, puntellare, ergere su cavalletti; etimologia che potrebbe pure avere buona attinenza con le strutture lignee che costituivano originalmente i piani altri delle fortificazioni. Nei documenti troviamo il sito censito come Furcignano (1192 e 1335); Zurfiniani (fine del 1200) o Furciniani (1426); nel dialetto locale è sempre Furcignanu, null’altro.

Ma anche l’effettiva localizzazione dell’abitato è stata fonte di congetture e supposizioni.

Di sicuro, al di là di ogni altra fantasiosa congettura, era lì, proprio di fronte alla porta del Castello, che si è andato a costituire il nucleo abitato del casale vissuto fino alla metà XV secolo quando fu completamente abbandonato. E comunque bene  ricordare come nel Salento non esiste continuità storica e culturale tra i periodi Fenicio–Greco–Romano e la ricolonizzazione bizantina successiva alle così dette Guerre Gotiche. La caduta dell’Impero Romano d’Occidente, nel 476 d.C., portò la penisola Italica ad essere oggetto di saccheggi e distruzioni ad opera delle popolazioni barbare.

Dobbiamo tenere conto che la frequentazione fittile nell’agro di Fulcignano,  riscontrata con esami superficiali, si connota di reperti ceramici bizantini e poi normanno svevi, sino a raggiungere la massima estensione con ceramica rinascimentale. Questi reperti fanno ipotizzare che il casale si sia sviluppato proprio a partire dal VII secolo quando vi fu la intromissione di genti bizantine che si installarono su probabili preesistenze romane. I reperti rinvenuti sono solo frutto di raccolta di superficie in quanto una campagna di scavo scientifica ed approfondita non è stata mai intrapresa. Però, a conferma dell’attendibilità delle ipotesi archeologiche provenienti dalla lettura dei reperti, si può segnalare come  nell’ellisse di territorio che prospetta il lato est del castello, e che è interessata dai rinvenimenti, siano riscontrabili cisterne e pozzi di capienza e portata decisamente importanti.  Saverio Caputi, medico e uomo di cultura, ancora nell’ottocento, rinveniva “cisterne e trozzi profondi, granai e vie sotterranee, rottami e pezzi di antiche mura”.

Conforta l’ipotesi proveniente dall’archeologia di superficie l’osservazione delle tavole aerofotografiche IGM dove si leggono con sufficiente chiarezza due percorsi viari ortogonali che dividono l’ellisse di territorio in oggetto secondo gli assi della stessa. La zona, inoltre, è caratterizzata da un certo consistente rilievo rispetto ai terreni circostanti e la conformazione ellittica del nucleo del probabile insediamento è ribadita dagli stessi attuali percorsi viari.

Sembrerebbe proprio che il castello sia stato localizzato esternamente ad un chorion bizantino. Probabilmente il castello era dapprima posto su di una motta ed, in seguito, si è espanso in epoca sveva per imporre il controllo dell’incrocio dei percorsi costituiti dall’Augusta Traiana Salentina Ionica, che andava da Taranto a Ugento, e del percorso istimico che andava da Roca Vecchia allo scalo di Nardò, il latino “Portus Nauna”, le attuali S. Maria al Bagno e S. Caterina.

Il Fuzio, autorità indiscussa sull’analisi della tipologia e la struttura dei castelli pugliesi,  ritiene che Fulcignano facesse parte di una linea difensiva normanna costituita da dodici castelli costruiti ex novo che andavano da Gallipoli a Castro. Di certo, però, il Castello di Fulcignano è stato sicuramente solo un castello feudale, non castello reale né castello demaniale. Non ve n’è infatti traccia nel federiciano “Statutum de reparatione castrorum”, del 1231, che pure censiva  le “domus solaciorum”, le case da svago e i casini di caccia, differenziandoli dai Castra e dalle Domus, ossia dalle fortezze militari e dai castelli per la corte e l’amministrazione. (Confronta : E. Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d’Angiò Ed. M. Adda, 1995.)

L’importanza di Fulcignano come centro di passaggio di carovane e di pellegrini è testimoniata dall’epigrafe di uno xenodochio distrutto, rinvenuta a fianco alla chiesa rurale di Fulcignano, che il Vescovo di Nardò Antonio Sanfelice legge nel 1719 durante una visita pastorale. L’epigrafe è in greco ed in latino. In latino recita: “theodorus protopas famulus sanctae dei genitricis hospitium construxit anno 6657”, corrispondente al 1149 del calendario cristiano.

Bisogna ricordare che proprio la parte degli archivi Angioini che riguardano la Terra D’Otranto si sono persi nell’incendio di mano Nazista che distrusse l’Archivio di Napoli conservato a villa Montesano Questo compromette qualsiasi seria ricerca documentale.

Ci dobbiamo, quindi, accontentare di poche notizie. Una prima notizia si ha riguardo a certo milite Maurizio Falcone, signore di Fulcignano nel 1192, certamente imparentato con la Domina Luisa de Falconi de Furcignano, che nel 1208 era badessa in un convento di Lecce. Dopo incontriamo un Aymarus di Guarnierius Alemannus possessore di Zurfiniani. La famiglia d’Alemagna risulta anche in possesso dello scomparso feudo neretino d’Agnano.

In periodo Svevo il feudo, assieme a quello di Galatone e Nardò,  passa ai Gentile: nel 1212 a Simone, poi a Bernardo, quindi a Tommaso intorno al 1239. Nel 1266 tocca all’ultimo Gentile, Simone, che viene giustiziato a Nardò nel 1269 e il feudo di Fulcignano passa all’ammiraglio angioino Filippo de Toucy. Con questo feudatario Fulcignano distacca definitivamente le sue sorti feudali da Galatone. Questi nel 1273 scambierà il feudo con Guglielmo Brunello. L’esosità delle pretese fiscali del Brunello farà fuggire gli abitanti di Fulcignano. Il feudatario li rintraccerà e li farà ritornare forzatamente nella sua proprietà. Il feudo si trasmetterà ai successori del Brunello sino alla primi decenni del XIV secolo. Dopo c’è una svariata moltitudine di feudatari. Si rintracciano i de Caniano tra il 1314 ed il 1319, i Capitignano, i Palmieri nel 1348, poi i De Mistretta,  fino a Gualtieri di Brienne, conte di Lecce e duca di Atene,  nel 1352.

Negli anni angioini  Fulcignano risulta avere una buona consistenza demografica,  nel 1378 è ipotizzabile raggiungesse un migliaio di persone (come e più di Otranto o di Gallipoli). Raggiunto questo apice dobbiamo annotare una veloce decimazione dei fuochi. Nel 1412 i suoi abitanti non dovevano essere più di 170. Appena trent’anni dopo un focolario aragonese non ne conta più di una trentina. La rapida discesa ed il declino di Fulcignano deve essere fatto risalire alle lotte tra il capitano di ventura Ottino Malacarne che usurpa dei possedimenti alla Chiesa di Taranto e Giovanni Del Balzo Orsini che si incarica di spodestarlo e rimettere la Chiesa nel legittimo possesso. Nel 1426 la Regina Giovanna II concede l’assenso alla donazione di Fulcignano ed altri feudi al Principe di Taranto del Balzo Orsini precisando che la “Terra Furciniani cum castro et pertinentiis suisi omnibus sita similiter in d.a Provincia Terrae Hydronti iuxta territorium d. ae terrae Galatulae (Galatone), et iuxta territorium rettae Sfilichij (Seclì) et iuxta territorium castri Naviani (Neviano) et alios confines”.

Probabilmente la riedificazione con l’espansione delle mura di Galatone in periodo aragonese, intorno all’inizio del XVI secolo, favoriranno la completa desertificazione del casale aperto di Fulcignano e la fagocitazione dei suoi ultimi abitanti. Comunque nel XVI secolo i fossati e le terre intorno al castello di Fulcignano risultano già messi a coltura. Nello stesso periodo nella sola Puglia scompaiono circa sessanta borghi e casali. Solo in Capitanata ne scompaiono ben trenta. Possiamo dire che le situazioni storiche, economiche e sanitarie del periodo sono diffusamente volte ad una inurbazione verso centri più sicuri.

Come causa dell’improvvisa scomparsa di Fulcignano appare veramente fantasticata la contesa con la vicina Galatone che è riportata da Antonio De Ferrariis. Tanto meno pare ipotizzabile ascrivere la guerra al predominio della chiesa latina su quella greca. Una guerra con Galatone vittoriosa pare, invece, fosse veramente accaduta nel 1335. Fulcignano sarebbe stata rasa al suolo e molti degli scampati sarebbero confluiti nella stessa Galatone o avrebbero contribuito a popolare piccoli paesi vicini. Questa notizia è desumibile dal Chronicon Neretinum, fonte dimostratasi però non perfettamente attendibile.

Attualmente il Castello, dichiarato monumento nazionale con D.M. 6/11/1967,  è ancora di proprietà privata. I timidi e mai convinti tentativi di acquisizione fatti dalle amministrazioni comunali di Galatone non hanno mai avuto efficaci risultati. Eppure l’unicità di un castello “fossile” giunto sino a noi dal passato, senza essere stato manomesso nelle epoche successive, avrebbe spinto chiunque dotato di buon giudizio,  non dico di amore per la propria Terra ma almeno di spirito imprenditoriale, a cercare di fare l’impossibile per assumerlo ai beni comunali, ai beni pubblici. Come dice sempre Paul Arthur  “sarebbe opportuno acquisire il castello o eventualmente alcune aree limitrofe come bene pubblico.” Perché solo così si potrebbe studiarlo e valorizzarlo, cercando di decifrare i suoi messaggi nascosti e rendendo fruibili i suoi spazi emozionanti. 

Il Castello, insomma, è sopravvissuto al tempo, alle guerre, alle radici degli alberi ed al sacco dei contadini; resisterà anche alla scarsa lungimiranza degli amministratori?

Non resta che sperare.

L’articolo integrale è stato pubblicato in Spicilegia Sallentina n°6

1581. Accordi per la sorveglianza del territorio di Nardò

di Marcello Gaballo

Nel 1581 Marco Antonio Bello di Galatone ed Annibale Causularo, residente a Nardò, stipulano una convenzione con il sindaco dei Nobili dell’ epoca, Filippo Sambiasi, ed il sindaco del popolo Girolamo Burdo per il servizio della scorta a cavallo in la marina di detta città per un anno continuo, dal 15 ottobre in poi.

In primis si conclude che se i due guardiani omettessero di saltare un turno di giorno o di notte, come prevedeva l’ ordine regio, i sindaci avrebbero potuto nominare al loro posto “dui altre persone a cavallo per fare detta scorta”, a loro spese.

Il compenso pattuito è di quattro ducati ciascuno per ogni mese.

L’ anno successivo gli stessi Sindaci stipulano un’ altra convenzione con Camillo Gaballo e Paolo Russo alias Calabrese, entrambi di Nardò, i quali si impegnano a guardare et custodire tutto il territorio di detta città di Nardò per dui miglia intorno alla città a patto che non si faccia danno alcuno alle seminate et possessioni fruttifere et soi cittadini o abitanti, pena il pagamento da parte degli stessi guardiani a eventuali danni causati.

Dalla custodia sono escluse le masserie del territorio, tanto che se i due si renderanno conto di danni a tali strutture, non abbiano obblighi di denuncia al proprietario delle stesse.

Il compenso pattuito è di 7 ducati ognuno per ciascun mese di guardiania, a cominciare dall’ 11 gennaio e per un anno.

Giuliano Giunchi. Un amico perduto…

Nel pomeriggio di oggi, 12 marzo 2010, ci ha lasciati l’amico Giuliano.

Trovare parole per esprimere la sua poliedricità, la cultura, l’amore per la scrittura, è difficilissimo. Lo ricordiamo con commozione anche per il sostegno dimostratoci  e l’incoraggiamento offerto nel continuare a redigere la nostra Rivista. Grazie Giuliano!

Giuliano Giunchi nasce a Bagnacavallo (RA) l’8 luglio 1944. Trascorsa l’infanzia a Ravenna si sposta a Forlì, dove segue l’intero corso di studi diplomandosi Perito Chimico Industriale. Dopo essere diventato gommologo per caso, girovaga per trent’anni nei laboratori di ricerca (di base e applicata) di mezza Padania. Avendo infine raggiunto il, per lui, congeniale stato di pensionato si ritira a Piovera (AL), comune piccolissimo ma sagacemente amministrato. Qui si dedica ai suoi hobby preferiti: letteratura odeporica, scrittura demenziale, statistica e giochi di parole. Nel 2001 ha pubblicato un romanzo, Finale di partita, il cui protagonista gioca a scacchi come l’Autore, cioè malissimo.

Il mistero dei segni: divagazioni in margine a una svista

di Giuliano Giunchi

Devo la lettura de “Il mistero dei segni” alla gentilezza di uno degli autori, il Dottor Marcello Gaballo, che mi ha fatto omaggio di una copia. È un libro affascinante, veramente ammirevole sia per i contenuti che per la veste grafica, e anche per l’accuratezza dato che non vi ho trovato neanche un errore di stampa. (Da quando, a 15 anni, ho guadagnato i miei primi soldi correggendo le bozze di un testo del mio professore di chimica, il mio cervello si è scisso in due, per cui mentre una parte segue il contenuto di quello che leggo l’altra va a caccia di refusi. Quindi se dico che non ho trovato refusi, al 99% vuol dire che non ce ne sono). È chiaro che su una base di così uniforme nitore e perfezione un eventuale errore spiccherebbe

Noterelle di metereologia salentina

di Marcello Gaballo

 

Le grandi piogge di questo periodo, inusuali per la stagione e per i nostri luoghi (ma ricordate che in altri anni avevamo già cominciato a fare il bagno al mare?), dal nostro popolo erano considerate una vera manna dal cielo.

L’acqua avrebbe giovato alle piante del grano in piena maturazione, agli ortaggi, agli ulivi, oltre a riempire le cisterne e rifornire le falde da cui attingere l’acqua tramite i pozzi.

Accadevano raramente e per questi graditi eventi il nostro popolo pensò di coniare due bellissimi proverbi, che propongo in vernacolo e con la traduzione più vicina in lingua italiana:

‘ale cchiù ‘n’acqua ti marzu e ddoi ti ‘bbrile cca ‘na carrozza cu totte li tire
(vale tanto una pioggia in marzo e ancor più due in aprile, più del valore di una carrozza con tutti i suoi armamenti).

Ci ‘uei cu bbiti la massara pumposa, Natale ‘ssuttu e Pasca muttulosa
(l’autentica felicità della contadina la vedrai quando piove poco d’inverno e molto in primavera. Troppa acqua in inverno farebbe imputridire le sementi, che invece se ne giovano con le piogge di primavera).

Saggezza popolare forse desueta, ma sempre saggia… o no? a patto che Giove pluvio non esageri!

Il Labirinto metrico di Oronzo Pasquale Macrì

Poesia visiva. Il Labirinto metrico del magliese Oronzo Pasquale Macrì (1738-1827)

 

di Cosimo Giannuzzi

 

Oronzo Pasquale Macrì (1738-1827) fu un sacerdote ed insegnante di matematica nei seminari ecclesiastici di Otranto e Gallipoli. Maglie, suo paese di nascita, ha eluso per più di un secolo l’obbligo morale di mostrargli riconoscenza, pur essendo il Macrì di gran lunga più meritevole di considerazione dei tanti suoi detrattori ai quali nel tempo sono state intitolate strade, piazze, opere pubbliche.

Quando era in vita, godette della stima di alcuni fra i più autorevoli intellettuali del Salento come S. Panareo, B. Ravenna, L. Maggiulli. Quest’ultimo ne raccolse gli scritti e ne curò la biografia, pubblicata nel Dizionario Biografico degli Uomini Illustri di Terra d’Otranto. O. P. Macrì è stato il primo ad interrogarsi sull’origine di Maglie credendo, a torto o a ragione, di riconoscerla attraverso l’interpretazione del toponimo.

Libri/ Maravà

MARAVÀ ovvero Come scrivere un buon libro senza arrampicarsi sulle nuvole. (Riflessioni critiche di Antonio Porzano)

 

«Quella favola sol dèe approvarsi

Che di menzogna l’istoria non cuopre

E fa le genti contra i vizi armarsi»

(T. Campanella, A’ poeti)

 

Conobbi Gianni De Santis, autore del libro oggetto delle mie modeste riflessioni (come asino sape, così minuzza rape, sentenzia un adagio medioevale), per caso, al Mocambo, ristorante dell’amico Vito Maniglio in quel di Sternatia, dove non è raro fare sorprendenti conoscenze, poiché Vito è una calamita umana, capace di attirare nel suo pandochèion/deipnotèrion persone che – quasi sempre – ti rendono migliore la serata.

A Santa Maria di Leuca, una Madonna dalla carnagione bruna

di Rocco Boccadamo

 

Di S. Maria di Leuca, per le sue peculiari connotazioni di incomparabile attrattiva paesaggistica all’estrema punta dell’italico tacco, esiste una diffusa conoscenza ormai a tutto campo, non solo in Italia, ma anche all’estero. Dell’ascesa qualitativa di detta località, da sempre particolarmente cara ed amata come poche altre, i salentini non possono che sentirsi orgogliosi, anzi felici. Nello stesso tempo, si rende però opportuno che, da parte di tutti, vengano «difese» con sano spirito di gelosia le naturali e preziose bellezze del piccolo centro e dei relativi dintorni: l’accostamento di un sito della propria terra e delle proprie radici ai più rinomati posti del turismo di élite deve costituire senza dubbio motivo di soddisfazione e di gratificazione, ma non indurre a trascurare eventuali eccessi e spinte all’iperattivismo di qualche operatore senza scrupoli (col rischio di deturpazioni e scempi ambientali), allettato dal miraggio di speculazioni a portata di mano e di facili profitti. Ad ogni modo, a parte la doverosa cornice di approccio, qui si vorrebbe soprattutto porre in evidenza una particolare inquadratura di osservazione, che, forse, ai più sfugge. All’interno dell’antico Santuario di S. Maria de Finibus Terrae, ora elevato al rango di Basilica, dominante un ampissimo orizzonte a fianco dell’imponente faro che svetta sul promontorio a punta e terminale della penisola salentina, alla sommità dell’altare trovasi collocato un quadro, assai venerato, con l’effige della Vergine. Il volto della Madonna, difformemente dalle sfumature di colori cui si è tradizionalmente abituati osservando analoghe riproduzioni classiche o attuali, in questo caso reca un colorito non chiaro o roseo, ma decisamente bruno. Al che, viene da pensare che l’estro e il pennello dell’autore si siano con precisa volontà ispirati fedelmente all’incarnato tipico delle donne del sud in genere, e delle donne di queste plaghe in particolare, incarnato che si presenta spesso bruno o olivastro: dunque, la Madre di Dio che si pone allo sguardo della gente giustappunto con l’identico volto di molte, di tutte le madri comuni. Quanta profonda espressività in tale volto e in tali tratti! Quanta aderenza alla vita e ai suoi travagli, turbamenti e sogni! In chi scrive, l’effige della Madonna di Leuca ha determinato un’emozione forte e intensa sin da epoca lontana, a partire cioè dalla prima opportunità di ammirarla in occasione del pellegrinaggio itinerante del quadro per tutti i paesi del Capo, svoltosi nell’anno 1949, e dalla visita di devozione al Santuario, effettuata insieme con la famiglia, nel maggio del medesimo anno.Nel gruppo, era presente anche una giovane mamma di trentadue anni (la quale portava in grembo il sesto figlio), una mamma che, ancora giovane, nell’estate 1966 se ne è volata lassù a raggiungere la sua Madonna bruna.

Libri/ Giulio Cesare Vanini da Taurisano filosofo europeo

De Paola Francesco, Giulio Cesare Vanini da Taurisano filosofo europeo, con nuovi documenti e testimonianze; introduzione di Giovanni Dotoli, Fasano (Brindisi), Schena Editore, 1998.

Impostato su basi scientifiche e privo di ogni intento di provinciale celebrazione, questo libro, diffuso ormai in numerose biblioteche europee ed americane, offre la più completa biografia su Vanini, con documenti tratti dall’Archivio di Stato e Biblioteca Nazionale di Napoli; Archivio di Stato, Fondazione Giorgio Cini e Biblioteca Marciana di Venezia; Archivio di Stato e Archivio Arcivescovile di Padova; la Biblioteca del British Museum, il Public Record Office, la Lambeth Palace Library, la Mercers’ Company Library e la National Gallery di Londra; l’Archivio General de Simancas e la Biblioteca Nazionale di Madrid; la Bibliothèque Nationale di Parigi e il suo Département de Manuscrits; gli Archives Nationales di Parigi; l’Archivio Segreto Vaticano e la Biblioteca Vaticana di Roma; gli Archives Départementales de la Haute-Garonne di Tolosa; le Bibliothèques de la Ville de Toulouse; la Bibliothèque de Mr. Cousin alla Sorbonne di Parigi.

Uno dei più affascinanti e misteriosi esponenti del tardo Rinascimento italiano, l’ex frate carmelitano napoletano, Giulio Cesare Vanini, trova in questo libro molte spiegazioni su alcuni dei momenti cruciali della sua esistenza.

La vita di Vanini è stata accuratamente esplorata in quegli che la storiografia su di lui indica come i momenti cruciali della sua esistenza:
– la sua formazione umana e culturale (di origine napoletana o padovana ?);

– i motivi del suo allontanamento dal convento di Padova, dove egli avrebbe dovuto conseguire la laurea in Sacra Teologia;
– le ragioni e le modalità della sua precipitosa fuga in Inghilterra;
– descrizione di alcuni episodi relativi alla permanenza nella sede arcivescovile di Lambeth, ospite dell’arcivescovo Abbot, Primate d’Inghilterra;
– le modalità e la fuga dall’Inghilterra e il ritorno nel mondo cattolico, viste attraverso i dispacci di quattro diplomazie diverse e parallele (quella inglese, spagnola, vaticana e della Repubblica Veneta);
– le ragioni del mancato rientro in Italia, i suoi problemi con l’Inquisizione romana e la scelta di rimanere in Francia;
– le circostanze che condussero alla pubblicazione delle sue due opere e il suo contributo al Libertinismo francese;
– la sua permanenza in Francia, le sue amicizie, le cause che condussero alla sua rovina e alla morte atroce sul rogo a Tolosa e lo svolgersi di quei tragici eventi;
– i motivi che lo portarono ad assurgere al ruolo di martire e di portatore in Europa di un pensiero anticattolico, ma anche di nuove ed importanti intuizioni scientifiche.
I risultati e le conclusioni finali mostrano molti aspetti sconosciuti della sua tormentata esistenza, ma mettono anche in evidenza i grandi meriti di questo pensatore, che esportò in alcun paesi d’Europa le più brillanti acquisizioni della cultura rinascimentale italiana.
Le fasi finali della sua vita in Parigi e in Tolosa, la sua tragica morte sul rogo, i suoi seguaci, i suoi amici e i suoi nemici, lo strano processo davanti al Parlamento di Tolosa, la sua posizione nei riguardi del Libertinismo francese, tutto è accuratamente descritto per quegli studiosi che volessero ricercare le matrici culturali del passaggio dal Medioevo al Rinascimento e al Razionalismo attraverso l’approccio ad una delle più brillanti figure del periodo.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!