L’inaugurazione del Cinema Excelsior a Marittima

di Rocco Boccadamo

Il 1950, sebbene ormai così distante, costituisce a tutt’oggi una data particolarmente impressa nella mia mente, giacché ha coinciso con due eventi di particolare rilievo che suscitarono attenzione, interesse ed entusiasmo nel ragazzino di nove anni quale io ero all’epoca: l’Anno Santo proclamato in modo solenne da Papa Pio XII e l’apertura di una sala cinematografica nel piccolo centro dove abitavo.

Il primo avvenimento, di risonanza mondiale, segnò l’afflusso nella Città Eterna, cuore del cattolicesimo, di grandi masse di fedeli provenienti da ogni continente e fu da me seguito e partecipato, ovviamente a distanza, attraverso le informazioni che ascoltavo in chiesa e tramite i servizi radiofonici (la televisione non era arrivata).

Ebbi la percezione e il segnale del primo vero e proprio evento di massa; nonostante la giovanissima età, riuscii a cogliere, grazie agli anzidetti mezzi e canali alla buona, le cerimonie e le tappe principali di quella celebrazione universale.

Quanto al secondo fatto – chiaramente di dimensioni, significato e spessore del tutto più circoscritti e particolari – mi fu, invece, dato di vederlo nascere, maturare e arrivare al compimento, con materiale vicinanza, momento per momento.

Di quei tempi, le sale cinematografiche non erano molto diffuse nei paesi della provincia; per trovarne una, dalla mia  Marittima occorreva spostarsi a Spongano ( 4 Km), oppure a Poggiardo ( 6 Km), oppure a Tricase ( 10 Km), oppure a Maglie (16 Km).

La notizia che un gruppo di marittimesi si era fatto promotore di una specie di consorzio per edificare in loco un cinematografo, fu perciò accolta con unanime favore.

Non ci volle molto perché, dalla formulazione del progetto, si passasse alla concreta esecuzione dei lavori edili, all’acquisto delle apparecchiature, degli arredi e degli attrezzi, sino al completamento e alla definitiva messa a punto dell’opera.

Per fine ottobre 1950, fu annunciata l’inaugurazione e l’apertura al pubblico della sala; ricordo nitidamente che il primo film in proiezione s’intitolava “Notti di Paradiso” e che i biglietti d’ingresso costavano 30, 40 e 60 lire, rispettivamente per platea ragazzi, platea adulti e galleria.

Ovviamente, io contavo i giorni e le ore, fiducioso, se non proprio sicuro, di poter essere tra gli spettatori della prima.

Sennonché, manco a farlo apposta, giusto nei giorni coincidenti con l’apertura, mio padre dovette assentarsi da casa per accompagnare in collegio il mio fratello primogenito, in una località nelle vicinanze di Roma, e, senza la presenza di mio padre, la speranza e l’attesa  finirono col trasformarsi in una profonda e dolorosa delusione.

Con animo pieno di tristezza e di rammarico, sostai a lungo, il pomeriggio dell’inaugurazione, nei pressi del cinema Excelsior, ma non potetti fare altro che osservare tante persone del paese, fra cui diversi miei compagni, e pure genti arrivate dai dintorni, mentre facevano ingresso con l’abito della festa nelle sale nuove di zecca.

Giocoforza, dovetti quindi accontentarmi d’inaugurare la mia “stagione” al cinema Excelsior dopo alcuni giorni, assistendo alla proiezione di un’altra pellicola.

Libri/ La civica Università di Taurisano nel 600

De Paola Francesco, La civica Università di Taurisano nei Registri del ‘600 dell’antica Terra d’Otranto, Casarano (Lecce), Carra Editrice, 2005.

Questo lavoro propone al lettore le Numerazioni dei Fuochi dell’antico casale di Taurisano del 1632 e 1643.

Tra la documentazione relativa alla vita delle comunità dell’ex Regno di Napoli nel ‘500 e nel ‘600, le Numerazioni dei Fuochi, su cui essenzialmente si basa questo lavoro, erano i periodici censimenti della popolazione che le massime autorità di Napoli facevano effettuare da funzionari appositamente inviate nei territori da loro governati, al fine di stabilire l’identità e la quantità degli abitanti, sulla base delle quali fissare poi le quote fiscali dovute dalle singole Università alle autorità centrali.

Dalla lettura di esse e dai registri dei numeratori emerge una grande ricchezza di notizie ed il lettore vi potrà rinvenire tutti i nomi degli abitanti, la loro età, la composizione delle loro famiglie; note su alcuni mestieri o professione; sulla struttura della popolazione per sesso, età e stato civile; notizie sui costumi e sull’ordinamento sociale del tempo; sui servizi disponibili e sulle attività praticate nella Universitas civium, nella comunità; sulla mobilità della popolazione; cenni sulle fonti e sulla distribuzione della ricchezza tra gli addetti all’agricoltura, tra gli artigiani e i praticanti di alcune professioni; sulle strutture del quotidiano e sulla qualità e lo snodarsi della vita; sui prezzi d’acquisto di alcuni beni primari e sulla loro diffusione sul territorio; su alcuni tragici episodi del tempo, quali l’imperversare della peste e gli assalti dei Turchi sulle nostre terre; sui luoghi di culto, sul tipo di rito religioso praticato, greco o latino / greco e latino, e sul loro avvicendarsi; sui rappresentanti delle autorità civili e religiose nel corso del secoli XVI, XVII e XVIII; notizie sulla vita del padre, dei fratelli e del nipote del filosofo Giulio Cesare Vanini; ed altri elementi di confronto o semplice curiosità, che il lettore potrà facilmente ricercare e trovare al fine di ricostruirsi uno spaccato di vita di epoca tardo-medievale e moderna, semplice e posta nell’antica Terra d’Otranto.

I dispetti del folletto domestico salentino

di Marcello Gaballo

Il nostro folletto domestico, assai simile al brownie britannico e agli elfi della nota letteratura europea, viveva tra le mura di alcune case di campagna, negli anfratti di cavità naturali, in angoli nascosti di masserie, con particolare predilezione delle stalle, talvolta nelle dimore cittadine, qui scegliendo la “rimesa” o lo “stanzino” (deposito a pianterreno), tra le poche masserizie qui raccolte. Raramente alloggiava nella “casscia” (cassapanca), tra le coltri e la dote femminile accumulata nel corso dei decenni.

Tanti anni fa, ancora universitario, la leggenda del “munaceddhu”, variamente denominato (lauru o laurieddhu, scazzamurieddhui, sciacuddhuzzu), mi ispirò due atti che rappresentai con un certo successo con il gruppo teatrale di “Nardò Nostra”.

Avevo raccolto le ultime testimonianze dei nonni e di quanti erano stati “visitati” dallo straordinario personaggio, comprendendo appieno la sua importanza nella cultura e nell’immaginario salentino. 50 centimetri, esile, brutto, imberbe, vestito con tonacella marrò, cappellino rosso porpora, saccoccia appesa alla cintola, scalzo. Così lo ha descritto un mia lontana parente, giovane, circa vent’anni fa, conformemente con quanto aveva scritto un secolo prima un nostro sociologo salentino, L.G. De Simone, ne La vita nella terra d’Otranto (1876): “piccoletti alti tre spanne, bruttini, foschi, pelosi, vestiti di panni color tabacco, con cappellini in testa e d’ordinario scalzi”.

disegno di Daniele Bianco

Notoriamente dispettoso, era solito disturbare nelle ore notturne rompendo coperchi, battendo sulle pentole, rovesciando “capase”, fino a saltellare sul torace dei dormienti, tanto da rendergli difficoltoso il respiro. Le sue attenzioni erano particolarmente rivolte alle fanciulle, alle quali era solito fare il solletico, tirargli i capelli, più spesso premendogli sul ventre, manifestandosi in particolare poco prima del ciclo mestruale.

Non risparmiava neppure i cani, sul dorso dei quali spesso sedeva fino a farli “scunucchiare” per il peso, evocando strazianti guaiti. Particolarmente “antipatici” dovevano stargli i cavalli, cui spesso svuotava le mangiatoie per farli morir di fame, strigliandoli o intrecciandogli la coda e la criniera.

Libri/ Il monastero di S. Chiara in Nardò

 

Il monastero di S. Chiara in Nardò, quaderno degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, apre la nuova serie di una produzione libraria, che si preannuncia sin da ora molto interessante.

L’auspicata promozione e valorizzazione del bene culturale, più volte propagandata da Mons. Garzia, ha trovato degno erede nel suo successore Mons. Vittorio Fusco, che ha incoraggiato e sostenuto questa ultima opera a stampa, curata da don Santino Bove Balestra e Marcello Gaballo.

Come è anche scritto in copertina, si tratta di una miscellanea di Studi nell’VIII Centenario della nascita di Santa Chiara d’Assisi, presentata in elegante volume di 325 pagine (edizioni Panico-Galatina), in ottavo, con numerosi disegni e foto in bianco/nero e colore, tra cui un prezioso ostensorio argenteo settecentesco, riprodotto in quadricromia sulla copertina e nell’interno .

Presentato da Mons. Fusco ed introdotto da d. Santino Bove, il volume si inserisce a pieno titolo tra le opere a stampa più prestigiose della giocesi, per essere, tra l’altro, corredato di numerosi documenti storici che avvalorano le tesi sostenute dai diversi Autori nei loro saggi.

Una particolare attenzione merita a tal proposito l’eccellente ed ampio contributo di Maria Rosaria Tamblè, che rivisita date e vicende della nostra storia religiosa, specie del periodo medievale, in più occasioni tramandateci artefatte e come tali riprese dagli Autori successivi.

Di taglio diverso, ma altrettanto importanti, sono i saggi dell’abbadessa Diana Papa e del prof. don Marcello Semeraro, per le considerazioni, e le riflessioni che spontaneamente derivano, riguardo la vita consacrata e l’ esempio sempre attuale della “pianticella” di Francesco, Chiara di Assisi.

Accrescono il pregio del volume i due contributi di Luisa Cosi e Marta Battaglini, l’uno concernente l’attività musicale tenutasi nella chiesa nei secoli XVII-XVIII, grazie alla partecipazione di musicanti ed orchestrali di tutta la provincia; l’altro mirante a descrivere e far conoscere l’inedito e prezioso paliotto del nostro monastero, gioiello dell’arte del ricamo.

Nuovi spunti per la ricerca offre il saggio di Marcello Gaballo su un’autentica cronotassi delle badesse e le origini familiari delle sorelle ospitate nel corso dei secoli, quasi tutte nobili “per censo e per titolo” ed in buona parte dirette discendenti dei duchi Acquaviva. Più tecnico, ma comunque interessante, il secondo contributo dello stesso Autore, che si sofferma sull’evoluzione dell’insegna francescana, sull’abito e sul sigillo delle monache.

Altri ausili per gli studiosi vengono poi offerti dall’indice delle scritture del monastero, finalmente reso noto, grazie al paziente e qualificato lavoro offerto da Alessandra Carucci e Paola Valentini, e dalla riedizione del catalogo del “Dono di S. Chiara”, scritto da Maria Teresa Tafuri da Melignano.

Altrettanto importanti, perché inedite, sono le riproduzioni delle bellissime tele conservate nel convento: le foto a colori di alcune di esse, buona parte di scuola napoletana sei-settecentesca, impreziosiscono ulteriormente il volume. Spiccano per la preziosità e la fattura quelle del Solimena e del Lucatelli, oltre a quella cinquecentesca del neritino Antonio Donato d’ Orlando (Vergine Maria con S. Domenico e S. Caterina).

Il lavoro, molto apprezzato e richiesto, più volte recensito sui giornali ed in televisione, è stato presentato nel pomeriggio del 4 aprile 1998, nella suggestiva sala d’accoglienza del monastero clariano, organizzato dall’Ufficio Diocesano dei Beni Culturali.

Di fronte a numeroso pubblico sono intervenuti Mons. Salvatore Palese, la Dott. ssa Porcaro Massafra ed il Dott. Antonio Cassiano, moderati dal Prof. Benedetto Vetere, che hanno sottolineato l’importanza del volume nei suoi contenuti e nelle diverse piste che esso offre per una ricerca solo apparentemente conclusa.

Migranti dalla Puglia

di Gianni Ferraris

Il treno merci è sul binario. Lunga la strada che deve percorrere. Lecce, Brindisi, Taranto, Bari, Foggia, Torino. Il percorso che era dei migranti che dalla Puglia partivano con le loro valigie di cartone, con arance e formaggi e pane. Sicuramente senza gioia, certamente con l’angoscia per quel che si lasciavano alle spalle e la speranza in un futuro che fosse rassicurante, che portasse la certezza della sopravvivenza. La mostra “Migranti”, è organizzata dalla Regione Puglia. Simbolicamente proprio su un treno.

Si entra con curiosità, piano piano scende la malinconia che si trasforma in angoscia e rabbia nel vedere quelle fotografie,  ascoltando la colonna sonora che accompagna i visitatori. Non è musica, non solo. Sono le voci narranti di Michele Placido (Foggiano), di Mario Perrotta (leccese), di Sergio Rubini (da Grumo di Puglia – BA) di Cosimo Cinieri (tarantino) che leggono e narrano storie di migrazione, di lacerazioni, di uomini e donne. E sono spezzoni di film sull’emigrazione. Quelli che hanno fatto la storia del cinema italiano. Passano fotogrammi di “Così ridevano”, di “Rocco e i suoi fratelli”, di “Pane e cioccolata” e si termina con “Lamerica”.

Il percorso nei vagoni si snoda in tre settori:

-L’emigrazione pugliese negli Stati Uniti,

-Quella in Europa e nel nord Italia,

-L’immigrazione.

Arrivando alla fine, al settore immigrazione, successiva alla caduta del muro di Berlino, si vedono immagini di navi stracariche all’inverosimile, in modo disumano, di Persone. E sono le stesse immagini dell’inizio della mostra, quando altre navi portavano altre Persone negli Stati uniti. Stipate nello stesso modo, con sguardi simili, rassegnazione mista e volontà di farcela.

Il catalogo, molto bello e ricco, cita Francesco Compagna e il suo “Terroni in città” (Laterza, 1959) dove dice “Certo, la strada dell’emigrazione è tanto dolorosa quanto antica, dura sempre, rischiosa spesso, qualche volta tragica; ma chi si incammina su di essa lo fa di propria deliberata volontà perché non vuole più restare sulla piazza del paese, intorno alla fontana”.

Così il sogno americano  fa imbarcare migliaia di Persone per il nuovo continente che li accoglie spesso con disprezzo. Già il viaggio era disumanizzante.

“La mortalità infantile, durante la traversata, a causa del morbillo, della scarlattina e della varicella, rappresentava la metà dei decessi… Per non soffrire il freddo e l’umidità, sui materassi si stava vestiti e con le scarpe, e in qualche modo il posto letto si riduceva ad una cuccia per cani. A viaggio compiuto, quando non veniva cambiato, era un sudiciume di insetti pronto a ricevere un nuovo emigrante…. Chi sfuggì al colera a Napoli nel 1911, rischiò la morte per colera durante il viaggio… A bordo si serviva solo un pasto al giorno, cibo appena accettabile, ma per molti era l’aspetto migliore del viaggio, abituati com’erano a patire la fame. La traversata per le americhe poteva durare anche un mese…”

E all’arrivo le visite mediche e le domande di rito:

“Come si chiama? Da dove viene? Perché viene negli USA? Quanti anni ha? Quanti soldi ha? Dove li tiene? Me li faccia vedere. Chi ha pagato la sua traversata? Ha firmato in Europa un contratto per venire a lavorare qui? Ha degli amici qui? Parenti? Qualcuno può garantire per lei? Che mestiere fa? Lei è anarchico?” 

Non pochi vennero rispediti indietro per sospetti sulla salute fisica, mentale, sulla politica. Quei respingimenti che causarono anche molti suicidi di chi non poteva rientrare sconfitto e decise di gettarsi in mare. La storia che si ripete. Gli ultimi ricacciati a mare da chi, senza ragione alcuna, si crede primo.

Per chi rimaneva iniziava una vita fatta di lavoro duro, di riscossa, di scontri con il razzismo e la xenofobia dilagante.

Gli italiani erano considerati “non white”, una via di mezzo fra la razza bianca e quella nera.

E solo pochi anni fa l’ex presidente guerrafondaio Richard Nixon arrivò a dire  : “Non sono come noi. La differenza sta nel fatto che hanno un odore diverso, un aspetto diverso, un comportamento diverso. Il guaio è che non se ne trova uno solo che sia onesto”

E un suo predecessore:

Abbiamo bisogno che ogni immigrato porti un corpo forte, un cuore robusto, una buona testa e una grande determinazione a compiere bene il proprio dovere. Non vogliamo e dovremmo rifiutare questi italiani, russi ed ebrei sporchi. Abbiamo già abbastanza sporcizia, miseria, crimine, malattie e morte per fatti nostri senza doverci accollare pure questi” (Franklin Delano Roosevelt, presidente USA dal 1933 al 1945).

Per gli americani, i nostri immigrati erano “BAT (pipistrello) perché considerati mezzi uomini e mezzi uccelli, Guinea con chiaro riferimento al fatto che erano visti come negri mezzi africani, WOP dal duplice significato di Guappo e come acronimo di Without Official Permission (senza permesso ufficiale)”.

Non andava meglio nell’America meridionale dove i contadini trovavano lavoro. Portavano con loro la voglia di tornare in Italia. Per questo venivano soprannominati “Golondrinas” (rondini).

E questa voglia di tornare dava diritto ai fazenderos di tenere gli italiani in vera e propria schiavitù. Spesso incatenati, bastonati, le donne violentate nelle piantagioni di caffè del Brasile e del Venezuela dove arrivavano con biglietto prepagato per il ritorno.

 La seconda parte della mostra riguarda l’emigrazione in Europa e nel nord Italia, anche qui Persone stipate in treni stracarichi diretti in Svizzera, Francia, Belgio, Torino, Milano, Genova. Nella sezione dedicata a Marcinelle campeggia il famigerato manifesto rosa e le fotografie di uomini e bambini neri di carbone, di donne che pregano mentre i soccorritori scendono nelle gallerie.  

E ancora la Germania e la Svizzera. Bambini nascosti nei bagagliai delle auto perché il lavoratore non poteva portare famiglia in territorio elvetico fino agli anni 70. Bimbi che non potevano uscire di casa. Che frequentarono scuole elementari e medie clandestine, sotto la protezione delle parrocchie e delle comunità religiose. Gli italiani soprannominati “Cincali” (zingari, dispregiativo) o “Macaroni”. In Germania vivevano in sobborghi. Veri e propri ghetti. Erano poveri, spesso analfabeti.

L’immigrazione è storia recente, attuale. Dopo la caduta del muro di Berlino, la Puglia si trovò ad accogliere navi stracariche di umanità. Il sogno dell’Italia paese libero, delle cinque reti televisive con una scintillante Raffaella Carrà e ballerine seminude, era la meta. La voglia di libertà sta in quella fotografia della ragazza albanese con un cartello  con scritto in pennarello:  “we whant tu be free” (vogliamo essere liberi). Conosceranno l’Italia, quella che accoglie e quella che respinge. Soprattutto conosceranno l’Italia che sta davanti allo schermo, non dietro le telecamere.

Il catalogo si chiude con una citazione dell’antropologo Levi Strauss sulla quale è bene riflettere:  “E’ necessario preservare la diversità delle culture in un mondo minacciato dalla monotonia e dall’uniformità. La tolleranza non è una posizione contemplativa, è un atteggiamento dinamico, che consiste nel prevedere, nel capire, nel promuovere gli sviluppi di ogni cultura. La diversità delle culture umane è dietro di noi, attorno a noi, davanti a noi.”

E’ una mostra da vedere, magari con le scuole. Chi, al nord, vorrà recarsi a Torino, potrebbe adottare per qualche ora un leghista, fargli vedere le sue radici (fra il 1900 e il 1940 il Piemonte era al secondo posto come immigrati con 1.413.589 persone, dopo la Sicilia con 1.624.517). Se capirà sarà una buona azione verso l’umanità intera, se non comprenderà il messaggio vuol dire che ha poche speranze di progredire, con buona pace per l’evoluzionismo.

 n.b. Le parti in grassetto sono citazioni del catalogo.

La visita alla mostra è gratuita. Il catalogo è in vendita a € 15.00.

Le date:

Lecce 20 – 24 febbraio – Brindisi 25 – 28 febbraio – Taranto 1 – 4 marzo – Bari 5-11 marzo

Foggia 12 – 15 marzo – Torino 18 – 21 marzo

Il sito : www.migrantipuglia.it

Libri/ L’Università di Casarano nel Catasto antico

De Paola Francesco

 L’Università di Casarano nel Catasto antico del 1722

Manduria (Taranto), Barbieri Editore, 2004. Documenti di Storia Patria – 25.

Questo lavoro intende cogliere un momento, seppure statico, dello sviluppo storico di una comunità, quella di Casarano, quale risulta dal Catasto antico del 1722, ed offrire momenti di riflessione sulla identità, quantità e qualità dei suoi abitanti, citati individualmente; sulle loro abitazioni, sui flussi migratori da Casarano verso i centri vicini e da questi verso Casarano; sulle disposizioni legislative e sugli organismi direttivi e di esercizio del potere civile, religioso ed economico.

Il lettore vi potrà rinvenire elementi per un utile confronto con altre realtà analoghe dell’antica Terra d’Otranto; sui mestieri, sui servizi disponibili e sulle attività praticate nella universitas civium, nella comunità; sulla composizione socio-professionale dei capi-famiglia; sulla struttura della popolazione divisa per sesso, età e stato civile, in valori assoluti e percentuali; sulle fonti e sulla distribuzione della ricchezza tra gli addetti all’agricoltura e tra gli artigiani; sul flusso e il prestito del denaro; sull’affitto di immobili e rendita degli stessi; sui tipi di colture praticate; sulla qualità della vita; ed altri elementi di confronto o semplice curiosità che il lettore potrà facilmente ricercare e trovare al fine di ricostruire lo spaccato di vita di un Settecento semplice e posto alla periferia del Regno.

Santa Barbara su llu campu

di Gianni Ferraris

Santa Barbara su llu campu

ci nu time né troni né lampi,

stae unita cu lu Spiritu Santu.


Spiritu Santu nu durmire

ca sta bisciu tre vascelli vanire:

uno t’acqua, l’addu te ientu,

l’addu cu luntana Gesù Cristu lu maletiempu.


(Santa Barbara* sul campo** che non temi né tuoni né lampi, stai unita con lo Spirito santo. Spirito santo non dormire che ho visto tre vascelli venire, uno d’acqua, uno di vento, l’altro con Gesù Cristo che allontana il maltempo)

Questa è la preghiera, o la formula magica, che spezza le trombe marine. Se la tramandano i pescatori di padre in figlio. Per essere efficace deve essere insegnata la notte di Natale e recitata solo in caso di forte maltempo e, appunto, di trombe marine. Ha la facoltà di romperle prima che raggiungano la costa e, quindi, la città. Narrano di un vecchio che la recitava dal molo, con i capelli scompigliati  dal vento .

Città di pescatori dove solo la superstizione o la fede estrema possono contro le mareggiate improvvise che arrivano quando le barche sono in mare   minacciate e la paura di non veder tornare i pescatori è grande.

E le donne restano in casa a pregare, oppure si avvicinano al mare e gettano pezzetti di pane. Non un pane qualunque però.

Il giorno di Sant’Antonio le famiglie che hanno avuto benefici durante l’anno trascorso  fanno dei pani, li portano in chiesa perchè siano benedetti, e ne distribuiscono ai vicini, ai parenti e agli amici. Un po’ lo si mangia, ma una parte viene gelosamente custodita e verrà utilizzata quando arriva qualche mareggiata e le barche non si vedono ancora all’orizzonte. Solo allora le donne prendono il prezioso pane, vanno in riva al mare e ne gettano briciole. E’ un richiamo per i loro uomini perché rientrino, ed un modo per placare la forza della natura. Gettando tra i flutti il pane benedetto, come a voler benedire il mare, divengono sacerdotesse loro malgrado .

Il mio amico Fabio è comandante di nave, ha conosciuto tutti i mari del globo. Un giorno, davanti a una stupenda pasta con le cozze, si parlava della paura che il mare spesso suscita. Lui è riuscito a riassumere con un concetto  efficace il rapporto che bisogna avere con l’acqua: “non deve mai essere temuto, deve solo essere rispettato”.
Lui lo fa con tutti gli strumenti che la tecnologia e l’esperienza di anni di navigazione gli hanno insegnato. Le donne Gallipoline lo facevano con riti propiziatori come il pane benedetto. Dove il mare è fonte di vita, dove le radici e la vita stessa degli abitanti dipendono da lui, non può esistere sentimento diverso da  rispetto ed amore. In altri luoghi un maledetto temporale estivo può spazzar via il raccolto di un anno. Qui minaccia la vita delle persone che di mare vivono.
Sacro e profano a volte si mischiano.

Il venerdì santo due sono le  processioni. Una inizia alle 18 per terminare alle 3 di mattino, accompagnata dalla banda e dalle confraternite. L’altra inizia alle 3 per terminare solo verso mezzogiorno. Processioni meste come la morte del Cristo richiede. Però esiste sempre la resurrezione. Solo allora la festa ha inizio. La mattina della domenica di Pasqua, dopo la solenne messa, viene bruciata la “Caremma”, il fantoccio di una vecchia appeso a vari angoli di strada. E’ una figura di fatta di pezze che viene issata 7 domeniche prima di Pasqua,  ha un’arancia dove vengono conficcate 7 piume di gabbiano, ogni domenica una viene tolta, quando rimane senza piume la Pasqua è arrivata e la vecchia viene bruciata.

La Caremma ( forse dal francese “careme”, quaresima) è una figura comune a tutto il Salento,e incarna  la miseria, la quaresima, appunto, che viene sacrificata per auspicare buona sorte. Per quanto riguarda Gallipoli la leggenda vuole che la Caremma fosse la mamma del Titoru (Teodoro). Tornato dalla guerra affamato il giorno di carnevale, il Titoru inghiottì una quantità talmente grande di polpette da rimanerne soffocato. Ogni carnevale si raffigura il suo funerale. La Caremma iniziò a inviare maledizioni a tutti i Gallipolini i quali, la domenica di Pasqua esasperati (o forse impauriti) la appesero e la bruciarono.

La Quaresima è finita. Cristo risorge e si festeggia. La vecchia con le sue maledizioni e i patimenti deve essere distrutta. E’ una sorta di resurrezione della speranza.

 

* Santa Barbara è la protettrice della marina militare.
**il campo è un isolotto di fronte a Gallipoli. Antico lazzaretto.

Libri/Nardò Sacra

 

 

Emilio Mazzarella, Nardò Sacra, (a cura di Marcello Gaballo) Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Congedo Editore, Galatina 1999. ISBN 8880862758

Dalla PREFAZIONE di Marcello Gaballo al volume:

è un patrimonio notevole quello delle chiese neritine, anzi rappresenta la maggior parte dei beni culturali che la città possiede e sui quali si può puntare per far decollare il paese, in tempi di accresciuta sensibilità per le espressioni storico-artistiche, che sono sotto i nostri occhi e che abbiamo sottovalutato per troppo tempo, perdendo di vista l’interrelazione profonda del futuro della città col suo passato e con la sua identità.

E’ un patrimonio straordinario che lentamente si è formato nel corso dei secoli, col contributo delle diverse gentes che hanno animato per secoli la città: messapi, greci, romani, bizantini, normanni, ebrei, francesi e spagnoli.

Già alla fine del Medioevo si era registrato in città un incremento edilizio, stimolato dalle costruzioni dei nuovi ordini mendicanti dei Francescani e dei Domenicani che, a differenza dei Benedettini, preferirono scegliere le loro dimore nel centro abitato anziché nelle abbazie sparse nella campagna.
Il numero di chiese ubicate intra moenia civitatis, che ho voluto considerare come termometro dell’ evoluzione della stessa, già è cospicuo nel XV secolo: lo provano le visite pastorali di Mons. Ludovico De Pennis del 1452 e di Mons. Gabriele Setario del 1500, i quali ne visitano, rispettivamente, 28 e 51 (quest’ultimo numero, da attribuirsi, probabilmente, al rinnovamento urbanistico della città voluto dal duca Belisario Acquaviva d’Aragona).

Emerge chiaramente da recenti studi, ancora meritevoli di approfondimento, che è il periodo compreso tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo quello di maggior sviluppo.

E’ il rinascimento cittadino, in parte stimolato dallo zelo dei diversi vescovi napoletani, ma forse anche dai grandi Giubilei del 1575, 1595 e 1600, che faceva contare ben 55 chiese nella visita di mons. Bovio del 1581 e addirittura 69 in quella di mons. Luigi De Franchis del 1612. C’è lavoro per tutti e, fra i tanti mastri ed experti fabricatores impegnati, spiccano figure come quelle del Tarantino, degli Spalletta, dei Sansone, Pugliese, Dello Verde o ancora dei Maurico, che lavorano in città e in tutta la Terra d’ Otranto.
Ricchi e poveri, nobiltà e popolo, semplici sacerdoti ed alti prelati, tra cui molti vescovi aristocratici, concorrono congiuntamente, con l’ interessamento personale e con le offerte dei devoti, ad incrementare il patrimonio architettonico ed artistico di Nardò.

Non poco impulso a questa rinascita danno i primi Acquaviva d’Aragona, e primo fra tutti il citato Belisario, che probabilmente intendono trasferire nel proprio ducato quanto già avviene a Napoli ed in tutto il Regno. Si circondano essi di nobili cortigiani e di facoltosi faccendieri che a Nardò scelgono la propria dimora, supportando l’emergente ceto sociale, la borghesia, che con le sue attività produttive e mercantili, contribuisce a trasformare la città da centro quasi esclusivamente agricolo a luogo di scambi e di consumi.

Sono i duchi a rilanciare l’amore per le lettere, a fondare accademie, ad ingrandire chiese, a costruiscono il castello e diversi conventi: quando non bastano gli artisti locali, non di rado importano maestranze forestiere, con nuovi modelli e stili che poi, spesso, ispireranno gli artisti locali per la creazione di quanto, solo in minima parte, possiamo ancora ammirare.

La nuova nobiltà invece, proveniente da tutto il Regno di Napoli, gareggia nel suo ambito per comunicare la propria potenza economica, sociale e politica: sorgono sontuosi edifici e case palazziate, individuali e collettive, ricche masserie ed artistiche cappelle, sui quali di frequente spicca, quale signum proprietatis, lo stemma di famiglia.
Sul finire del secolo XVI gran parte degli atti notarili, oltre le frequenti compravendite di suoli e abitazioni, registra numerosi appalti per la costruzione di opere pubbliche e religiose.

Si realizza il nuovo palazzo di città, si ampliano i monasteri di S. Domenico e di S. Francesco, si realizzano ex novo quelli dell’Incoronata, di S. Maria di Costantinopoli, dei Cappuccini e del Carmine con le rispettive chiese. Si ingrandiscono le cappelle della Carità, di S. Maria del Ponte, di San Giuseppe, di S. Maria della Rosa e di tante altre minori. Il tutto, frequentemente, su disegno e progetto delle anzidette maestranze locali, che modellano abilmente la tenera pietra leccese, come già stava avvenendo in tutta la terra d’Otranto.

Ogni barone fa realizzare la propria degna sepoltura nelle cappelle laterali delle chiese, prediligendo S. Antonio da Padova o la Cattedrale, senza però tralasciare San Domenico, il Carmine, S. Francesco d’Assisi.
Si fortificano anche le masserie, si costruiscono le torri costiere, i ponti, le mura esterne all’ abitato; si ripavimenta anche l’intero centro urbano. Tutta la città è un cantiere.

La straordinaria rinascita purtroppo viene interrotta dalle mutate vicende politiche, che la tirannia di Giangirolamo II (1603-26/6/1665) rende sempre più intricate e difficili, sino ad arrivare alle sommarie condanne ed alle numerose morti, tra cui quelle dei gloriosi martiri neritini del 1647.
Il clima pesante e la delazione dei sicari, l’arroganza della nobiltà e gli odiosi balzelli, preoccupano sempre di più e ben poco pensiero rimane da dedicare all’arte e forse anche al culto, tanto da far registrare un vertiginoso decremento delle opere pubbliche e delle chiese: di queste, le sole intra moenia sono passate dalle 69 visitate da Mons. Luigi De Franchis (1612), alle 23 del Vicario Nicola Giorgio Corbino (1655).

Bisognerà aspettare almeno altri 70 anni, e cioè durante l’episcopato di Mons. Antonio Sanfelice (2/11/1707 – 1/1/1736) e quando gli Acquaviva si sono definitivamente trasferiti a Conversano, per assistere finalmente ad una ripresa della città e al rifiorire di chiese e confraternite.
I modelli napoletani importati dal celebre Ferdinando Sanfelice, fratello del vescovo, e dal non meno importante pittore Solimena, prevalgono dappertutto e l’ occasione, altrettanto funesta, del flagello del terribilissimo terremoto sortito in questa città à 20 febbraro 1743, determina una nuova fisionomia della città, in gran parte ricostruita e tuttora visibile.
Si realizzano le chiese di S. Maria della Purità e dell’annesso Conservatorio, le chiese di S. Trifone, S. Giuseppe, S. Lucia, S. Teresa, la guglia dell’Immacolata. Si rifanno gli interni di S. Domenico e dell’Incoronata, del Carmine e dei Paolotti e tante altre chiese minori, intra ed extra moenia, sorgono dovunque.
Nel frattempo sono scomparse le antiche abbazie e delle chiese di patronato familiare cinque-secentesche ne sopravvivono ben poche.

Cessate da molto tempo le incursioni piratesche e venuto meno il pericolo del brigantaggio, le nuove famiglie, per lo più forestiere, giuntevi più che altro per la fertilità dei terreni e l’ amenità dei luoghi, si trasferiscono in campagna e lì, per non mancare agli obblighi domenicali della Messa, fanno costruire per sè e per i propri servi le chiesette private nei pressi della masseria o annesse alle lussuose residenze nelle Cenate.

Una ulteriore perdita, forse ancor più grave, del patrimonio religioso, viene causata dalla repubblica giacobina del 1798-99 e, soprattutto, dalla seconda occupazione Napoleonica del 1809-1814 e la promulgazione della legge 7/7/1866 numero 3036, concernente la devoluzione allo stato dei beni delle corporazioni religiose soppresse. Tutti i monasteri, fatta eccezione per quello di S. Chiara, sono soppressi e fatta variare la loro destinazione d’uso: quelli di S. Teresa, dei Paolotti, dell’ Incoronata e di S. Francesco d’Assisi sono adibiti ad abitazioni private, quelli dei Carmelitani e Domenicani in caserma e scuole. L’altro convento, quello dei Riformati, viene adibito ad ospedale civico, mentre quello dei Cappuccini è abbandonato per le esigue dimensioni. Molte chiese sono ridotte a stalle, depositi o abitazioni private, privandole delle preziose tele del Sei e Settecento, degli arredi sacri, dei reliquiari, tavole dipinte, oreficerie, ex voto, sculture…
Con queste premesse e con la speranza di dare giusto risalto e possibile salvataggio delle testimonianze di civiltà e cultura religiosa di una città distratta e poco sensibile come la nostra, si è voluta inserire Nardò Sacra, del canonico don Emilio Mazzarella, che ben merita un posto di rilievo tra gli studiosi delle vicende civiche e religiose di Nardò.

INDICE DELL’ OPERA
Presentazione di S. E. Mons. Vittorio Fusco
In memoria di Mons. E. Mazzarella, di Cosimo Carrozza
Omelia di S. E. Mons. Vittorio Fusco nelle esequie di Mons. E. Mazzarella
Prefazione del Curatore
Sequenza delle chiese nelle Visite Pastorali, a cura di Marcello Gaballo
Avvertenze del Curatore
Abbreviazioni e sigle
Introduzione
Cenno storico della città di Nardò
Dominazioni, date ed eventi memorabili
Topografia
Nardò Sacra

PARTE PRIMA
Chiese, conventi, confraternite, oratori domestici nella città di Nardò
Oratori domestici o privati

PARTE SECONDA
Istituzioni, monumenti sacri, opere caritative e pie

PARTE TERZA
Conventi e chiese presso le mura

PARTE QUARTA
Abbazie e cappelle fuori le mura
APPENDICE
Altre chiese e cappelle intra ed extra moenia non riportate dall’Autore, a cura di Marcello Gaballo

INDICI
Indice delle chiese, confraternite, monumenti ed altre istituzioni
Indice dei nomi
Indice dei luoghi

Libri/ Frammenti di storia copertinese

Giovanni Greco,
Frammenti di storia copertinese

Copertino 2007,
pp. 268

Questo è l’ultimo volume di Giovanni Greco sulle peculiarità storiche di Copertino. Giornalista e studioso di storia locale, di cui si conoscono passione ermeneutica e rigore epistemico a cui si aggiungono onestà intellettuale, capacità di giudizio e imparzialità: le tre qualità fondamentali che la Storia esige dai suoi redattori, Greco ha “regalato” agli studiosi di cose patrie un lavoro di ricerca e di selezione di documenti archivistici, taluni passati necessariamente al setaccio della letteratura e della storia, che permettono l’identificazione e la specificazione dei reperti appartenuti alla “civitas” copertinese. Peraltro, l’analisi storiografica di inedite vicende cittadine, pervenendo ad una lettura originale dei fatti e rimanendo lontana da una funzione meramente celebrativa, rende il lavoro di grande interesse e di appagante lettura.

L’autore ha fermato in queste pagine il racconto di un “grande amore” per la sua città, la vita, lo studio capillare di esistenze e di luoghi che non sono passati invano e che in ogni angolo di strada indicano l’esserci e l’aver vissuto prima di noi. La storia autentica di una memoria che viene consegnata anche al lettore disattento, all’osservatore distratto e a quanti non conoscono le radici, le vicende e gli intrecci di una straordinaria umanità. Questi Frammenti di storia copertinese, in parte già pubblicati nell’arco di circa vent’anni, rappresentano l’impegno pluridecennale che Greco ha dimostrato e continua a dimostrare nei confronti della “storia” di Copertino, intesa nel suo significato più vasto e perciò più pregnante. “Essi – scrive l’autorevole Mario Cazzato nella presentazione – riguardano la “storia totale” del centro a partire dalle sue prime attestazioni sicure che, per forza di cose, e per non rimanere nel campo di un’archeologia che stenta a farsi storia per essere unicamente autoreferenziale, non possono essere che medievali”. Ecco, dunque, l’intervento sui “giudei” e sui loro traffici commerciali tra Copertino, Venezia e l’Oriente che segneranno un rilevante progresso di Copertino nel secolo successivo e nel quale si colloca la vicenda storica e umana del cavaliere francese Tristano di Clermont, sfrondata di quella lunga tradizione di falsi e invenzioni che ne avevano quasi fatto un altro personaggio rispetto a quello che veramente fu.

Non potevano mancare i saggi sulla dinamica urbanistica del ‘500, sugli impianti monastici del ‘600 e sui principali aspetti socio-economici del ‘700. Naturalmente c’è altro. “Basti sottolineare come ogni sezione di questo volume, anche la più leggera – scrive ancora Cazzatoè condotta con lo stesso scrupolo documentario, con la medesima capacità di rendere significativo il mero dato erudito: nel particolare non può esserci nient’altro che il particolare, ma questo può illuminarci l’intorno”.

Libri/ L’ospedale di Scorrano

di Antonio Negro
 
 

Cosimo Giannuzzi, Roberto Muci
Storia dell’Ospedale “Ignazio Veris delli Ponti” di Scorrano

Presentazione di Rodolfo Fracasso
Carra Editrice, Casarano 2005, pp. 320

Un intenso lavoro di ricerca storiografica si è egregiamente concluso con la pubblicazione del libro di due noti sociologi, Cosimo Giannuzzi e Roberto Muci, avente per oggetto la Storia dell’Ospedale “Ignazio Veris Delli Ponti” di Scorrano. Il corposo volume di 320 pagine è stato edito dalla casa editrice Carra di Casarano con il patrocinio del comune di Scorrano, e si avvale della presentazione del dott. Rodolfo Fracasso.

Libri/ Antonio e Ferdinando Sanfelice

“Antonio e Ferdinando Sanfelice. Il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento”
 

a cura di Marcello Gaballo, Bartolomeo Lacerenza e Fulvio Rizzo, Lavello (Potenza), Congedo Editore-Galatina, 2003. 315×220 mm., 152 pagine, con 119 tra rilievi e fotografie b/n di Raffaele Puce. Supplemento I della collana “Quaderni degli Archivi diocesani di Nardò e Gallipoli”. 20 Euro.

Prefazione di B. Lacerenza, preside dell’Istituto Statale d’Arte. Contributi di S. Bove Balestra, A. Campo, R. Casciaro, G. De Cupertinis, D. Falconieri, M. Gaballo, L. Galante, V. Manca, F. Musumeci, P. Peri, F. Rizzo

Davvero fortunata ed interessante la serie di volumi curati dall’Istituto Statale d’Arte di Nardò. Il primo riguardava la chiesa ed il convento dell’Incoronata, il secondo la cattedrale di Nardò e le pitture di Cesare Maccari nel coro dello stesso edificio. Ora la scuola ha lavorato per un superbo progetto, l’analisi delle opere dell’architetto Ferdinando Sanfelice (Napoli, 1675-1748) in città, in concomitanza con l’episcopato del fratello Antonio (Napoli, 1660-Nardò, 1707), XXIV vescovo della diocesi di Nardò, in carica per circa trent’anni.

Questo volume, ben curato e con illustrazioni di effetto, illustra l’operato e l’attività pastorale dei due fratelli che cambiarono lo spirito e l’arte a Nardò nei primi decenni del Settecento.

Ben inseriti nel contesto napoletano (la loro famiglia era tra le più in vista nella capitale del regno), trasferirono a Nardò stuoli di maestranze e capolavori dei più grandi artisti napoletani, tra i quali opere di Olivieri, De Matteis, Luca Giordano e Francesco Solimena, maestro ed amico di Ferdinando.

All’elenco delle opere artistiche tuttora esistenti in città si affianca lo studio più approfondito della chiesa del Conservatorio, che Antonio volle realizzare per le fanciulle ospiti nell’istituzione e per conservare i suoi resti mortali.

Progetti, rilievi, studio di particolari eseguiti dagli studenti della scuola ed esauriente documentazione fotografica ne fanno un testo importante.

Non è da meno la ricerca archivistica, che vanta la riproduzione dei disegni dell’architetto conservati nel museo napoletano di Capodimonte e la pubblicazione integrale dell’inedito testamento del vescovo, ritrovato negli atti notarili dell’archivio di Stato di Lecce.

TOPOGRAFIA DI PUGLIA

Vincenzo Cazzato – Simonetta Politano 

TOPOGRAFIA DI PUGLIA

Atlante dei “Monumenti” trigonometrici

chiese, castelli, torri, fari, architetture rurale

a cura del Collegio dei Geometri di Lecce e Provincia

Mario Congedo Editore – Galatina 2001

289 pp. ; ill. ; 30 cm

Pubblicazione fuori commercio stampata in 1.000 copie, a cura del Collegio dei Geometri di Lecce, riporta tutti i “prospettini” dei punti trigonometrici dell’allora Terra d’Otranto e Terra di Bari.

I Cappuccini a Nardò

I Cappuccini a Nardò. Storia di un’ impronta (1569-1866)
 

Monumentale il libro che Rosi Fracella ha voluto scrivere sulla chiesa di S. Francesco d’ Assisi in Nardò e sullo scomparso convento dei monaci Cappuccini, che la officiarono sino alla metà del secolo XIX.

L’opera si impone prepotentemente nel panorama storiografico neritino ed è l’unico saggio completo che sia mai stato scritto fino ad ora su questo insediamento extra moenia, ingiustamente ritenuto da molti come esempio di architettura “povera” e perciò secondaria.

Fin troppo evidente il certosino lavoro e la paziente ricerca, probabilmente decennale, che l’autrice ha condotto per dare giusto merito agli umili frati ed al loro operato silenzioso in secoli di presenza cittadina. Centinaia e forse migliaia di pagine di rogiti notarili, tra 1500 e 1800, svariati documenti di archivi diocesani e generalizi, innumerevoli escursioni negli insediamenti cappuccini regionali, fitta corrispondenza e scambi di opinioni con esperti e studiosi, tutto emerge fin troppo palesemente ed attesta la serietà del lavoro e l’indiscutibile fondatezza di quanto narrato con toni semplici, ma incisivi.

Vi si trova di tutto: dall’architettura alla pittura, dalle cronache alle dicerie, dal rogito alla leggenda, perché la passione e l’ardore di chi scrive mai ha tralasciato il minimo particolare ed anche l’evidente, che finora nessuno aveva così dettagliatamente descritto.

Inusuale ed assai utile la pista cronologica documentaria cappuccina, compresa tra 1569 e 1959, così come necessari e ben curati sono l’appendice documentaria e gli indici. Una particolare menzione alla documentazione fotografica, ai rilievi ed alle ricostruzioni grafiche, che interessano anche i meno addetti a lavori così completi ed esaurienti.

di Rosi Fracella, Martina Franca (Taranto), Congedo Editore-Galatina, 2004. 418 pagine, con 439 tra rilievi e fotografie b/n e colore.
Documentazione iconografica di Giovanni Malacari e Giuseppe Alemanno. Biblioteca di cultura pugliese, n° 148. 50 Euro.

Presentazione di p. Ferdinando Luciano Maggiore; prefazione di Giuseppe Alemanno

(Marcello Gaballo)

Oria. Le stanze del vescovo e i loro affreschi

La ricorrenza del primo quinquennio dell’ episcopato di mons. Marcello Semeraro, vescovo di Oria, è stata l’ occasione per la pubblicazione dell’ interessante volumetto, estratto dalla tesi di laurea in Storia dell’ Arte Moderna: “Il vescovo Giovanni Carlo Bovio e la decorazione pittorica del palazzo vescovile di Oria“.

Un episodio della cultura manierista romana nella seconda metà del Cinquecento in Puglia, ad Oria per la precisione, nell’ episcopio fatto ricostruire dall’ arcivescovo Giovan Carlo Bovio (Brindisi, 1522-Ostuni, 1570).
Si tratta in sostanza degli affreschi che decorano i tre sopravvissuti ambienti dell’ edificio: la stanza delle allegorie, quella dei paesaggi e l’ altra degli stemmi boviani. E’ questa la più elegante ed articolata per le diverse decorazioni a grottesche, che tanto richiamano le maestranze raffaellesche delle logge vaticane, con originali fregi affrescati sulle pareti laterali.
Molte ipotesi del programma iconografico dall’ Autrice sono correlate con le travagliate vicende pastorali del Bovio, più volte contrariato dagli amministratori brindisini, che lo portarono a scegliere la sua dimora in Oria.
Attraverso il confronto stilistico, la tecnica e le note biografiche, Floriana Riga scarta l’ attribuzione degli affreschi a Pellegrino Tibaldi e Matteo Perez da Lecce, come da altri sostenuto, preferendo, persuasivamente, concentrarsi sulle cerchia romane di Domenico Rietti detto lo Zaga e di Prospero Fontana, che lavorarono entrambi in Castel Sant’ Angelo di Roma.

Oria. Le stanze del vescovo e i loro affreschi“, di Floriana Riga, Oria (Brindisi), 2003, con 99 fotografie b/n e colore.
Presentazione del vescovo di Oria mons. Marcello Semeraro.

(Marcello Gaballo)

Libri/ Civitas Neritonensis. La storia di Nardò di Emanuele Pignatelli

di Alfio Pasqua
 

 

Civitas Neritonensis. La storia di Nardò di Emanuele Pignatelli ed altri contributi, a cura di Marcello Gaballo, Galatina 2001. 

L’Editore Mario Congedo di Galatina nel 2001 ha pubblicato il volume “Civitas Neritonensis”, il n°133 della Biblioteca di Cultura Pugliese. L’opera, stampata a spese dell’Amministrazione Comunale di Nardò, è uno dei gioielli della pregevole collana.
Il prezioso testo si presenta in un’invitante veste tipografica con doviziosa documentazione fotografica.
Nel rielaborare la complessa ricchezza di notizie lasciata dall’ Avv. Emanuele Pignatelli (1869 – Nardò – 1948) il dott. Marcello Gaballo, medico e storico di Nardò, ha adottato il procedimento di ricerca storiografica che implica coscienza critica e metodologica.
Suggestive le memorie personali di Emanuele Pignatelli, palesando grande amore per la sua terra, madre di gente tenace, intelligente, industriosa.
Nel Pignatelli la trattazione degli eventi del passato, pressappoco fino al 1800, è frutto di letture, interpretate con sensibilità e personale intuizione, mentre le notizie relative al periodo in cui ha operato con impegno sociale, politico e culturale sono state redatte con una documentazione pertinente, anche se non da storico; e di ciò è consapevole lo stesso Autore.
Il pregio basilare del libro è nel metodo storico-critico di ricerca, adottato dal curatore. Enorme la mole di citazioni e di note, frutto di personale consultazione e studio approfondito di documenti storici.
Nel testo di “Civitas Neritonensis” si contano ben 647 note, più la nota a pag. 12, relativa a 15 atti notarili dell’Archivio di Stato di Lecce. Ricerche personali del curatore sono state esperite negli archivi di Nardò, di Lecce e della Puglia, ed anche in quelli di Napoli e di Simancas in Spagna.
Il complesso lavoro del dott. Gaballo nel volume “Civitas Neritonensis” è una storia di Nardò, fondata su ricerche e studio accurato di testimonianze dell’ epoca.
Per la conoscenza delle vicende storiche della città e del suo territorio, dall’ antichità ai giorni nostri, è indispensabile la consultazione dei documenti custoditi negli Archivi, trai quali quello della diocesi di Nardò-Gallipoli. Per anni è stato studiato ed è continuamente studiato dal dott. Gaballo, che ha curato un altro volume fondamentale per chi ha interesse alla storia locale. Il libro, pubblicato sempre da Congedo nel 1999, è “Emilio Mazzarella, Nardò Sacra”, a cura di Marcello Gaballo, terzo dei Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, diretti da Santino Bove Balestra.
Per avere un’ idea del vasto approfondimento di studi storici del Gaballo su Nardò ed il Salento, ne elencheremo altri a conoscenza dello scrivente: Riviera Neritina: le torri costiere, contributo alla salvaguardia del patrimonio locale (Nardò Nostra 1986), Araldica Civile e religiosa a Nardò (Nardò Nostra 1996), S. Maria Incoronata, la chiesa e il convento (curato con S. Bove Balestra, Ist. Statale d’ Arte di Nardò, 1998), Il monastero di S. Chiara in Nardò (curato con S. Bove Balestra, n° 2 dei Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, 1998), Famulos tuos… Immagini della pietas popolare: Santi e Madonne sotto campana. Catalogo della mostra (Bonuso Ed. 1998), Nardò Nostra. Studi in memoria di don Salvatore Leonardo, (curato con G.De Cupertinis, Bibl. di Cultura Pugliese n° 128, Congedo 2000).
Tra il 1994 ed il 2001 lo stesso Gaballo, dal 1999 nominato Ispettore Onorario per i Monumenti, ha pubblicato numerosi articoli e saggi relativi a Nardò e il Salento, scrivendo di cultura popolare, araldica e arte, scovando e proponendo numerosissime fonti archivistiche di notevole aiuto per ogni studioso che voglia davvero interessarsi di Nardò. 

La conoscenza personale con l’Autore ci ha convinti che per dedicarsi alla storiografia di un angolo di umanità non bastano tenacia, intelligenza, laboriosità; sono indispensabili passione ed entusiasmo per il lavoro di storico, amore per la propria terra. 

In tutta l’opera di Marcello Gaballo il passato è rivissuto nel presente, proiettato nel futuro, con un’ evidente funzione pedagogica. “Historia… magistra vitae” (Cicerone, De Oratore, II,9,36). La storia è maestra di vita: passato, presente, futuro. Che cos’è per l’uomo il tempo? Diverse le risposte di filosofi e scienziati dall’antica Grecia ad Einstein. Le persone chiuse in una visione di gretti interessi e fugaci passioni valorizzano il presente come la sola vera realtà, ma quando falliscono non hanno in alternativa alcune prospettive, perché senza ideali, e si perdono nel grigiore di un’esistenza priva di finalità al di là del proprio piccolo io.
La fede religiosa, la fiducia nella ragione e nel progresso infondono nell’uomo la forza delle idealità; la consapevolezza che la vita è un dono da arricchire, la laboriosità, la solidarietà, danno un significato alla vita tesa a migliorare se stessi e gli altri. La ricerca dei valori duraturi del passato è un prezioso insegnamento per le generazioni di oggi e del futuro.
Due altre concrete realizzazioni di Marcello Gaballo rendono in particolare evidente la componente educativa al servizio dei cittadini: il libro Nardò a fumetti – pagine di storia, cronologia ed altre notizie (Conte Ed. 1996) e la ristrutturazione di un vecchio ma solido rudere della città antica per abitazione personale.
In un primo momento aveva rifiutato di pubblicare “Nardò a fumetti”, poi ha accettato, “sperando di esserne all’altezza”, con l’umiltà di chi sa che più si studia e più ci si convince che la cultura è sconfinata. Aveva capito che i fumetti sarebbero stati graditi dai ragazzi delle scuole primarie; era un modo giocoso, ludico per conoscere la storia neritina.
La propria abitazione, realizzata in Via Duomo, nella parte più storica di Nardò, è il risultato di cinque anni di studio, di progetti, di intenso lavoro: un insieme architettonico con stabili volte a crociera, armonie di volumi e colori, sapienti accostamenti di antico e moderno. A rifinire questo piccolo ma compiuto mondo interiore, un delizioso giardino interno dove verde e piante fiorite sono il riposato messaggio della natura.
Sappiamo che ardite costruzioni moderne in cemento armato ed acciaio crollano come castelli di carta, mentre edifici secolari e millenari sfidano il tempo, le catastrofi naturali e le distruzioni per la follia di umane passioni. è indispensabile adeguarsi al costante progresso, oggi vorticoso e frenetico, valorizzando però quanto di valido ha saggiamente creato l’ uomo nella storia.
 
 
 

  

 

 

* recensione pubblicata su “Presenza taurisanese” di Luglio 2002

La memoria narrata: invito all’opera di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

di Pier Paolo Tarsi

 

Vogliamo gettare un tassello facente parte di un ben più ampio progetto di ricerca e studio iniziato altrove da chi scrive[1]. Tale progetto, qui solo annunciato al lettore al fine di solleticarne l’interesse e il coinvolgimento, consiste nella riscoperta e nella rivalutazione dell’imponente opera letteraria, artistica ed etnologica di Giulietta Livraghi Verdesca Zain.

Donna dall’ingegno poliedrico, giornalista, studiosa, pregevole scrittrice, scultrice e artista varia e versatile, nota in vita per lo più come poetessa e antropologa, la Verdesca Zain nasce a Salice Salentino il 17 dicembre del 1931, discendente di una nobile casata di Copertino. In quest’ultimo paese, ove muore il 10 novembre 2007, la Nostra trascorre tutta la sua esistenza con l’eccezione di una parentesi di anni a cavallo tra il 1962 e il 1971, operosamente vissuti a Roma. Nella capitale, ove la Livraghi si lega presto al futuro compagno di una vita intera – il poeta calabrese Nino Pensabene, conosciuto negli ambienti colti -, grazie ad una vena poetica stimata da tutti i più attenti intellettuali dell’epoca, la sua grandiosa personalità emerge rapidamente e si impone come un punto di riferimento dei cenacoli letterari di rilievo. Oltre che per la sua prolifica attività di critica letteraria e critica d’arte, in quegli anni infatti la Livraghi si distingue anche – se non in primo luogo – per le pubblicazioni di alcune raccolte di sue poesie che le fanno guadagnare numerosi e importanti premi nazionali, a testimonianza del riconosciuto valore dei suoi versi. Non è tuttavia solo per la levatura delle numerose opere che suscitano l’ammirazione generale che la Nostra si mette in luce: nei medesimi anni, insieme al marito, i due danno corso parallelamente ad una intensa attività organizzativa che li vede in breve assurgere al ruolo di animatori di primo piano della vita culturale romana e nazionale. Nella città eterna, essi fondano e dirigono importanti riviste quali “La Prora. Periodico Internazionale d’Arte e Cultura” e “Il Nuovo Eon. Periodico Internazionale di Letteratura, Filosofia, Scienze, Arti”, organo quest’ultimo dell’Accademia Internazionale di Lettere, Scienze ed Arti “Pacem in terris”, ente presieduto dalla Livraghi stessa, destinato ad elevarsi rapidamente a cenacolo di riferimento dell’intellighenzia migliore. Assorbita dall’intreccio fitto di impegni a cui tali attività culturali la legano in quegli anni di animata vita romana, la Livraghi fa in seguito ritorno a Copertino per dedicarsi qui interamente – con il necessario distacco dagli oneri mondani e sociali – ad un vasto studio etnologico, finalizzato al «completamento di un quadro panoramico della civiltà contadina del Salento»[2]: una impresa immane quest’ultima, condotta in solitudine quasi eremitica, con slancio febbrile ed estrema lucidità sino al talamo della morte, sino agli ultimi aliti di una vita che, ormai demolita da una estenuante lotta combattuta con ardore contro una lunga e grave malattia, veniva trattenuta solo dalle amorevoli cure del compagno «con le unghie, come ultimo riverbero di un tramonto»[3].

Il risultato di questi anni di duro e poderoso lavoro antropologico, dedito con passione e amore intellettuale alla terra natia, consiste in un immenso lascito di scritti che va ben al di là di quanto emerso attraverso la pubblicazione di una magistrale opera etnologica della Nostra, “Tre Santi e una campagna. Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento”, edita da Laterza nel 1994 e salutata dagli antropologi di professione come un capolavoro massimo[4], cui si accompagnano ulteriori piccoli stralci editi, comparsi sul quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno” nel corso degli ultimi anni di vita della Verdesca Zain. Tali materiali, seppur di importanza fondamentale per la conoscenza del Salento e pertanto meritevoli di essere riportati oggi – e per sempre – all’attenzione del pubblico e degli studiosi, costituiscono tuttavia sparuti frammenti di un ben più ampio e “panoramico” progetto, condotto dalla Livraghi nell’arco di una vita di comunione e condivisione intellettuale e spirituale con il compagno, all’insegna di un’esistenza consacrata interamente alla conoscenza della civiltà tradizionale salentina. Una grande opera è dunque questa, da preservare e studiare come una delle più grandi eredità della nostra storia, come un bene sommo della nostra terra e della nostra tradizione.

Nel lavoro complessivamente preso della Livraghi vi è infatti non solo un monumento mai innalzato che è a nostro avviso tempo di edificare, ma vi è, per quanto ora qui nello specifico interessa evidenziare, una sorgente densissima di restituzione di un immenso patrimonio etnologico- linguistico da tutelare, al quale è doveroso – moralmente prima che intellettualmente – rifarsi nell’ambito di ogni sforzo di seria e continuata indagine storico-antropologica sul Salento.

Di tale florida e vivida sorgente, siamo ben lieti di donare un piccolo assaggio al lettore di Specilegia attraverso la mediazione di un brano inedito dell’autrice, da chi scrive scelto faticosamente tra i tanti di egual valore. Ciò al fine di offrire un saggio della forza evocativa della penna della Nostra, capace di punteggiare liricamente persino la descrizione saggistica e antropologica relativa a un mondo salentino descritto ad intreccio tanto nelle sue consuetudini originarie e nel suo antico immaginario simbolico, quanto nelle sue intricate dinamiche sociali tra poveri contadini e signori della terra: un mondo ormai estinto, il quale, fortunatamente, ci viene tramandato in molte sue dimensioni dalla memoria narrante di colei che non si dovrà più esitare a definire la più grande antropologa del Salento. Al nome della Livraghi Verdesca Zain, dimenticato da molti ed oggi in pratica estraneo ai più, spetta infatti, ne siamo certi, un posto d’altissimo rilievo nella storia della cultura italiana del Novecento – non solo salentina – e un posto d’onore, in particolare, nella storia dell’antropologia.

per gentile concess. di Nino Pensabene

A questo mancato tributo a una studiosa che a questa terra e alla memoria della sua civiltà contadina ha donato i frutti migliori del proprio genio versatile, ci auguriamo di contribuire a porre rimedio anche attraverso le pagine di questa bella rivista, oramai sempre più incarnazione di un punto di riferimento autorevole della vita culturale meridionale e non.

Le ragioni di tale tributo, teniamo a puntualizzare, non sono da rintracciare solo nei meriti in sé dell’autrice e della sua penna, quanto piuttosto nel valore complessivo che l’opera di conservazione di un patrimonio etnologico-linguistico assume nel contesto del processo contemporaneo di globalizzazione planetaria che ci coinvolge in prima persona. Nel mondo attuale, infatti, vediamo risorgere ovunque spinte localistiche compensative dei movimenti di omogeneizzazione insiti nella mondializzazione, pressioni che possono pericolosamente degenerare in consolatorie chiusure nei confronti delle altre culture e favorire arroccamenti in astratte mitizzazioni identitarie (quali, per esempio, il popolo padano, il popolo salentino ecc): tali effetti costituiscono delle difese della psiche collettiva che sorgono, paradossalmente, proprio laddove labile e frammentaria risulta la conoscenza del proprio passato, impedendo pertanto uno sviluppo sereno e creativo di un futuro storico consapevolmente interconnesso con la continuità del proprio mondo originario e, proprio per tale ragione, pacatamente aperto e disponibile all’incontro fecondo e costruttivo con l’altro, con il diverso.

In coerenza con quanto detto sopra, ci pare opportuno infine lasciare spazio alla voce diretta della Livraghi, senza frapporre ulteriori nostri interventi, ponendo così termine a queste nostre note, con l’augurio che le stesse risuonino per tutti come un invito alla rilettura e alla scoperta dei lavori che abbiamo indicato e, in generale, dei vari contributi dell’ingegno di questa coterranea.

Lu crucifissu ti lu asu (scritto inedito di Giulietta Livraghi Verdesca Zain)[*]

 Lu crucifissu ti lu asu (il crocefisso del bacio), per il suo stare fra le mani dei defunti durante le veglie funebri, non doveva essere usato come simbolo di culto, veniva ritenuto sconsacrato, motivo per cui, le poche famiglie ricche di un paese, potendosi permettere più crocifissi, ne tenevano uno apposito; e siccome apparenza voleva non fosse soltanto un simbolo religioso ma anche un elemento decorativo della salma, era un crocefisso importante, se non addirittura prezioso. Destinato a essere trasmesso di generazione in generazione, doveva poter rappresentare nel tempo il decoro delle casata, e non di rado  – ritenendolo soggetto a diritti dinastici – veniva citato nei capitoli testamentari, devoluto quasi sempre al primogenito.

Col passare degli anni e il sommarsi delle morti, il prestigio di quel crocefisso aumentava, tanto che si arrivava a fregiarlo di un nome particolare, affibbiandogli quello del trapassato più illustre: in qualche famiglia poteva essere “Il crocefisso di nonno Giovanni”, in qualche altra quello del bisnonno Giuseppe, in qualche altre ancora “Il crocefisso dello zio monsignore”. Un dato di fatto che aveva sempre irritato, e qualche volta mandato in bestia, le vecchie cameriere: per loro, figlie del popolo, alle cui usanze rimanevano vincolate per rapporto viscerale, quell’indicazione suonava bastarda, se non blasfema, giacché ritenevano inaccettabile l’idea di sovrapporre alla totalità di Cristo la riduzione di un possesso espresso attraverso il nome di un mortale, sia pure passato alla storia come illustre. Per loro, come per tutti i loro simili, quello era e doveva rimanere crucifissu ti lu asu, anche se, a rifletterci bene, avevano torto: i crocifissi mortuari delle famiglie nobili non potevano incarnare sino in fondo quella simbologia, giacché, data la differente sistemazione delle salme, nessun bacio poteva sfiorarli. La nobiltà veniva identificata, sia pure in modo allusivo, in un perenne rapporto di altezze, e se la vita aveva le sue lotte di gradino, anche la morte doveva sottostare alla regola dei rialzi. I catafalchi che si approntavano erano dei veri e propri monumenti, non facilmente raggiungibili nella loro sovrapposizione di piani: due per le donne, ma non meno di tre per i maschi, ai quali anche da morti spettava il riconoscimento di una supremazia adombrata nel mito del loro seme. E più il personaggio era stato importante, più la castellana (il catafalco) doveva essere alta.

i coniugi Pensabene e Livraghi Verdesca Zain

Posta al vertice e in posizione un po’ inclinata per consentirne la visibilità, la salma incuteva una  certa soggezione, rafforzata dai damaschi – rossi o giallo oro – che in ricchi drappeggi scendevano sino a terra: un’ulteriore barriera che fermava a timorosa distanza i visitatori più umili, che mai e poi mai si sarebbero permessi di accostare a quelle stoffe preziose i loro piedi sporchi di terra, anche se, per la circostanza, infilati nelle scarpe della festa.

Una circoscrizione capace di gelare il cuore dei semplici e apparire, pur nell’esuberante presenza della ricchezza, come l’estrema penitenza di un modo di essere, forse il volto più duro della morte, giacché anticipava il silenzio della pietra.

La morte dei poveri era una cosa ben diversa, e anche se urlava come una belva aveva volto e fiato umani. Le salme, adagiate basse sulla matthrabbanca (madia – tavolo), non erano isole irraggiungibili, ma lembi di carne mantenuta umida da lacrime e aliti. Nelle loro mani il crocefisso non era soltanto l’asta della misericordia che promette perdono, ma la radice sublimata di un credo trascendentale che, sovrapponendosi al momento temporale del trapasso, stabiliva una convivenza quasi sacrale fra il ricordo dei viventi e l’essenza purificata dei trapassati.

Le persone in visita di lutto vedevano in quel crocefisso il tramite insostituibile dei loro sentimenti, ossia il filo conduttore di un dialogo che intendevano stabilire con l’aldilà: baciandolo erano sicure di ottenere da Dio il permesso di affidare all’anima della salma in esposizione saluti e messaggi da portare alle anime dei loro cari. Un vero e proprio ufficio postale, anomalo nella sua equivalenza di fede, ma tragicamente reale nello sfogo delle pene individuali: appelli di aiuto, richieste di consiglio, sollecitazione di sogni rivelatori, comunicazioni di mutamenti drammatici, o notizie rassicurative per l’anima partita in travaglio.

un’opera grafica dell’artista

Una ridda di voci che trovava la sua espressione più colorita negli interventi delle donne, sempre prime ad accorrere sui luoghi del dolore: convinte che una rappresentazione visiva dei loro affanni servisse a rendere più efficaci le parole, e quindi a meglio esprimere i loro sentimenti, non esitavano a strapparsi i capelli, a graffiarsi il viso, o comunque ad agitare le mani in una mimica di disperazione che sembrava racchiudere l’essenza stessa del dolore.

Scansioni da tragedia che toccavano il vertice quando, con un incedere assorto da statua dell’Addolorata, si faceva largo una giovane vedova seguita dal grappolo dei suoi orfani. Sulla bocca dell’innocenza, morte e miseria trovavano commistione in un unico boccone amaro, e non a torto il coro delle donne si dava a chiedere: “Pane!… Pane!… Pane!…”. Un’invocazione che di proposito si faceva echeggiare forte, poiché, oltre a essere una preghiera rivolta al Cielo, intendeva imporsi come appello rivolto ai vivi: un grido che nasceva sì in nome della pietà, ma che, sfruttando l’impunibilità del momento, vibrava come rabbiosa pietrata sui portoni dei ricchi, rappresentando, sia pure in modo coatto, un fermento di ribellione sociale.

Più silenzioso, forse più struggente, il pellegrinaggio dei vecchi. Entravano nelle case in lutto in punta di piedi, rigirando fra le mani la coppola nera come fossero intenti a raggomitolare i fili di un’esistenza che l’età tarda confinava nell’amarezza dei consuntivi. Fasciati da una solitudine visibile come un’amputazione, si presentavano con timidezza, quasi che l’essere ancora vivi fosse un torto da farsi perdonare, ma il loro faticoso curvarsi sul crocefisso acquistava il significato di un’espiazione collettiva, una mortificazione antica che non era soltanto loro, ma stillava l’amaro di un’infinità di radici, forse nate nell‘alba del mondo.

Anche la loro voce aveva sapore di lontananza, mentre sussurravano parole spezzettate dalla commozione: si rivolgevano all’anima della moglie (non aveva importanza se morta un giorno o dieci anni prima) per farle sapere che la vita senza di lei non aveva senso, ch’erano stanchi e aspettavano la sua chiamata. Un monologo che invariabilmente finiva col franare in una vera e propria commemorazione, tirando in campo le virtù di quell’anima benedetta che tanto aveva lavorato e sofferto nel portare avanti una famiglia. Dilatazione della memoria che trasferiva nel mito una verità vissuta e che le donne presenti ricevevano come indiretto tributo alle loro funzioni di spose e di madri. Sentendosene investite, come protagoniste di un ruolo che misconosciuto in vita trovava giusto apprezzamento solo dopo la morte, non lasciavano passare inosservato quel momento di esaltazione e intervenivano a coro per rafforzare i termini della valutazione femminile.

Mentre il vecchio chiedeva angosciato: “Cce rrestu a ffare sobbra lla facce ti stu munnu ci m’à lassatu sulu… sulu comu fugghiazza allu jèntu?!…” (“Che resto a fare sulla faccia di questo mondo se mi hai lasciato solo… solo come foglia al vento?!…”), loro, rivolgendosi alla defunta in questione, che per essere già, presumibilmente, in Paradiso, chiamavano “Benett’ánima ti rázzia”(“Anima benedetta per grazia”), incalzavano: “Facennulu cattíu l’a fattu orfanu!…” (“Facendolo vedovo, lo hai fatto orfano!…”); e giostrando sul tono della pietà, furbamente inserivano, forse a monito di qualche marito presente, un proverbio scelto a loro emblema: “Casa senza fèmmina ete terra senza acqua”. Una definizione lapidaria della loro indispensabilità, e i cui termini di comparazione si agganciavano a due simboli (terra – acqua} ritenuti sacri da tutta la popolazione salentina.

Del resto erano sempre le donne a essere le vere protagoniste delle veglie funebri; e la loro presenza, così come la loro continua intromissione nella sottolineatura dei messaggi, sapeva di padronanza, come se presiedere agli uffici della morte fosse un loro naturale diritto, derivato dal fatto che erano loro, donne, a partorire la vita. Solo nel messaggio ti la perdunanza (di richiesta di perdono) non osavano intervenire, anzi se ne tiravano fuori in modo visibile, stringendosi contro le pareti della stanza e creando lo stacco di un vuoto fra loro, il postulante e il crocefisso.

La persona che, a cancellazione di un odio o rimorso, andava a chiedere perdono a un’anima offesa in vita e con la quale non era riuscita a rappacificarsi prima della morte, non doveva avvalersi di interventi estranei: il suo era un particolare caso di coscienza, e sebbene la confessione veniva fatta a voce alta, doveva pur sempre rimanere un atto di umiliazione personale, senza interferenze e patrocini terreni. Aspettavano perciò che il messaggio fosse concluso, prima di tornare ai loro posti e riprendere la cadenza mimata dei lamenti. Solo qualche vecchia, a chiusura della parentesi, quasi offrendosi a testimone di un patto di pace, si permetteva di dare un bacio supplementare al crocefisso, mormorando un “così sia” ch’era affermazione ma anche implorazione. Una libertà che si poteva prendere solo in nome dell’età avanzata, vista come scaturigine di particolari diritti e di altrettanti particolari doveri.

Uno dei doveri delle vecchie era proprio quello di procurare il crocefisso del bacio, ed era un compito che eseguivano con scrupolo, convinte di potere così suffragare tutte le anime sante del purgatorio. Non potendo i poveri permettersi un crocefisso da dedicare alla morte, erano loro ad andare a chiederlo in prestito alle famiglie ricche, e affinché l’atto di carità fosse più valevole, usavano rivolgersi alla famiglia meno amica, o per lo meno andare a bussare alla casa più lontana.

Avvolte nello scialle nero, che per l’occasione di lutto indossavano alla monacale, facendolo aderire basso sulla fronte e fermandolo attorno al viso come un soggolo, si presentavano ai portoni signorili con l’atteggiamento umile di chi si riconosce in bisogno, ma nello stesso tempo con lo sguardo fiero di chi sa che la sua richiesta non può, per cause maggiori, essere respinta.

Il crocefisso del bacio, infatti, non si negava mai, e non soltanto per il rispetto che si aveva verso la morte, ma per la paura di attirare, con quel diniego, la disgrazia nella propria casa.

A Cristu nicatu sècuta muèrtu chiantu” (“Alla negazione di un crocefisso segue il pianto per un morto in famiglia”), stabiliva un detto popolare; e giacché ai signori dispiaceva prestare il crocefisso dei propri morti, ne tenevano un altro esclusivamente dedicato alle richieste del popolo. Di legno, quasi sempre chiaro, era caratteristico per il Cristo di rame che, mantenuto lucido dal ripetuto strofinio di labbra, aveva barbagli strani, quasi sprazzi sanguigni. Avvolto in un quadrato di tela nera, lo si teneva a portata di mano, chiuso in qualche stipetto della sala d’ingresso dove c’erano anche un fascio di candele e una scorta di pezzuole di lino, oggetti anche questi di continue richieste.

Quello di famiglia, al contrario, essendo un oggetto che ci si augurava non dovesse servire mai, si conservava in uno dei nascondigli più segreti della casa, e sebbene venisse intenzionalmente dimenticato, al momento opportuno il più giovane della famiglia sapeva sempre dove trovarlo. Pur nella confusione o smarrimento che quelle tristi circostanze potevano generare, nessuno scordava i suoi compiti, anzi ognuno se ne faceva uno scrupolo nell’osservarli, ansioso di rispettare le tradizioni, ma forse più che altro rassicurato da una successione di regole che potevano avere valore scaramantico. A prelevare quel crocefisso doveva infatti essere il più giovane, e doveva farlo a tempo giusto, cioè quando la salma era già composta sobbr’a lla castellana e la fiamma dei quattro candelotti aveva già scavato la sua buca nella cera.

Sollecitato dai parenti, che gli tenevano dietro in processione, il ragazzo si avviava commosso a compiere la sua missione, anche se l’importanza e la responsabilità di quel gesto erano tanto grandi da non consentire spazio alle emozioni. Prima di prendere il crocefisso doveva segnarsi devotamente tre volte e attendere a che le donne gli appendessero al braccio, a mo’ di manipolo sacro, un asciugamano usato in occasione di un battesimo: uno di quegli asciugamani di lino che ogni famiglia ricca approntava per le nascite, contrassegnandoli con delle crocette ricamate a sfilato un angioletto eseguito a filè[†]. Esibiti con gioia al fonte battesimale, quei lini tornavano a galla nell’ora del dolore, e, sebbene in forma più dimessa, la loro presenza risultava altrettanto importante, giacché voleva significare che l’offerta di quel crocefisso veniva fatta in nome di un’innocenza non ancora in debito con la morte.

Il concetto di un’esistenza da scompitare col travaglio della fine scattava dopo, a veglia funebre conclusa, cioè quando, immediatamente prima dei funerali, il crocefisso doveva essere tolto dalle mani del morto. Un compito che spettava al più anziano della famiglia, il quale si sentiva in dovere di autoindicarsi come il più stanco della vita, facendo valere il rispetto per quella legge di naturali successioni che la morte non doveva assolutamente incrinare con mietiture fuori stagione.


[1] Ci sia concesso di rimandare il lettore al nostro “Per un’antropologia linguistica della memoria narrata. Invito alla riscoperta dell’opera etnologica di Giulietta Livraghi Verdesca Zain. ”, in corso di pubblicazione.
[2] LIVRAGHI VERDESCA ZAIN G., Tre Santi e una campagna. Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento, Laterza, Bari 1994, p. XI

[3] L’immagine è tratta da una poesia inedita della Verdesca Zain, “Otranto: visita alla cappella dei Martiri”, ove leggiamo: «tu – Nino – poeta eremita / che moduli i giorni / in levigate consonanze d’amore / io / particella di un fiato / che trattieni con le unghie / come ultimo riverbero di un tramonto».

[4] In particolare si vedano le seguenti recensioni Cfr. BRONZINI G.B., Giulietta Livraghi Verdesca Zain, Tre santi e una campagna, in Bollettino storico della Basilicata, n. 10, 1994, pp. 337-342; IMBRIANI E., Giulietta Livraghi Verdesca Zain, Tre santi e una campagna, in Miscellanea storico salentina «Giovanni Cingolani», IV, 1995, pp.145-151; IMBRIANI E., Giulietta Livraghi Verdesca Zain, Tre santi e una campagna, in LARES Rivista trimestrale di studi demoetnoantropologici, Anno LXI, n. 4, ottobre-dicembre 1995, pp. 632-4.


[*] Per meglio comprendere la differenza di vedute nonché di usi che correva tra ricchi e poveri a proposito della morte, leggere della stessa autrice, Tre Santi e una campagna. Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento, Laterza, Bari 1994, Cap. “Li manure ti Santu Itu”, pp. 119-129.
pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6

Le pennellate mistiche di Maria Lucia Alemanno

di Sandro Montinaro

«O Divino Maestro,

fervido artefice di tutto il creato

illumina lo sguardo del tuo servitore,

custodisci il suo cuore

reggi e governa la sua mano

affinché degnamente e con perfezione

possa rappresentare la Tua immagine

per la Gloria e la Bellezza della tua Santa Chiesa

Amen».

Anonimo, Preghiera dell’iconografo

 

Una piccola finestra, al centro di un muro bianco come la calce, mi introduce in un mondo di profonda pace, invisibile. In uno spazio piccolo e perfetto prende forma un cielo carico di azzurri, solcato di bianche striature che risaltano per il loro candido biancore; trasparenze che rimandano a ricordi nascosti, celate al pensiero e alla vista quotidiana.

“Salvatore tra le potenze” icona di M. L. Alemanno (ph. Frisenda)

Uno spazio etereo e irreale prende forma da uno sguardo, da un gesto, da un mattutino fascio di luce sublime, accecante e prezioso come l’oro.

Non è un sogno ma l’emozione che si prova nell’ammirare le icone di Maria Lucia Alemanno. è la tenera carezza che l’artista regala all’ignaro fruitore per mezzo del colore, attraverso le immagini, le storie, il rapimento estatico degli sguardi fra la Vergine e il Bambino, l’eleganza delle vesti, il caldo riflesso degli ori.

Maria Lucia Alemanno (Lecce, 12 Gennaio 1977) vive ed opera a Veglie (Lecce). È nel suo grazioso studiolo, a due passi dal borgo antico, che regna, facendo rivivere nella propria mano una dimensione magica, mistica e trascendente, un sapere pressoché perduto.

Nell’eterno abbraccio tra passato e presente la sua opera cerca di raffigurare il trascendente, la sacralità dell’immagine; tramanda e conserva la cultura di un popolo, di una terra e dell’anima, una cultura capace di infondere in noi la bellezza e la meraviglia.

Da sempre impegnata nel campo dell’arte, nel 1995 inizia l’attività artistica specializzandosi nella decorazione su tessuto. Attratta dall’iconografia bizantina, comincia il suo percorso di ricerca, studio e approfondimento spirituale con impegno e devozione, sostenuta da don Luigi Manca[1], con il quale approfondisce gli aspetti teologici, storici ed estetici dell’icona. Nel 2002 frequenta i corsi di iconografia tenuti dal maestro greco Kostantinos Xenopoulos, docente all’Accademia Ecclesiastica del Monte Athos, e nel 2003 quello tenuto ad Assisi dal maestro Giovanni Raffa.

Le icone realizzate dall’Alemanno non nascono nel suo laboratorio, bensì nella profondità del suo cuore, in quello spazio individuale, intimo e devoto, sconosciuto ai più.

Dal sapore trascendentale, le sue opere mistiche, con sapiente originalità e incessante sperimentazione, creano una continuità ideale con l’antica tradizione bizantina, nel rispetto delle tecniche di esecuzione e degli schemi formali e cromatici dei soggetti raffigurati.

Le icone – dal termine greco eikon = immagine – «sono la raffigurazione sacra delle chiese ortodosse bizantine ed anche dei cattolici che seguono la tradizione costantinopolitana»[2].

Gioielli di rara bellezza elevano le menti dalle cose terrene a quelle celesti. Intrise di profumi, colori e sensazioni atemporali,

“S. Michele Arcangelo” icona di M. L. Alemanno (ph. Frisenda)

rappresentano l’immagine dell’invisibile, l’espressione vera e palpabile del messaggio cristiano del Vangelo, lo splendore di Dio fatto uomo e racchiudono, nel linguaggio e nei canoni dettati dalla Chiesa, tutta la teologia cristiana[3].

La pittura delle icone non è soltanto una forma d’arte, ma un aiuto per avvicinarsi alla santità, per vivere la fede e per identificarsi con i soggetti dipinti: Cristo, la Vergine e i Santi[4].

Le figure sono raffigurate con un antinaturalismo che nella teologia delle icone rappresenta la dimensione spirituale dei misteri, degli eventi e dei personaggi sacri.

Nell’icona l’arte è secondaria, marginale: importante è Dio e il mistero di Dio; per comprenderla appieno è necessario tenere sempre presenti la dimensione storico-scientifica, la dimensione artistica e la dimensione teologico-spirituale.

La tecnica usata è quella antichissima dei monaci greci, che l’Alemanno segue alla lettera utilizzando materiali tradizionali di origine naturale: legno, gesso, colla di coniglio, terre colorate, oro zecchino. Come tutti gli iconografi scrive le icone, non le dipinge, presta le sue mani rispondendo a una vocazione, all’eterno mistero di Dio[5]. L’icona è una preghiera disegnata, dipinta; non è un quadro ma un luogo, un “tempio”, in cui il mistero rappresentato si fa presente in un perfetto equilibrio di lavoro e armonia.

«Dipingendo, l’iconografo parla. Imprime alla materia un significato, la trasforma in parola esplicita»[6]; per questa ragione le icone sono dipinte sul legno. Il processo del divenire immagine di Dio si rivela anche dalla scelta del supporto che, a differenza ad esempio della carta o della tela, non scompare sotto i colori e l’oro. Il legno della tavola – di solito noce o tiglio ma anche faggio, cedro, betulla, abete, quercia – deve essere compatto, senza nodi e ben stagionato. Per evitare che la tavola diventi concava viene dipinto il lato che era rivolto verso il centro dell’albero, sul quale come rinforzo sono sistemate, nel senso contrario all’andamento delle fibre, delle traverse in legno.

Alcune tavole inoltre presentano un incavo di alcuni millimetri, il kovceg, che simboleggia l’intimità della figura rappresentata con Dio.

Completa la preparazione della tavola la tela di lino, imbevuta di colla, che, oltre ad avere la funzione di rendere resistente la base, rimanda alla prima vera icona, quella del volto di Gesù impresso nel lino. Prima di iniziare il disegno, l’iconografo pronuncia con intensità una breve preghiera che, ancora oggi dopo secoli di tradizione, nella sua semplicità ha mantenuto intatto il fascino intimo della contemplazione, meditazione e fede profonda.

Dopo la preghiera e il disegno ha inizio la pittura vera e propria realizzata utilizzando la tempera all’uovo, un’antichissima tecnica usata a Bisanzio e poi diffusa in tutta l’Europa a partire dal XV secolo.

Infine, dopo aver steso e fatto asciugare i colori, si passa alla lumeggiatura, con la quale si crea il senso del volume e l’effetto di una luce interna che fuoriesce, e alla scrittura di sottili linee d’oro dette assist, per evidenziare le pieghe delle vesti[7].

Abbiamo visto come nella scrittura dell’icona nulla è dato al caso ma per risplendere pienamente nei secoli un’icona ha bisogno della benedizione. Solo con la benedizione abbiamo la trasformazione da semplice dipinto su tavola in sacramentale e può essere esposto alla venerazione dei fedeli.

Realizzate con estrema abilità pittorica, le icone dell’Alemanno sono dunque qualcosa di più di immagini devozionali. Sono opere al servizio di un messaggio, di una teologia della bellezza che diventa catechesi, prima per l’artista poi per i fedeli. Sono messaggi figurati che, oltre ad avere un posto ben preciso nel culto liturgico e nella devozione privata, rappresentano un mezzo efficace per elevare l’uomo a Dio, alla Madre di Dio e ai Santi.

Le opere dell’Alemanno, grazie alla profonda esperienza maturata nel suo pur acerbo percorso artistico, al talento eccellente e alla sua innata sensibilità nell’interpretazione delle arcane immagini sacre, mirano all’inafferrabile e accendono nei nostri cuori «un insopprimibile desiderio di pace e di luce»[8].

Anche se i soggetti sono diversi, tutte le icone sono ascrivibili all’immagine di Cristo, poiché raffigurano uomini che nella vita si sono conformati a Cristo divenendone Sue immagini.

L’operosità dell’Alemanno emerge nell’excursus visivo, nell’accurata selezione personale, particolare ed esemplificativa, che presenta in ogni sua esposizione.

Sempre uguali e sempre diverse, sono opere che ammaliano e accompagnano il visitatore in un evocativo percorso di ricerca: le giovani figure androgine alate degli Arcangeli Gabriele e Raffaele; il Cristo Pantocratore sovrano di tutte le cose; così come la commovente Crocifissione; la pacata figura della Madre di Dio Oliva Speciosa, essenza misericordiosa; l’immensa energia emanata dal Salvatore tra le potenze e dal Cristo in trono; la profonda spiritualità della Santissima Trinità.

Tra le numerose icone che l’Alemanno ha realizzato nel corso del suo cammino, una in particolare desta una sconfinata emozione: la Madre di Dio . Secondo la tradizione l’iconografia mariana trae origine dall’evangelista Luca che per primo rappresentò tre icone della Vergine Maria: Eleoúsa, Hodighìtria, Aghiosoritissa[9].

“Madre di Dio della tenerezza” icona di M. L. Alemanno (ph. Frisenda)

della Tenerezza

Il canone della Tenerezza sta appunto a indicare la rivelazione della Passione e Morte di Cristo. Si spiega così la dolce espressione di Maria che, assorta mentre si china verso Gesù, esprime un affetto profondo e di dolce intimità appena velato dal pensiero della futura passione. La Vergine Maria è effigiata come la Madre per eccellenza colta in un momento di preghiera. Sul suo viso si congiungono il celeste e l’umano. Il mistero della Vergine Maria è svelato dallo sguardo che non si posa sul Figlio, ma è rivolto lontano e nello stesso tempo in una visione interiore a contatto con il devoto che la invoca, al peccatore che chiede la sua benevola intercessione. Il Bambino, che abbraccia la Madre, è anche il Consolatore, il Salvatore che rivolge la sua misericordia verso ogni essere del creato. Le scritte di colore rosso leggibili sul fondo dorato vicino alle due Sante figure sono le iniziali dei loro nomi: Madre di Dio e Gesù Cristo.

Le vesti della Madre di Dio sono quelle canoniche: il manto blu, segno di umanità e maternità divina, con un delicato bordo oro. Tre stelle, sulla fronte e su ciascuna spalla della Madre, impreziosiscono il manto e rappresentano un antichissimo simbolo sia della Trinità che della verginità della Madonna prima, durante e dopo il parto. Sotto l’elegante maphorion si intravede la cuffia pieghettata che, utilizzata per trattenere i capelli, era tipica delle donne siriane sposate. L’oro del fondo, delle aureole e di alcuni particolari rivelano la santità della Madre e del Bambino, sostenuti sempre dalla presenza di Dio.

Frutto di orazione e contemplazione, ogni icona custodisce sensazioni e messaggi che ci accompagnano nell’ideale percorso di fede e ci permettono di evocare una dimensione universale del sacro viva e latente nel cuore del cuore di ognuno di noi.


[1]Don Luigi Manca è nato a Trepuzzi (Lecce) il 21 giugno 1950. Dal 25 ottobre 1973 è sacerdote della diocesi di Lecce. È stato arciprete parroco della parrocchia matrice “Santa Maria delle Grazie” di Campi Salentina (Le). Attualmente è direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Lecce, docente di patrologia presso lo stesso Istituto e presso la Facoltà Teologica Pugliese. Fra i suoi interessi emergono le ricerche su Sant’Agostino, San Massimo il Confessore e, più recentemente, su San Girolamo.

[2] G. Gianfreda, Iconografia di Otranto tra Oriente e Occidente, Lecce 1994, 15.

[3] Cfr. K. Onash, Ikonen, Berlino 1961.

[4] Cfr. M. G. Muzj, Trasfigurazione. Introduzione alla contemplazione delle icone, Roma 1988.

[5] Cfr. E. Zolla (a cura di), P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Milano 1977.

[6] T. Spidlik, Teologia dell’iconografia mariana, in «La madre del Signore», 6 (1982), 246.

[7] Cfr. M. L. Alemanno, Nozioni di tecnica iconografica greco-bizantina, in D. Levante (a cura di), Sant’Antonio Abate e il fuoco della santità, Atti del Convegno di Studi (Novoli, 12-13 gennaio 2007), Novoli (Le) 2008, 107-116.

[8] L. Manca, L’icona: aspetto teologico-spirituale, in M. L. Alemanno – A. De Benedictis, Icone. Pennellate di luce, Novoli (Le) 2004.

[9] L’Eleoúsa, anche detta Madre di Dio della Tenerezza, è caratteristica per la tenerezza dei volti sia della Madonna che del Bambino; l’Hodighìtria è il tipo mariano più diffuso, è la classica madonna che con una mano tiene in braccio il bambino e con l’altra lo indica; infine, l’Aghiosoritissa dove la Madonna a mani giunte è girata di tre quarti.

A proposito dell’iconografia mariana attribuita a San Luca, cfr. M. Bacci, Il pennello dell’evangelista. Storia delle immagini sacre attribuite a San Luca, Pisa 1998.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6

Parlava la lingua dell’orto – il salento maruggese

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VIVA  IL  DIALETTO, TUTTI  I  DIALETTI

 di Francesco Lenoci

Sono nato a Martina Franca, in Puglia,  nel 1958. Vi ho trascorso un’infanzia felice e una giovinezza altrettanto felice. Dopo aver conseguito la maturità scientifica, sono andato a Siena per gli studi universitari e, poi,  a Cagliari, dove ho prestato  il servizio militare. Dal 1983 vivo,  lavoro e insegno nella  seconda, per numero di abitanti, città pugliese d’Italia: Milano.

Il mio Amico Emilio Marsella è nato a Maruggio, in Puglia, ha studiato come me anche a Martina Franca e si è affermato professionalmente, come il sottoscritto, a Milano.

Non credo di sbagliare affermando che Milano è la città dove generazioni di  pugliesi hanno dato il meglio di sé. Perché Milano ti accoglie, ti stimola, ti offre un’opportunità . . .   che non puoi non cogliere . .  .  se hai “occhi di tigre”, “orecchie alla Dumbo” e voglia di fare strada.

Viviamo da tanti anni lontani dalla Puglia, ma “la lontananza” – come cantava Domenico Modugno – “spegne i fuochi piccoli e accende quelli grandi”. Non temo di essere smentito affermando che ai nostri nomi  non sarà mai affiancato il proverbio maruggese “Pi iddu, pi iddu, ognunu penza pi iddu”. La speranza è che trovi applicazione l’altro proverbio maruggese citato nel Libro: “Ci busca e dai a Mparatisu vai”.

Per promuovere il Libro di Emilio Marsella “Parlava la lingua dell’orto – il salento maruggese prima degli anni 30/40 del millenovecento e dopo” ED INSIEME, giugno 2009, ho, inter alia, creato un gruppo su Facebook denominato “Maruggio….Martina Franca….Milano….Maruggio”.

Sono i nidi ove è ambientato il Libro. Cominciano tutti con la lettera “M” . . . come Marsella.

Maruggio sta all’inizio e alla fine della denominazione del gruppo: ha la valenza di due nidi. Mi hanno chiesto in tanti. . . . perché? Lo rivelo questa sera, utilizzando l’incipit della recensione del Libro che un grande giornalista, un grande Amico mio e di Emilio Marsella, Franco Presicci, ha pubblicato su La Gazzetta della Puglia di aprile-luglio 2009.

Scrive Franco Presicci: “Difficile dimenticare il proprio nido. Ci sono uccelli che vi tornano sempre. E se il vento o la pioggia lo hanno irrimediabilmente disfatto, loro ne fanno un altro, ma nello stesso posto: lo stesso albero, un buco dello stesso fabbricato come i passeri, o  sotto lo stesso tetto come le rondini. Emilio Marsella non ha dimenticato la sua Maruggio. Il suo cuore batte sempre per Maruggio,  che campeggia  spesso nei suoi discorsi”.

Ho letto una prima volta “Parlava la lingua dell’orto” nel mese di gennaio 2009 a Milano. Da quella lettura è scaturita la mia prefazione al Libro. L’ho riletto la settimana scorsa a Martina Franca. Come diceva don Tonino Bello, mutuando un’espressione di Max Weber, “Un libro che non è degno di essere letto due volte, non è neppure degno che lo si legga una volta sola”.

Nel Libro giganteggia la figura della nonna di lu Miliu: nonna Checca. Il perché è spiegato a pag. 87: “Nel nido in cui accolse il figlio e i nipoti (dopo  la prematura morte della nuora) non fu più solo la nonna. Ma in assoluto la loro mamma Checca. I piccoli nipoti la chiamavano, infatti, sempre mamma: come la chiamava il figliolo. E lei fu sempre loro madre e nonna insieme”.

Ritengo  che giganteggi perché a me, proprio a me, fa venire in mente tanti ricordi. Nonna Checca aveva un figlio emigrato in Argentina, a Buenos Aires. Anche mia nonna, morta quattro anni prima che io nascessi, aveva un figlio emigrato a Buenos Aires. Prima di partire mio zio Giovanni diceva sempre: “Tutto andrà male….non mangerò più  fave…. che lui odiava”.

La nonna di mia madre – mammà – mi vide nascere; percorreva a piedi circa un chilometro per potermi tenere in braccio. A 93 anni ballava ancora la pizzica. A pag. 122  del Libro si apprende (per i ragazzi di oggi queste cose sono in gran parte sconosciute) che “Il gallo era per nonna Checca il primo segnale naturale del nuovo giorno  e della notte, che si era ormai conclusa all’apparire della luce. Udendolo cantare ancora, l’assecondava – Tuni cuntinui a rùsciri! Nui sapimu ca jè giurnu!

Più tardi, accanto al pollaio, reagiva debolmente, senza cattiveria, alle galline che la beccavano saltandole addosso  e strappandole dalle mani il mangime che spargeva. Il padre di Emilio, allorché si accorgeva che il pollame vorace  diventava aggressivo  e assaliva  nonna Checca graffiandola, subito interveniva per allontanarlo. Affettuosamente la esortava anche a stare attenta a non farsi pizzicare”.

Anche mia nonna aveva le galline in campagna: una, alla quale  era particolarmente affezionata, la portava anche in Paese. Quella sciagurata usciva dalla gabbia e andava in giro fino a quando veniva intercettata dai vigili urbani, che facendo sciò…sciò riuscivano a risalire alla casa da cui si era allontanata. Mia nonna era sempre riuscita ad evitare la multa.

Un brutto giorno, però, la gallina anziché coccodè cominciò a fare il verso del gallo. Era un presagio di sventura, come disse alla nonna tutto il vicinato. Mia nonna, a malincuore, ammazzò la gallina una mattina. Poche ore dopo, sul far della sera,  mia nonna morì, vittima di un incidente stradale.

Un tema che pervade il Libro è il rapporto docente/studente. Emilio Marsella ha incontrato docenti non bravi e docenti bravi. È un tema complicato: mi permetto solo di dire che quello del docente è un ruolo difficilissimo. Chi vi parla è un docente universitario che, spesso, ripete una meravigliosa preghiera di don Tonino Bello:

“Salvami Signore:

  • dalla presunzione di sapere tutto;
  • dall’arroganza di chi non ammette dubbi;
  • dalla durezza di chi non tollera ritardi;
  • dal rigore di chi non perdona debolezze;
  • dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone”.

Continuerei a leggere parti del Libro, a  commentarle  e a ricordare per ore, ma non posso e non devo  farlo, perché siamo qui riuniti, soprattutto, per ascoltare Emilio Marsella e, quindi,  mi avvio alle conclusioni.

Che cos’è un maestro di cultura?

Come dimostra da par suo, Emilio Marsella, anche con “Parlava la lingua dell’orto”, è colui che ha la capacità di viaggiare nel tempo e nello spazio, discernendo le cose positive nella pittura, nella scultura, nella poesia, nella letteratura,  nella musica, nella storia. . . . nella vita quotidiana.

E perché un maestro di cultura utilizza anche il dialetto?  Semplicemente perché il dialetto esprime al meglio, da sempre,  ciò che l’uomo è.

Grazie, grazie di cuore, Amico mio.

Un punto fermo.  Non c’è partita tra la capacità espressiva del dialetto, di ogni dialetto, e della lingua italiana. Provo a spiegarlo ricorrendo a degli esempi. Ho prestato il servizio militare, tanti anni fa, a Cagliari e, precisamente, nella caserma “Monfenera”  nel 51° Reggimento Fanteria “Sassari”. Il motto di noi  “Sassarini” era ed è: SA VIDA PRO SA PATRIA. Non c’è traduzione che renda con altrettanta forza, musicalità  e immediatezza tale motto.

Emilio Marsella mi ha portato copia del Libro nel mio studio a Milano. Dalle finestre dallo studio si vede la Madunina tuta d’ora e piscinina.  Sappiamo tutti che tale definizione è tratta dalla celeberrima canzone di Giovanni D’Anzi:

O mia bela Madunina che te brillet de lontan

tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan

sota a ti se viv la vita, se sta mai coi man in man…

Lo ribadisco: non c’è traduzione che renda con altrettanta forza, musicalità e immediatezza ciò che rappresenta la Madonnina per chi vive a Milano.

Un  secondo punto fermo. Se  perdiamo la memoria delle tradizioni, cui è imprescindibilmente legato il dialetto, perdiamo tanto . . .  quasi tutto.

Nella prefazione al Libro trovate  un esempio riferito al periodo di  Carnevale che, come noto, precede la Quaresima. Ebbene, non penso di sbagliare  molto affermando che, ai giorni nostri, il Carnevale e la Quaresima sono scaduti alla condizione di pure espressioni nominali. Fino a qualche anno fa non era così! Non mi stancherò mai di ripeterlo: le tradizioni sono un dono immenso dei nostri avi su cui occorre puntare per assicurare un futuro a noi e ai nostri figli, avendo presente ciò che diceva un grande compositore e direttore d’orchestra austriaco, Gustav Mahler: “Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”.

Sono più che convinto che se si affievolisce la vitalità del dialetto . . . la conseguenza è una ed una sola: la scomparsa di un bagaglio di saggezza unico al mondo: la nostra identità culturale. Favorendo l’affermazione, in esclusiva, di un idioma sintetico. . . . stiamo distruggendo l’originalità delle nostre radici storiche e culturali. Nel libro biblico dei “Proverbi” si legge che “I detti popolari valgono a conferire al fanciullo avvedutezza e al giovane sapere e intelligenza. Il saggio che li ascolta diventerà più saggio e l’intenditore possederà di che governarsi”.

Mettendo per un attimo il berretto da economista, mi permetto di sottolineare che rinunciare alla nostra identità culturale ha come conseguenza immediata il venir meno di un  “vantaggio competitivo”. E allora . . . . grazie di cuore a coloro che si impegnano per la salvaguardia dei dialetti, tra cui Emilio Marsella.

Mi avvicino alle conclusioni, rivelandovi un segreto: che cos’è il dialetto per noi.

Un terzo  ed ultimo punto fermo.  Il dialetto è  un’esplosione di gioia. Ho fatto gli studi universitari a Siena. Eravamo in tanti di Martina Franca. Ebbene,  c’era un mio amico che studiava a Firenze: appena poteva, correva a Siena…. per poter parlare in dialetto con noi. Ho lavorato in una multinazionale americana. Mi dicevano i miei insegnanti di inglese: il segreto per poter parlare bene la lingua inglese….è pensare in inglese; mai pensare in italiano e poi tradurre! Non ho mai avuto il coraggio di confessare ai miei insegnanti che pensavo in dialetto, traducevo in italiano e, quindi, traducevo in inglese. La mia fortuna era che, avendo il dialetto nel DNA, riuscivo ad essere veloce….non mi facevo scoprire.

I miei genitori hanno messo al mondo due figli: mia sorella, che ha sei anni più di me e il sottoscritto. Sapete come mi chiamano? Mi chiamano:  u peccinne.

Un famoso slogan pubblicitario di qualche anno fa recitava: “Una telefonata. . . . allunga la vita”. A me fa molto. . . molto di più. Se telefono da Milano o Chicago a Martina Franca, quando mio padre comunica a mia madre che al telefono c’è  u peccinne,io, che ho più di cinquant’anni e  peso più di  novanta chili, grazie alla magia del dialetto, riesco a viaggiare nel tempo e nello spazio, tornando  .  . .  bambino . . .  a Martina Franca . . . con i miei genitori.

Sia lode e gloria al dialetto, a tutti i dialetti! Sia lode e gloria a Emilio Marsella che, con “Parlava la lingua dell’orto” suscita una nostalgia  che prende il cuore e lo riempie, allo stesso tempo….  di malinconia per il tempo che fu e le persone a noi care …. di amore, tanto amore, verso la nostra terra d’origine.

Viaggi Letterari in Puglia

VIAGGI  LETTERARI IN PUGLIA

 di Francesco Lenoci

Patriae Decus Città di Martina Franca, Docente Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano, Vicepresidente Associazione Regionale Pugliesi – Milano

 A distanza di due anni circa torniamo ad incontrarci, in nome della Puglia, nella splendida sala Barozzi del meraviglioso palazzo che ospita l’Istituto dei Ciechi di Milano.  Che bello!

Per la precisione era sabato 29 marzo 2008 e il titolo del Convegno, anche allora organizzato da Edizioni del Rosone “Franco Marasca” con il patrocinio dell’Associazione Regionale Pugliesi di Milano, era: “La Puglia con la Capitanata a Milano: occasioni letterarie, enogastronomiche, economiche”.

Pochi giorni prima di quel convegno la professoressa Falina Marasca mi aveva cortesemente fatto avere tre libri del professor Francesco Giuliani pubblicati da Edizioni del Rosone: “Occasioni letterarie pugliesi”, “Saggi, scrittori e paesaggi” e “Alfredo Petrucci”.

A fine autunno 2009 Francesco Giuliani mi ha fatto avere un altro libro “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia”. In buona sostanza, l’autore prosegue senza soluzione di continuità nell’acuta e meticolosa ricerca dedicata alle memorie letterarie della regione Puglia.

I quattro citati libri sono inseriti nella collana “Testimonianze”, diretta da Benito Mundi, sulle cui copertine campeggia una meravigliosa frase: “È bello dopo il morire. . . .vivere ancora”.

Edizioni del Rosone diffonde informazione, diffonde cultura da ben 32 anni! Grazie!

Un punto fermo: strappare il segreto e diffondere l’informazione – da sempre –  è l’unico strumento per la democratizzazione di ogni realtà giuridica di tipo collettivo.

Un altro punto fermo: la cultura va  intesa come intervento nella storia,  modellato dal sapere e fortificato dalla saggezza.

E non come mezzo di arroccamento nei propri territori. Guai a chi si rinchiude nel borgo! Guai a chi ha piedi e testa nel borgo!

Come ci ha insegnato un grande profeta (nato ad Alessano, parroco a Tricase, vescovo a Molfetta), don Tonino Bello:

  • la cultura è impegno, servizio agli altri, promozione umana come il riconoscimento della persona libera, dignitosa e responsabile;
  • la cultura è cemento della convivenza, orizzonte complessivo, strumento di orientamento, alimento di vita;
  • l’elaborazione culturale diventa una via obbligata per individuare stili di vita, modalità di presenza e di comunicazione, attenzione alle attese delle persone e della società, per esprimere le ragioni della speranza e accettare responsabilità in spirito di servizio.

Lo ribadisco: Edizioni del Rosone diffonde informazione, diffonde cultura da ben 32 anni! Grazie. . . . grazie di cuore, a nome dei pugliesi…ovunque essi vivano e dei tanti innamorati della Puglia.

Perché vi ho raccontato questo?

Perché tradizionalmente la Puglia è ritenuta povera di letteratura.  Ma si tratta di una visione che rispecchia solo una parte della realtà e che, spesso, viene riproposta in modo superficiale.

Grande merito di Francesco Giuliani è di aver contribuito a  smentire con i fatti il citato pregiudizio, evidenziando in che modo il territorio pugliese ha offerto l’occasione per la nascita di pagine di ispirata letteratura, per incontri e riflessioni di particolare rilievo.

Complimenti!

Non posso, peraltro, tacere che Francesco Giuliani ha commesso un errore grave, un errore imperdonabile, un errore blu, mercoledì 3 febbraio 2010, allorquando mi ha inviato, tramite e-mail delle 19,34, alcune recensioni di “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia”.

Ovviamente mi sono guardato bene dal leggerle per il semplice, banale motivo che la lettura di un libro è un piacere. . . .ma se è guidata da qualcuno. . . .che piacere è?

Come scrive Kazimiera Alberti: “La felicità si può misurare in due modi: con gli occhi della folla e con il tremore del proprio cuore. Ma queste sono due misure del tutto differenti” (Cfr. pagg. 173-174).

Condivido pienamente: nessuno può privare il mio cuore, la mia mente e la mia anima del piacere di leggere un libro e delle emozioni che  scaturiscono dalla circostanza che all’occhio che legge si aggiunge la fantasia che varia, suggerisce e  abbellisce. Prenderò visione delle citate recensioni dopo San Valentino.

Ho letto una prima volta “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia” negli ultimi giorni dell’anno 2009 a Martina Franca.

L’ho riletto questa settimana a Milano e durante un viaggio in treno a Roma.

Come diceva don Tonino Bello, mutuando un’espressione di Max Weber, “Un libro che non è degno di essere letto due volte, non è neppure degno che lo si legga una volta sola”.

Per promuovere il libro di Francesco Giuliani “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia” Edizioni del Rosone, 2009, ho, inter alia, creato un gruppo su Facebook denominato “Viaggi….in terra di PUGLIA” (1.081 membri), che accoglie due Eventi: “I VIAGGI LETTERARI sostano A SAN SEVERO” e “I VIAGGI LETTERARI sostano A MILANO”, ai quali ho invitato 6.000 persone.

Perché ho fatto tutto questo?

Perché mi ha intrigato l’idea che è venuta a Francesco Giuliani di vedere la Puglia attraverso gli occhi di un altamurano residente a Roma, di una scrittrice polacca e di un grande senese. Faccio spiegare l’arcano da un avatar: il suo nome è Bairon.

Sussurra  Bairon a Kazimiera Alberti: “Oggi sono venuto a Bari per rivedere questa città nuova”. . . . e fa una richiesta sorprendente: “Vi prego di farmi da guida”.

“Io!? Ma io sono una straniera, non lo sapete?”

“Lo so benissimo! Appunto per questo vi prego. Lo straniero vede sempre le cose caratteristiche. Lo stesso quadro ammirato per la prima volta fa altra impressione che visto per anni, giorno per giorno. Gli occhi si abituano molto presto ed ogni cosa osservata, la più bella o la più strana, diventa normale, schematica, forse anche noiosa. Gli occhi dello straniero sono più freschi, vedono quei contorni che sfuggono all’attenzione dello stabile abitante, vedono i riflessi in quelle macchie che per tutti gli altri sono opache” (Cfr. pagg. 180-181).

Oggi, sabato 13 febbraio,  siamo a Milano e, come affermano  Totò e Peppino De Filippo in un celeberrimo film, allorquando arrivano a Milano vestiti con pellicce e colbacchi: “A Milano fa freddo”.  In Puglia no, per definizione!

Rileva Kazimiera Alberti: “Non aver molta fiducia nel calendario. Anche esso tradisce, falsifica, inganna. Ritarda, avanza, senza motivo. Oggi, per esempio, ti comanda di credere che è il 12 febbraio. Ma guarda invece il cielo, il mare, l’intero Golfo di Manfredonia tagliato in forma di falce ideale. Guarda la montagna garganica. La giornata primaverile ha cancellato l’iscrizione 12 febbraio e si fa beffe del calendario. Ha immerso tutto nel turchese” (Cfr. pag. 171).

Cesare Brandi non era stato altrettanto fortunato. Narra che, una volta, giungendo in Puglia nella stagione più fredda vi trovò la neve, per quanto dall’effimera esistenza. La sgradevolezza di tale presenza è descritta da par suo: “Lo scrivo senza paura, perché a me la neve fa schifo, ipocrita, menzognera e, quanto più è linda e immacolata, tanto più è ipocrita e menzognera. Che simbolo inetto, che metafora stantia, questa purezza che si scioglie al primo calore, questa immacolatezza che s’insudicia subito…. I paesi che Cesare Brandi ama sono quelli dove non nevica mai, dove non si chiede la purezza alla neve e la saggezza al freddo e tra questi rientra di norma anche la Puglia, dove il sole brucia quasi sempre e le precipitazioni nevose sono solo un’eccezione che conferma la regola” (Cfr. pag. 230).

Lo sappiamo tutti: anche in Puglia nevica non di rado. Quello che sanno in pochi (io l’ho appreso dal mio Amico Franco Presicci) è che i nostri Avi, grazie ad un diffuso spirito imprenditoriale, riuscivano a trasformare quella che è ancora adesso una calamità, ben nota a coloro che vivono a Milano, in un’opportunità.

A partire dal Settecento i pugliesi conservavano la neve nelle neviere. E quando non nevicava lasciano le neviere inutilizzate? Certo che no! I proprietari e gli appaltatori delle neviere facevano arrivare la neve dalla Basilicata, dalla Calabria e, persino, dalla Grecia.

Dalla neve, diventata ghiaccio nelle neviere, gli abitanti di Martina Franca in particolare, ricavavano e vendevano, in estate, i famosi e voluttuosi sorbetti al limone, al rosolio, alla menta, al vin cotto (Cfr. Angelo Marinò, Martina Franca Ieri, Edizioni AGA, 1993, pagg. 27-28).

Che cosa bella. . . . la capacità di creare valore!

Che cosa bella ….la spiritualità! Utilizzo le bellissime parole di Rocco De Rosa: “Le rocce del Gargano sono diverse da quelle solite che s’incontrano ai bordi delle strade: più incisive, più profonde, più eloquenti. Quasi umane nel loro aspetto. Dimostrazione di umiltà e di ubbidienza, quelle rocce non disegnano scenari fastosi, né mondi fondati sulla gloria, il lusso, la potenza. Tutt’altro. . . . Il Gargano è luogo di pace.  È una terra speciale, che ha ospitato il Frate giunto da Pietrelcina, che ha scelto quella terra come suo approdo, perché corrispondente al suo disegno interiore. Lui è testimonianza e storia, avvertono  le rocce” (Cfr. Rocco De Rosa,  L’universo di Padre Pio, Rubbettino  Editore 2006, pag. 13).

Che cosa bella. . . . la lealtà! Osserva Nicola Serena di Lapigio: “A una svolta, Monte Sant’Angelo appare sulla vetta, bello perché è sempre meraviglioso a vedere un paese antico sopra una grande altura: un paese che par viva di sogni e dove gli uomini pensosamente raccolti nel sublime isolamento della montagna, stretti fra loro dalla comune gioia di vivere in alto, discosti da deprimenti traffici e da ammorbanti miasmi, sembra che lassù debbano sentirsi veramente puri e finalmente fratelli, non avendo da lottare  che contro i venti e le nubi, nemici formidabili ma aperti” (Cfr. pag. 95).

Che cosa bella ….quando si associano estetica ed etica! Secondo Cesare Brandi l’amore per l’arte e la natura portano sempre con sé, come necessario risvolto della medaglia, il dovere di difendere questo patrimonio prezioso, indispensabile all’uomo per non perdere la sua umanità, il suo valore aggiunto” (Cfr. pagg. 208-209).

Ammonisce Brandi, con grande saggezza e lungimiranza: “L’opera d’arte non è l’eterno ritorno: è l’eterna presenza. Se fa tanto di partirsene una volta, non ritorna più . . . .La Puglia non deve tradire le proprie tradizioni e le proprie radici, nell’acritica accettazione dei tempi nuovi (Cfr. pag. 212).

Una delle  località  pugliesi predilette da Cesare Brandi è Martina Franca, cui nel 1968 dedica un intero libro.

Quel libro ….ve lo mostro ….fu pubblicato a Milano,  da Guido Le Noci, cugino di mio nonno. Il mondo è proprio piccolo! In quel libro l’arte della scrittura ingaggia una vera e propria gara di bravura con l’arte della fotografia.

Lascia sbalorditi l’entusiasmo che Cesare Brandi, un figlio della meravigliosa Siena,  che ha girato il mondo col berretto di critico d’arte, manifesta per la Valle d’Itria (gli spazi verdi, costellati di trulli, tra Martina Franca, Locorotondo e Cisternino) e Martina Franca.

Vi leggo due frammenti, riportati in “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia” di quella che mi piace definire “Dichiarazione d’amore”.

“Nessuna campagna è più festosa di questa (della Valle d’Itria), che è come un girotondo di bimbi, l’illustrazione benevola di una fiaba, il pianeta d’un’età privilegiata e innocente. Ma è pure come uno scampanio silenzioso che fa echeggiare, nel più riposto del cuore, ricordi sopiti e subitanei, di mattini lieti e di scampagnate festive, d’un’età perduta che sembra di ritrovare come un vestito in fondo a un cassetto o un fiore dentro un libro” (Cfr. pagg. 226-227).

“Martina Franca, capitale del rococò, è unica nel suo genere, con le sue decorazioni, con i suoi fregi, che la rendono un piccolo miracolo appartato e tranquillo, il riflesso tutto di fantasia d’una cultura per sentito dire, come fosse polline venuto da lontano, portato dal vento e lì caduto. C’è un clima che rende tutto possibile, persino incontrare in piazza qualche celebre musicista, come Paisiello o Mozart” (Cfr. pag. 227).

Mi avvio alle conclusioni.

Per comprendere una realtà urbana della Puglia, nota la polacca Kazimiera Alberti, bisogna guardare all’aperto, al di fuori delle case, altrimenti si rischia di essere parziali o superficiali. “A Bisceglie, ad esempio, la  via è casa, magazzino, laboratorio, passeggiata, tribunale ove sarà definito ogni litigio, chiesa per la quale passa la processione, sala di conferenza per adunate e comizi, palestra nella quale i ragazzi provano le loro prime forze sportive e altana sulla quale giovani e vecchi si baciano” (Cfr. pag. 147).

Ritengo che a Bisceglie . . . .in Puglia la situazione sia significativamente mutata….ma quanta nostalgia.

Per descrivere tutto ciò, la prosa non basta….occorre la poesia. La poesia, meravigliosa, s’intitola “Sogno” ed è di Elena Casavola.

S O G N O

Giorni  d’estate:

vicoli  bianchi

inondati  dal  sole,

panni  stesi  ad  asciugare,

una  vecchia  sull’uscio

a  sbucciare  le  fave.

Giorni  d’estate:

vociare  di  bimbi

che  giocano  al  soldo,

un   ferro  da  stiro

ruotato  nel  vento,

donne  che  filano

il  fuso  lanciato

nel  mezzo  alla  strada.

Giorni  d’estate:

nell’aria  pura  profumo

di  rose  e  gelsomini,

insieme  ai  trilli  e  al  cicalio.

Da  lontano, scandito  dai  passi,

il  ticchettio  del  bastone

di  un  vecchio  signore

che  lento  rientra.

Gli  vado  incontro  leggera . . . .

Ora:

le vecchie

stanno rinchiuse nei piani

alti dei condomini,

i  loro  fusi  abbandonati

arrugginiscono  nelle  soffitte.

I bimbi, fermi, sono

incantati dai falsi giochi

sui  teleschermi.

Non splende il sole

sui loro visi, non  fanno  crocchio

nelle  stradine.

Nei vichi spenti s’aggirano lenti 

volti  sparuti di  clandestini.

Meglio sognare! 

Com’era una volta 

quel mondo semplice senza  tv,

senza  telefono,

senza  automobili,

senza merende di crema e cacao,

coi  denti  bianchi

che masticavano anche le pietre.

Non c’era  in casa l’acqua

corrente  e neanche bagni

lucenti di specchi.

Ci si lavava  in  una  tinozza

e la doccia era un secchio

che la mamma sul capo

ti rovesciava.  E si sognava!

Ora non più. 

Concludo. Sia lode e gloria a Francesco Giuliani e a Edizioni del Rosone che, attraverso il libro “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia”, hanno lanciato un messaggio chiaro e forte che  giungerà a tante persone,  tra cui  tanti visitatori della BIT di Milano che si svolgerà la prossima settimana: “Gentili Signore e Signori, vi consigliamo di visitare questo giardino megalitico e vi assicuriamo che non vi annoierete. La Puglia è regione per turisti molto intelligenti; è vietato l’ingresso alle menti torpide” (Cfr. pag. 132).

È per tutto questo che, in nome dell’Associazione Regionale Pugliesi di Milano e per conto di tutti i pugliesi, mi permetto con grande gioia di dare un consiglio fraterno.

Andate in Puglia….rectius Venite da noi in Puglia:                           .

  • per vivere i colori delle terre di Puglia;
  • per vivere i sapori delle terre di Puglia;
  • per vivere la letteratura delle terre di Puglia;
  • per vivere la spiritualità delle terre di Puglia;
  • per vivere. . . .consapevoli di quanto sia bello dopo la morte . . . . vivere ancora.

I Pignatelli: aristocratici a Napoli e in Europa

I Pignatelli: aristocratici a Napoli e in Europa

di Lucia Lopriore

Fresco di stampa il meraviglioso volume edito dalla casa editrice foggiana, Edizione del Rosone “Franco Marasca”, che inaugura una nuova collana editoriale sulle genealogie e l’araldica diretta da chi scrive, autore Davide Shamà, titolo: “L’Aristocrazia Europea ieri e oggi. Sui Pignatelli e famiglie alleate”. (pp.326, ill. B/n e colori, Foggia 2009, prezzo € 35,00).

Questo primo volume tratta della genealogia di una tra le più importanti casate europee: i Pignatelli.

L’autore a tale riguardo nell’Introduzione scrive:

Questo lavoro è nato con l’intento di presentare una genealogia attendibile dei Pignatelli e di studiare i rapporti parentali con le famiglie alleate. Fin dal XVI secolo sono numerosi gli autori che  hanno trattato questa dinastia, ma nessuno si è occupato di presentare, in tempi moderni, una genealogia completa di dati e informazioni araldiche. Se si escludono le note sparse di Ammirato, Mazzella e altri minori, il primo ad aver pubblicato qualcosa di importante in merito è stato Filiberto Campanile agli inizi del XVII secolo. A questo seguì Carlo de Lellis, che a parte vari aggiornamenti e correzioni, riprese tale e quale l’impostazione del lavoro del predecessore. Questi autori soffrono, chi più e chi meno, dei limiti della storiografia seicentesca, basata, specie per il periodo medioevale, su leggende, su veri e propri travisamenti delle fonti o, peggio ancora, su falsificazioni. Il tedesco Jakob Wilhelm Imhoff, uno dei maggiori genealogisti del suo tempo, agli inizi del XVIII secolo definì la genealogia Pignatelli in una prospettiva più internazionale, indagando i matrimoni con le nobiltà spagnola e belga (nobiltà imperiale), che aveva studiate minuziosamente. Com’è noto, Imhoff pubblicò importanti volumi che ancora oggi sono considerati fondamentali. Dopo il XVIII secolo non si segnalano opere di così larga prospettiva ed erudizione. Bisogna arrivare alla fine dell’ottocento con la genealogia manoscritta di Livio Serra di Gerace, oggi all’Archivio di Stato di Napoli, per trovare un lavoro moderno. Il manoscritto si presenta come una semplice raccolta di dati anagrafici e nominativi riportati in uno schema genealogico. Si ferma, all’incirca, al 1919. La scarna documentazione, per quanto attenta, contiene però vari errori e incongruenze. Per la parte medioevale, tra l’altro, Serra non dà particolari indicazioni e si limita a far cominciare lo schema dal XIV secolo, sull’esempio di de Lellis, Imhoff e Campanile. Il presente lavoro tenta di correggere, integrare, modificare e aggiornare tutte queste fonti e propone una ricostruzione della genealogia più antica a partire dal XI secolo.

La successione delle prime generazioni è da considerare ipotetica, ma è almeno verosimile da Giovanni, ambasciatore napoletano all’incoronazione di Federico II di Svevia nel 1220. Questo personaggio è il probabile genitore di un Riccardo Pignatello de Caserta, da cui la genealogia continua certa fino ad oggi. I pochi documenti coevi rimasti, i nomi ricorrenti da generazione in generazione, le cariche e i possessi, orientano la ricostruzione in questo senso.

Documentati dal XI secolo, i Pignatelli sono una famiglia prettamente napoletana, conosciuta con il cognome de Domina Maria, che possiede parecchi beni a Napoli e nei suoi dintorni. Secondo de Lellis la loro influenza si estendeva fino a Caserta, dove è attestato che vari personaggi del casato ebbero beni e incarichi per tutto il XIII secolo fino agli inizi del secolo successivo. E’ da escludere che discendessero da un console napoletano di nome Lucio vivente nel 1102, essendo questo personaggio privo di documentazione storica. Durante il periodo angioino appartengono alla classe cavalleresca e ricoprono cariche amministrative di varia importanza. Alla creazione dei seggi si aggregarono al Seggio di Nido. Al tempo di Carlo III di Durazzo (1381-1386), con un Angelo Pignatelli, iniziò l’ascesa della dinastia. La linea maggiore fu quella di Monteleone, originata da Carlo (1421-1476), pronipote di Angelo. La prima alleanza importante, senz’altro uno dei fattori dell’ascesa sociale, si ha con Caterina, figlia di Carlo, moglie di uno dei maggiori feudatari del Regno di Napoli, Onorato Gaetani Conte di Fondi. Ettore († 1535), figlio di Carlo, entra nell’amministrazione napoletana come molti nobili del tempo e diviene ben presto favorito del Re Federico. Conserva il favore con Ferdinando II d’Aragona e diviene poi uomo di fiducia dell’Imperatore Carlo V. Questi lo ricompensa con titoli, feudi e onori, e lo tiene tra i più stretti collaboratori italiani. Ricordo solo che ebbe il governo vicereale della Sicilia per quasi diciotto anni, caso più unico che raro nella serie dei governatori spagnoli in Italia. Egli e i discendenti accumularono un enorme patrimonio feudale in Calabria, che aveva il suo centro nel ducato di Monteleone. Lo stato era vincolato, cosa strana per le consuetudini del tempo, da un fidecommisso che permise la sua  trasmissione intatta per vari secoli. La fusione tra le linee di Monteleone e di Noia, a seguito del matrimonio tra Girolama Duchessa di Monteleone con il lontano cugino Fabrizio Principe di Noia (1615), espanse ulteriormente il patrimonio feudale. A questa fusione ne seguì un’altra ancora più importante nel corso del XVII secolo quando, per alleanza, entrarono in casa Pignatelli tutti i feudi, titoli e beni della famiglia Tagliavia d’Aragona, una delle più cospicue della Sicilia. La linea che ne derivò, i Pignatelli Aragona Cortes, s’impose  tra le dinastie napoletane più influenti del meridione e tra le prime cinque siciliane per numero di feudi e cariche ereditarie detenute. Erano l’asse attorno al quale ruotava la stirpe. Esclusi pochi casi, quasi tutti i membri più influenti e celebri appartenevano a questo ramo. I Pignatelli Aragona Cortes ebbero incarichi, onorificenze e contrassero matrimoni con la più importante nobiltà iberica. Almeno nel corso del XVII secolo ebbero una influenza grandissima nell’area spagnola. Una sua linea si trasferì in Spagna, dove tuttora fiorisce, e nel XVIII secolo ebbe almeno un importante diplomatico. Anche nell’ambito ecclesiastico si distinsero con vari cardinali (ma nessuno arrivò al soglio pontificio, privilegio che toccò, invece, ad Antonio Pignatelli, appartenente alla linea principesca di Minervino). Tra i feudi spicca il marchesato americano della Valle de Oaxaca (detto Vaglio), concesso a Hernán Cortés, il celebre conquistatore del Messico e distruttore della civiltà azteca, ereditato tramite le famiglie Hurtado de Mendoza e Tagliavia Aragona. Le sue ricchezze furono cospicue ed è noto che ancora nella prima metà del XX secolo godevano di rendite messicane. Questa immensa fortuna scomparve del tutto agli inizi del passato secolo. Il terzo grande patrimonio che entrò in casa Pignatelli Aragona Cortes fu quella dei principi Piccolomini d’Aragona principi di Valle. A seguito di tale alleanza raggiunsero la massima espansione per domini, entrate feudali e vassalli negli ultimi decenni del XVIII secolo.

Accanto alla linea primogenita di Noia si distinse, a cavallo tra ‘700 e ‘800, il ramo dei principi di Strongoli, le cui gesta legate alla rivoluzione napoletana del 1799 e al regime murattiano è inutile ricordare in due righe tanto sono celebri.

L’unica altra linea che per importanza si potrebbe paragonare è quella ducale di Bisaccia, che sulla fine del XVII secolo ereditò le ragioni degli Egmont. Trasferiti a Bruxelles e poi a Parigi, i Pignatelli d’Egmont si legarono con le principali dinastie francesi e belghe. Il Principe Casimiro Pignatelli d’Egmont (1727-1801) ricoprì la carica di ministro plenipotenziario per conto del Re Luigi XV e governò alcune province francesi. Possedeva beni e feudi in Belgio, in Francia, nello Stato Pontificio e nel Regno di Napoli.

Nei tempi moderni la dinastia è decaduta dagli antichi fasti, e nel XX secolo parecchi Pignatelli hanno brillato solo nelle cronache mondane. Rovesci finanziari ed eccentricità hanno minato irreversibilmente l’importanza e lo status sociale di alcune linee. Forse l’unico personaggio storico ancora degno di nota è il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara (1886-1965), che ebbe un’esistenza avventurosa tra guerre, fascismo e intrighi politici di ogni genere, ancora tutta da studiare. Se dal lato storico c’è stata una decadenza evidente, invece alcuni membri della dinastia si sono distinti nelle arti. Giuseppe (detto Pepito) Pignatelli Aragona Cortes (1931-1981) è stato un famoso batterista e animatore di alcuni dei maggiori locali jazz d’Italia, noto a livello internazionale, mentre la zia Maria Anna (detta Mananà) (1894-1960), scultrice e pittrice di talento, fu mecenate di pittori e musicisti insieme al marito Guido Sommi Picenardi. In entrambi i casi, però, mancano ancora studi adeguati sugli effettivi meriti e sull’influenza esercitata nel loro contesto socio-culturale. Non escludo che future e più approfondite ricerche riserveranno interessanti sorprese.

 Sono sopravvissute fino ai nostri giorni le linee di Monteroduni, di Montecalvo, di Noia-Terranova, di Cerchiara e di Fuentes-Monteleón. Già nel medioevo sono attestati parecchi personaggi d’incerta collocazione, forse qualcuno ha anche dato origine a dei rami che, in qualche modo, sono arrivati fino ai tempi recenti. In mancanza di documentazione convincente e provata, ma soprattutto perché omessi fin dalle fonti più antiche, si è preferito tralasciarli. Saranno oggetto di una ricerca più approfondita in una prossima edizione del presente volume.

Per quanto riguarda le titolazioni, i trattamenti di Don e Donna sono stati limitati alle sole dinastie con titoli ducali e principeschi, com’era in uso prima dell’inflazione avvenuta nel periodo spagnolo, e per tutti i nobili spagnoli nella loro lingua originale come da tradizione araldica di quel paese. I titoli moderni italiani sono indicati anche dopo la caduta della monarchia, ma si è preferito considerare la situazione legislativa come congelata agli Elenchi Ufficiali pubblicati e ai riconoscimenti avvenuti fino al 1946. In effetti, il vecchio ordinamento nobiliare sarebbe in urto con parecchie novità introdotte dal nuovo diritto di famiglia del 1975, che renderebbero problematiche le attribuzioni e le successioni dei vari titoli. Per questo motivo, e perché privi di copertura giuridica o perché difformi dalla vecchia legislazione del Regno d’Italia, non sono indicati i riconoscimenti (o concessioni) effettuati da Re Umberto II in esilio, dal Corpo della Nobiltà Italiana, da ordini cavallereschi e da entità statali straniere. I titoli stranieri moderni sono riportati come in origine o secondo la legislazione degli stati che attualmente riconoscono i titoli e la nobiltà, limitando le correzioni  solo dove strettamente necessario. Gli aggiornamenti sui viventi sono riportati fin dove è stato possibile. Infine, ho preferito omettere informazioni specifiche inerenti la vita privata dei personaggi viventi (professioni, titoli di studio ecc.). Solo in alcuni casi eccezionali sono state riferite le vicende personali che ebbero riscontri sulla genealogia in tempi recenti”.

Suddiviso in undici capitoli, il volume si apre con la summenzionata Introduzione, per poi entrare nel vivo della trattazione delle varie linee della casata.

Il primo capitolo parla della linea antica, qui l’autore si sofferma ampiamente sulle origini del cognome Pignatello che si affermò a partire dalla metà del XII secolo, nascendo come soprannomen della famiglia napoletana dei De Domna Maria, come attestato da vari documenti del monastero di San Gregorio Armeno. Pertanto, la tradizione genealogica secondo cui il primo esponente noto della famiglia fosse Lucio Pignatelli, Console di Napoli nel 1102, nome proprio peraltro non presente nei documenti napoletani di epoca ducale e normanna, è da ritenersi falsa, così come sono da ritenersi frutto dell’invenzione dei genealogisti del XVI secolo i suoi discendenti Giordano e Ridolfo.

Segue il secondo capitolo che tratta dei marchesi di Casalnuovo, il terzo dei principi di Monteroduni e della Leonessa, il quarto dei principi di Strongoli e duchi di Roccamandolfi, il quinto dei duchi di Montecalvo e marchesi di Paglieta, il sesto dei duchi di Monteleone e conti di Borrello, il settimo è dedicato alla linea Pignatelli Aragona Cortes – principi del SRI, di Noia, di Strongoli e di Belmonte, nel capitolo ottavo si parla della linea illegittima dei principi di Strongoli, nel nono dei principi di Minervino e dei marchesi di Spinazzola, nel decimo dei principi di Marsiconovo, e dulcis in fundo, l’undicesimo capitolo parla della linea di Egmont, dei principi di Gavre e duchi di Bisaccia.

Un’ampia trattazione che, per la prima volta in assoluto, si avvale di una ricerca capillare svolta anche presso gli archivi privati appartenenti a vari rappresentanti della famiglia. Un’opera unica che rappresenta  senz’altro  un genere letterario altamente scientifico nel quale il testo si inserisce, a pieno titolo, nel novero delle ricerche svolte secondo criteri agnatistici e cognatistici essenziali per tramandare la memoria storica alle generazioni future.

Il volume è altresì corredato da un dovizioso apparato iconografico, con foto d’epoca inedite, opera della laboriosa ricerca dell’autore, svolta presso gli archivi privati dei rappresentanti la famiglia, nonché dell’archivio privato del fotografo Giovanni Battista Brambilla, e di alcuni corrispondenti e collaboratori dell’autore stesso.

Conclude il testo una splendida Appendice che tratta delle famiglie principesche che hanno assunto il cognome Pignatelli per eredità, a cura dell’autore, ed un preziosissimo Blasonario, composto di 120 stemmi a colori, curato da Loris Castriota Skanderbegh,  esperto in storia delle famiglie aristocratiche europee ed Araldica.

Il volume è acquistabile dal catalogo on line della casa editrice al link: www.edizionidelrosone.it oppure si può ordinare all’indirizzo e- mail: edizionidelrosone@tiscali.it.

Spicilegia Sallentina n° 4, dicembre 2008

  • Giovanni Zuccaro, Editoriale, p. 1
  • Sommario, p.3
  • Alfredo Sanasi, Maria d’Enghien mecenate del primo rinascimento salentino, p.5
  • Francesco Danieli, La sede vescovile di Gallipoli dai primordi del cristianesimo al 1986, p. 11
  • La poesia – Enrico Gaballo, Salento in controluce, p. 19
  • Roberto Filograna, Bisignano e Nardò. I Sanseverino e gli Acquaviva d’Aragona, p. 19
  • La poesia – Sonia Colopi Fusaro, La pizzica, p. 28
  • Cosimo Giannuzzi, Origine ed evoluzione del reticello e del “punto in aria” a Maglie, p. 29
  • Marcello Gaballo, Palazzo Pellegrino. Una dimora patrizia nel pittagio San Salvatore in Nardò, p. 41
  • Old clocking – Note sul collezionismo salentino, p. 50
  • Angelo Diofano, Il cappellone di San Cataldo a Taranto, capolavoro dell’arte barocca, p.51
  • Domenica Specchia, I reliquiari delle Ss. Caterina e Agata nel tesoro di S. Caterina d’Alessandria in Galatina, p.55
  • La poesia – Antonio Mele, Terra mia, p. 61
  • Giuseppe A. Pastore, Tito Schipa (1889-1965). L’amico e l’artista, p. 61
  • Gianfranco Budano, Ecce turris. Riflessioni a margine di alcune torri costiere, p. 65
  • Angelo Onorato, Una formazione religiosa minore. Il tarantismo pugliese, p. 69
  • La poesia – Goffredo Tana, Salento, p. 72
  • Enrico Longo, La presenza della madre nella vicenda poetica di Ercole Ugo d’Andrea, p. 73
  • Old clocking – Note sul collezionismo salentino, p. 82
  • CEA “Posidonia”, Il parco naturale Litorale di Ugento, p. 83
  • Giuliano Giunchi, Il mistero dei segni: divagazioni in margine a una svista, p. 85
  • Francesco Lacarbonara, Il mirto tarantino. Storia e mito di una delle piante più tipiche della macchia mediterranea, p. 89
  • Michele Lenti, La pittura di Leonardo Antonio Olivieri a Martina Franca (parte seconda), p. 97
  • Emilio Rubino, Lu munaceddhu tispittusu. Fatti e misfatti dello spiritello domestico salentino, p. 105
  • La poesia – Nicola Manieri Elia, Natale, p. 111
  • Melanton, Proverbi salentini illustrati, p. 112.

Spicilegia Sallentina n°1

  • NINO FEDELE, I buoni propositi di chi comincia   p. 3
  • MARIA VITTORIA MASTRANGELO, Il villaggio medioevale di S. Maria delle Tagliate. Riflessioni su una pagina dimenticata della storia di Nardò   p. 5
  • MARCELLO GABALLO, Il monumento funebre degli Acquaviva d’Aragona di Nardò. Un artista al servizio dei duchi e dei loro congiunti in Terra d’Otranto   p. 11
  • Perle di pietra   p. 22
  • ANNAMARIA ACCETTURA, L’Annunciazione salvata. Vicissitudini di un antico dipinto dimenticato nella sacrestia della chiesa dei SS. Niccolò e Cataldo a Lecce   p. 25
  • COSIMO ANTONIO MUCI, Restauro degli affreschi del quadriportico del complesso conventuale di S. Antonio da Padova in Nardò   p. 29
  • SALVATORE MUCI, Soldati e vicende della Torre di Santa Caterina alias de lo Scorzone   p. 41
  • FRANCESCO DANIELI, Fabio Chigi. Chiaroscuri “barocchi” di un uomo e di un papa   p. 45
  • La poesia
  • RITA ESPOSITO, S. Caterina   p. 54
  • MARA CECCARELLI, Il groviglio   p. 56
  • NICOLA MANIERI ELIA, Fuecu ti ‘state (quando lu sole spaccava li petre)   p. 58
  • Old paper    p. 60
  • MARIANGELA MORCIANO, Il purgianella di Castrignano del Capo   p. 65
  • Salento, segni di civiltà   p. 70
  • ALBA DE TRANE, I Caffè Letterari europei. Restaurant Le Procope, fondé en 1686    p. 71
  • Salento, segni di civiltà  p. 75 
  • Recensioni   p. 77
  • Spicilegia Sallentina n°2, dicembre 2007

    • NINO FEDELE, Editoriale  p. 3
    • FRANCESCO DANIELI, Dall’Africa Nera alla Terra d’Otranto. Linguistica, storia e arte nel simpatico percorso del termine “bacònchi”  p. 4
    • DARIO PREVIDERO, Salviamoli!  p. 14
    • SALVATORE MUCI, Note sulla torre di S. Maria dell’Alto alias del salto della capra  p. 15
    • FABIO FIORITO, Tipologie abitative a Nardò. Trasformazione di una domus palaciata in pittagio S. Paolo    p. 18
    • MARCELLO GABALLO, Sul feudo copertinese di Specchia di Normandia o Cambrò e sulla masseria “la Torre”   p. 25
    • Old paper    p. 31
    • CARLA MARTINI, Gli ulivi di Puglia fra cielo e terra. Lettura di una realtà posta in un tempo immortale   p. 32
    • ANNAMARIA ACCETTURA, Una rara iconografia in sant’Angelo  a Lecce: Sant’Anna e San Gioacchino con la Madonna Bambina   p. 34
    • PIERLUIGI PARISI, Un’ospite illustre a Nardò. Bona Sforza, duchessa di Bari e regina di Polonia   p. 38
    • Salento, segni di civiltà  p. 48
    • ROBERTO FILOGRANA, Bernabò Sanseverino, da capitano di guerra a signore di Nardò (1384-1400)  p. 49
    • FRANCESCO DANIELI-GAETANO DANIELI, La chiesa abbaziale di sant’Angelo della Salute. Un gioiello dimenticato  p. 66
    • MARIA VITTORIA MASTRANGELO, L’intervento dei Sanfelice sulla cattedrale neritina. Storia di un restauro “illuminato”   p. 69
    • DANIELE ARNESANO, Il meneo della curia vescovile di Nardò   p. 77
    • Salento, segni di civiltà  p. 81
    • DANIELA COSENTINO, Il guardiano delle ore. Aldo Spano da oltre quarant’anni regola la vita della città  p. 82
    • La poesia – NICOLA MANIERI ELIA, 2 novembre   p. 86
    • La poesia – RITA ESPOSITO, 11 settembre   p. 88
    • LUIGI GIUNGATO, La nobiltà gallipolina nel Settecento   p. 89
    • Salento, segni di civiltà  p. 92
    • ALBA DE TRANE, I Caffè Letterari europei. Caffè Florian di Venezia    p. 93
    • Recensioni   p. 96

    Il sesto numero di Spicilegia Sallentina, la Rivista del Caffè letterario di Nardò

    La presentazione del sesto numero si è tenuta Domenica 3 gennaio 2010, chiesa del Carmine in Nardò, ore 18.30

    la copertina del sesto numero

    Puntuale, come al solito, è arrivato il nuovo numero di Spicilegia Sallentina.

    Sesto di una ormai prestigiosa serie, è atteso in tutto lo Stivale da molti amici, appassionati cultori di storia, antropologia e arte in tutte le sue forme. Racchiude le fatiche letterarie dell’ultimo semestre 2009, offerte con gratuità encomiabile da autorevoli firme della cultura nostrana e da nuovi talenti meritevoli di essere apprezzati.

    Vari ed originali i contenuti, riguardanti aspetti noti e meno noti della civiltà di Terra d’Otranto, armonizzati con gusto nel raffinato stile della Rivista.
    Un 2009 di crisi, quello che va volgendo al termine, durante il quale la sete di conoscenza e il gusto per la ricerca e l’approfondimento si sono dimostrati veri toccasana per risollevare gli animi disorientati.

    Un’opera d’arte svelata, un aspetto folklorico messo in evidenza, un evento collocato nel suo giusto orizzonte, una poesia… sono così diventati diversivi al grigiore quotidiano e a quel senso di umana sconfitta che spesso bussa alla porta dei comuni mortali (dalla prefazione di Giovanni Zuccaro, Presidente del Caffè Letterario di Nardò, che edita la rivista)

    In questo numero:

    Dania Nachira, La cripta di S. Angelo in Uggiano La Chiesa, una testimonianza bizantina nella Valle dell’Idro
    Enrico Gaballo, Il racconto del silenzio. L’abbazia di Sancta Maria de le Talliate
    Francesco Danieli, Antonio Galateo l’Erasmo di Terra d’Otranto
    Roberto Filograna, Per la storia di Nardò. Tommaso Sanseverino (1435-1438), conte di Nardò e Copertino
    Annunziata Piccinno, La chiesetta della Madonna di Luna. Uno scempio storico-artistico tra Seclì, Galatone e Aradeo
    La poesia – Agnese Bascià, Acquerello salentino
    Roberto Filograna, Isabella Acquaviva d’Aragona (1579-1592): storie d’amore della figlia del duca di Nardò
    La poesia – Sonia Colopi, Terra rossa
    Angelo Onorato, Il tarantismo è una malattia? Il merito di Ernesto De Martino
    Ennio De Simone, Gregorio Olivieri (1790- 1853): un chirurgo neretino al VII Congresso degli Scienziati Italiani
    Gianfranco Budano, La “pirateria” nel Mediterraneo
    Cosimo Giannuzzi, Nicola D’Urso da Corigliano d’Otranto,  calligrafo, miniaturistica, stenografo
    La poesia – Nicola Manieri Elia, Espra ti jernu
    Paolo Giuri, Santi patroni e filantropi nel “cielo” ligneo della Cattedrale di Nardò
    Michele Lenti, La chiesa di san Sebastiano in Francavilla Fontana
    Clara Miccoli, Delizie gastronomiche del Salento. L’autentica pasta di mandorla
    Stefano Tanisi, Il dipinto della Madonna di Costantinopoli di Paolo De Matteis nella chiesa dell’Addolorata in Maglie
    Giovanni Boraccesi, Orafi e argentieri nelle province di  Brindisi e Taranto. Nuove acquisizioni
    Marcello Gaballo, Una villa-masseria in agro di Nardò: lu Brusca. Note storiche e architettoniche
    Pier Paolo Tarsi, La memoria narrata. Invito all’opera di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
    Giuseppe Resta, Per un recupero fruibile del castello di Fulcignano in Galatone
    Teodoro De Cesare, Santa Croce in Lecce incarnazione dell’architettura salentina
    Massimo Perrone, Dalla Terra Santa alla Puglia. L’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme
    Alessandro Potenza, Musei di Terra d’Otranto. Il museo diocesano di Nardò-Gallipoli sezione di Gallipoli
    Fabrizio Suppressa, Note di architettura salentina. Calcare e calcinari nell’Arneo
    Marcello Gaballo, Tutto in una notte. La guglia di Soleto e la carcara ti li tiàuli
    La poesia – Fredy Tana, Li purceddhuzzi
    Sandro Montinaro, Le pennellate mistiche di Maria Lucia Alemanno
    Dora Liuzzi, Il mio Natale a Martina Franca
    Antonio Porzano, Maravà ovvero come scrivere un buon libro senza arrampicarsi sulle nuvole
    Melanton, Proverbi salentini

    La copertina è di Marcello Passeri-Domenico Perrone: Lecce, Santa Croce e Palazzo dei Celestini, sede dell’Amministrazione Provinciale di Lecce, www.lecce360.com

    In occasione della presentazione della Rivista nei locali del CRSEC  di Nardò, adiacenti alla chiesa del Carmine, sono state esposte le icone di Maria Lucia Alemanno

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