I Martiri di Otranto e il 1480 (VI e ultima parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

Le varie fasi di un lungo processo

Dopo una necessaria rilettura storica degli avvenimenti storici del 1480, torniamo all’origine della breve inchiesta sui martiri di Otranto. Abbiamo detto delle lungaggini del processo canonico. Ad iniziarlo fu l’arcivescovo Pietro Antonio De Capua, coadiuvato dal suo vicario A. De Beccariis, vescovo di Scutari, nel 1539 come “processo informale”, per il riconoscimento del culto degli ottocento. Con il decreto della Sacra congregazione dei Riti, del 14 dicembre 1771, firmato dall’allora pontefice Clemente XIV, venivano dichiarati “Beati”, secondo le norme predisposte da Urbano VIII[1].

Da allora una lunga fase di stallo, ha reso incerto, contraddittorio l’intero iter di avvicinamento al passaggio successivo. Nuovi dubbi, sorti intorno alla dimostrabilità del martirio, le perplessità legate ai cosiddetti prodigi riconducibili alla venerazione degli ottocento e i ritardi nella burocrazia ecclesiastica locale hanno reso in salita il processo di canonizzazione. Solo agli inizi degli anni sessanta, un nuovo improvviso risveglio scuote la chiesa diocesana di Otranto: nel 1962, infatti, l’arcivescovo Gaetano Pollio presentò istanza a Giovanni XXIII, per ottenere la canonizzazione equipollente dei Bb. Martiri. Il suo successore, mons. Nicola Riezzo nominò una commissione di “saggi”, che studiasse la questione storica, per dare una sferzata decisiva al processo: quella commissione preparò la relazione della “Positio super martyrio” (1973), ossia la raccolta di tutte le fonti documentate sul caso, approdando ad una risposta condivisa e definitiva circa le circostanze storiche del martirio. Il 5 ottobre 1980, nella ricorrenza del quinto centenario della beatificazione, Giovanni Paolo II venne ad Otranto, “per venerare i martiri”. L’arcivescovo Vincenzo Franco celebrò il processo diocesano per la causa di canonizzazione dei Bb. Martiri di Otranto, che si chiuse il 21.3.1993, e che venne ritenuto valido dalla Congregazione per le Cause dei Santi il 27 maggio 1994, durante l’episcopato di mons. Francesco Cacucci.

Il caso Pendinelli

Ma nell’episodio del 1480, c’è una storia nella storia, che nel tempo ha assunto un posto sempre più marginale nelle vicende, perdendo non solo rilevanza rispetto alla strage consumatasi il 14 agosto sulla collina della Minerva, ma venendone in qualche modo persino estromessa. Nel terribile assedio a cui Otranto viene sottoposta, molti sopravvissuti all’orrenda battaglia cercano rifugio nella cattedrale, dove il clero prega riunito intorno al proprio pastore. L’arcivescovo è Stefano Pendinelli: di questa figura, fino ad allora, si conosce poco. Sembrerebbe fosse originario di Galatina, anche se un’altra ipotesi lo fa addirittura risalire ad origine monopolitane. C’è divergenza persino sul cognome del vescovo, tradizionalmente conosciuto per l’appunto come “Pendinelli”: da testimonianze successive e minuscoli riferimenti nelle fonti risulterebbe che il reale cognome del pastore otrantino fosse quello di Agricoli o Agrecoli; taluni ritengono persino possa trattarsi di essere un appellativo, teso ad indicare le origini contadine del pastore; la critica, seppur poco attenta a questa figura, sembra essere approdata appunto alla certezza che il cognome più credibile fosse per l’appunto Agricoli. Tutt’oggi, però, la maggior parte degli scritti continua a parlarne con il più noto cognome “Pendinelli”. Siamo all’11 agosto 1480, dopo 15 giorni d’assedio, Pascià ordina l’attacco finale, nel quale riesce a sfondare, espugnando il castello.

Per le strade di Otranto i Turchi massacrano chiunque capiti loro a tiro, senza distinzione; uomini, donne e bambini trovano riparo nella cattedrale, la cui porta è difesa strenuamente come ultimo baluardo. Ma anche questa estrema valorosa resistenza presto è vinta: abbattuto il portone della chiesa, gli invasori dilagano nel tempio. Tutti i superstiti si stringono all’arcivescovo Stefano Agricoli. «Durante la notte precedente quello sventurato giorno, l’arcivescovo Stefano […] aveva confortato tutto il popolo col divino sacramento dell’Eucarestia per la battaglia del mattino seguente, che lui aveva previsto».[2] Il vescovo accoglie i nemici sulla cattedra. I turchi, davanti a questa ieratica e solenne figura, restano per un attimo interdetti; quindi,

«raggiunto l’arcivescovo che sedeva sul suo trono vestito con abiti pontificali e con in mano la croce, lo interrogarono chi fosse; ed egli intrepidamente rispose: Sono il rettore di questo popolo e indegnamente preposto alle pecore del gregge di Cristo. E dicendogli uno di loro: “Smetti di nominare Cristo, Maometto è quello che ora regna, non Cristo”, egli rispose indirizzandosi a tutti: “O miseri ed infelici, perché vi ingannate invano? Poiché Maometto, vostro legislatore, per la sua empietà soffre nell’inferno con Lucifero e gli altri demoni le meritate pene eterne; ed anche voi, se non vi convertite a Cristo e non ubbidite ai suoi comandamenti, sarete nello stesso modo cruciati con lui, in eterno.” «Aveva appena terminato di proferire queste parole quando uno di loro, impugnata la scimitarra, con un sol colpo gli recise la testa; e, così decollato sulla propria sedia, divenne martire di Cristo nell’anno del Signore 1480, l’11 di agosto»[3].

In quella cattedrale non viene risparmiato nessuno: in segno di spregio, quel tempio viene ridotto in stalla per i cavalli. Successivamente la chiesa viene trasformata in moschea e i magnifici affreschi cancellati con la calce bianca. Perché soffermarsi su questo episodio? Il vescovo Agresti trucidato durante la celebrazione eucaristica viene ritenuto una sorta di “protomartire” dell’eccidio del 1480: non è, quindi, annoverato tra quei martiri, per i quali viene richiesta la canonizzazione. Eppure, abbiamo già ribadito di quante controversie abbia suscitato il riconoscimento dell’avvenuto martirio dei Beati Antonio Pezzulla e compagni. Nell’episodio, invece, di un pastore sorpreso a celebrare l’eucaristia, massimo sacramento della fede cristiana, a cui viene imposto di non fare più menzione del nome di Cristo, e che viene ucciso per aver rifiutato quest’imposizione, appare riconoscibile una professione di fede, che si traduce inequivocabilmente in testimonianza. Forse annoverare questo personaggio e quel popolo all’episodio del martirio avrebbe potuto garantire un iter processuale meno complicato e più condiviso. Fin da subito, però, l’episodio Agresti è stato escluso dalla vicenda consumatasi sulla Minerva, diventando una tragica appendice alla battaglia civile e alla resa eroica di una città. Certo, la storia non si fa con le ipotesi, ma coi fatti. E i fatti hanno imboccato un’altra strada, piuttosto tortuosa, ma che dallo scorso luglio, sembra in qualche modo rianimarsi di speranza. Una speranza, che fa i conti con un dato incontrovertibile: il culto dei Martiri non è mai realmente decollato e anche questa componente ha rappresentato (e rappresenta) un limite significativo per tutto ciò che è relativo al processo. Ma questa è appunto un’altra storia.


[1] La beatificazione equipollente (equivalente, agli effetti pratici, a quella formale) era riservata ai casi eccezionali di quei Servi di Dio, che almeno per cento anni prima dei decreti urbaniani (1634) erano nel pacifico possesso del culto. Il “casus exceptus” o la via straordinaria, contemplata dai decreti di Urbano VIII, consiste in questo: posto come fondamentale il divieto di atti di culto ecclesiastico e pubblico a persona che non sia stata beatificata o canonizzata dalla Sede Apostolica, si faceva un’eccezione per quei casi in cui si verifica il possesso di un culto prestato già da cento anni, in rapporto alla data della promulgazione dei decreti suddetti. Per giungere alla beatificazione equipollente bisognava, tuttavia, attenersi sempre alle norme stabilite dalla Chiesa. Prima della promulgazione del Codice di diritto canonico del 1917, l’iter per la beatificazione equipollente era più breve, anche se sostanzialmente vicino alla procedura stabilita dal C.J.C. 2125-2135: se dal processo istruito risultava dimostrata l’esistenza di quell’antico culto e la sua continuazione, la Santa Sede non faceva che confermare quel culto (cf C. SALOTTI, Beatificazione, in Enciclopedia Cattolica, II, 1090-1100). Lo schema generale, nei processi di questo genere, è dato dalla informatio o difesa dell’avvocato, in una sintetica e chiara esposizione dei fatti riguardanti le virtù eroiche o il martirio e i miracoli operati per intercessione del Servo di Dio; dalle animadversiones od obiezioni del promotore della fede; dalle responsiones dell’avvocato. Al corpus degli atti processuali viene aggiunta la documentazione: se questa riguarda la informatio si chiama summarium informationis; se riguarda le obiezioni del Promotore della fede, fa parte del summarium obiectionale; se, infine, è esibita dall’avvocato insieme con le risposte, costituisce il summarium responsionis, che può essere completato anche da un summarium addictionale, cioè dall’aggiunta di altri documenti ritenuti necessari per una prova più precisa ed esauriente. Tali norme vanno generalmente seguite fin dal primo atto, – indispensabile per il proseguimento del processo -, col quale il Papa segna (firmando con il suo nome di batteisom) la commisiione d’introduzione della causa. Gli atti del processo della beatificazione dei Martiri di Otranto sono contenuti nell’alveo di questi schemi. Nel 1770 non esisteva la Sezione Storica presso la S. Congregazione dei Riti. Essa fu istituita, come è noto, da Pio XI, il 6 febbraio 1930. (ANTONACI, I processi nella causa di beatificazione dei Martiri di Otranto, cit., 1-2)

[2] A. DE FERRARIS GALATEO, La Iapigia, Galatina 1975, 55-56; si tratta della traduzione italiana del De Situ Japigiae, la cui prima edizione fu pubblicata a Basilea nel 1558. Secondo alcuni storici, l’autore aveva un legame di parentela con l’allora arcivescovo di Otranto.

[3] P. COLONNA, detto il GALATINO (1460-1540), nei Commentaria in Apocalypsin, manoscritto conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Cod. Lat. 5567, foll. 147-48), citato in A. ANTONACI, Otranto, Galatina 1976, 306-307.

 

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3.
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